Cultura e Società

“Demon Copperhead” di B. Kingsolver. Recensione di D. Federici

26/04/24
"Demon Copperhead" di B. Kingsolver. Recensione di D. Federici

Parole chiave: #infanzia maltrattata, #Dickens, #dipendenza, #resilienza

Demon Copperhead

di Barbara Kingsolver (Neri Pozza, 2023)

Recensione di Daniela Federici

Ecco quel che si chiama destino:
essere dirimpetto, e null’altro, e sempre dirimpetto.
Rilke, Ottava elegia

Premiato con il Pulitzer 2023 e dichiaratamente ispirato al David Copperfield dickensiano, questo romanzo raffigura l’umano universale della lotta contro le avversità e del rifiuto a restare assoggettati a un fato già scritto. Il protagonista è un’anima indomita che narra in prima persona la sua difficile esistenza, una soggettivazione tenacemente ingaggiata nella scommessa del vivere per il diritto a un proprio desiderio.

Prima di tutto, sono nato. C’era una discreta folla ad assistere all’evento e, come sempre, è tutto quello che ha fatto: il grosso del lavoro è toccato a me, dato che mia madre era per così dire fuori combattimento. (…) È di una ragazzina di diciott’anni che stiamo parlando, tutta sola e più incinta che mai. Il giorno che non l’avevano vista era toccato a Nance Peggot batterle alla porta, fare irruzione e trovarla svenuta sul pavimento del bagno con la sua robaccia sparsa dappertutto e io che stavo già venendo fuori. Un ostaggio viscido e iridescente come un pesce, che raccattava polvere dalle piastrelle in pvc mentre si dimenava e dibatteva perché ancora imprigionato in quel sacco in cui galleggiano i bambini prima di nascere. (…) Come un piccolo pugile bluastro. E se è così che mi sono mostrato alla prima persona che ha posato gli occhi su di me, mi sta bene. Per me vuol dire che avevo almeno la possibilità di combattere. Si, lo so, con tutti i pronostici contro. Se una madre è lunga e distesa in terra nel suo stesso piscio, in mezzo ai flaconi di pillole, e intanto prendono a sberle il bambino che ha appena scodellato urlandogli di svegliarsi, allora è facile che quel bastardino sia già fregato in partenza.

Il piccolo Damon è ribattezzato Demon Copperhead per il suo spirito discolo e la zazzera di capelli rossi (copperhead = testa di rame) ereditata da un padre morto prima della sua nascita e di cui sa solo che per la madre era stata ‘una scelta sbagliata’. Certi soprannomi ti trovano e tu gli corri incontro come un cane, fino al giorno della tua morte, e te li scrivono persino sui documenti accanto al nome vero che nessuno ricorda più

Vuole narrare la sua storia così com’è successa, con tutti i punti uniti come si deve. Un bimbetto che gioca nel ruscello fangoso dietro casa con il suo amico Maggott, nell’epoca d’oro di quando si ha qualcuno che ti guarda le spalle. Quando i precetti che nessuno formula vegliando su di te, sono una guida naturale che ti vertebra:“Non essere mai meschino in nulla, non essere mai falso, non essere mai crudele.”

Come se qualsiasi ragazzo, lasciato al compito di crescere, potesse solo progredire.

Ma poi c’è il mondo reale, quello in cui l’ambiente, invece di sostenere, intrude con le sue pretese e la sua tossicità, disorganizza, delegittima, rapina, interferisce sulla continuità dell’essere e sui processi maturativi, incidendo le sue ferite nel senso di sé, costringendo a una lotta per non andare in pezzi.

Essere un bambino è una cosa tremenda, non puoi decidere niente. Se superi quella fase e diventi adulto, è più facile dimenticare quel periodo miserabile e fingere di avere sempre saputo cosa stavi facendo. Sempre che tu sia diventato qualcuno di cui andare fiero.

Ma quando non si è fieri e non si riesce a dimenticare, si chiede il piccolo Demon?

L’infanzia a tenere sobria la madre, il sogno di vedere l’oceano e la passione per i supereroi, figure salvifiche che disegna nei momenti di scoramento o con cui trasforma bulli e adulti ostili in nemici da poter sconfiggere almeno sulla carta. Come il patrigno violento che la madre si porta a casa. 

A un certo punto i film, i fumetti e i disegni cominciarono a mescolarsi e non rimaneva più traccia di me. Solo un bambino tranquillo che mi somigliava, ma con una bestia dentro, in attesa di esplodere in una rabbia da guerriero magnetico gamma.

Se ti corichi con i serpenti, ti alzi con l’impulso di mordere.

La cattività è una schiavitù.

Eppure avevo cominciato come qualsiasi ragazzino per bene, dicevo grazie e per favore, facevo i compiti a casa e cercavo di guadagnarmi un sorriso da tutti. Giocavo per vincere con tutto il mio minuscolo orgoglio e i miei piccoli sogni. Che importava se erano sogni da seconda squadra.

A 11 anni, quando la madre muore per un’overdose di ossicodone, Demon si ritrova fra la violenza di casa e l’inferno degli affidamenti, fra amicizie sgarrupate e giorni che diventano un nido di calabroni incazzati.

Avevo cominciato a capire che essere grande e grosso per la tua età è una fregatura. Ti mandano dove serve un corpo da adulto che però non può ribellarsi.

Pensai che forse non avevo un buon odore, perché il giorno prima avevo pulito la stalla e non mi era toccato il turno della doccia. Voltai la faccia verso il finestrino, così nessuno poteva vedere se mi mettevo a piangere. Era quella, la vita che mi aspettava? Infilarmi dove la gente non mi voleva? Una volta ero qualcuno e poi ero andato a male, come il latte. Il figlio della drogata morta, un pezzetto marcio della torta americana che tutti avrebbero voluto semplicemente far sparire.

Quello della Kingsolver è anche un romanzo di denuncia sulla crisi sociale della regione degli Appalachi, una delle più depredate nella storia americana e poi abbandonata al degrado e alla povertà. Prima le miniere di carbone e le tossiche coltivazioni di tabacco, poi la deforestazione, territori dove i redneck – i bianchi di ceto sociale basso – impossibilitati ad andarsene, restano devastati dalle malattie e senza sovrastrutture. Dopo l’11 settembre si presentano anche i reclutatori dell’esercito con i bottoni scintillanti venuti a mietere il loro raccolto di futuro senza speranza e in molti rispondono alla chiamata,attirati dalla prospettiva di un lavoro pagato tra la scuola e la morte.

Tutto quello che si poteva portar via è andato… montagne scapocchiate, fiumi che scorrono neri. La mia gente è morta a forza di provarci, o si sta avviando in quella direzione, assuefatti come siamo a cercare di sopravvivere. Non abbiamo più sangue da dare, solo ferite di guerra. Follia. Un mondo di dolore, che cerca solo di farsi ammazzare.

Il morale della storia è che non puoi mai sapere quanto dolore alberga nel cuore della gente, o cosa può spingerla a fare, se ne ha modo.

Quando finalmente Demon riesce a rintracciare la nonna paterna, viene affidato a un coach che sa vedere le sue capacità e ne fa un adolescente promettente nel football.

Vivere con il coach era come girare armato. Attraversavo l’atrio e la folla si apriva…

Sembra arrivato un riscatto, la possibilità del riconoscimento di un sé da far valere come gli altri.

Io le impronte merdose della vita ce le avevo tatuate addosso: le botte, le bugie, le settimane sballato per l’erba, i mesi di fame. Io non volevo essere come quei ragazzi. Ma non volevo più nemmeno essere lo strano pesce fuor d’acqua, ero proprio stufo di esserlo. Tutto il tempo in attesa che qualcuno mi urlasse di andarmene, che non c’entravo niente con quel posto e con quelle scarpe nuove di zecca, e dovevo tornarmene in qualsiasi buco di merda dal quel fossi uscito.

… a volte ti abitui alla gente che ti guarda come se fossi spazzatura…

Come ci si libera da quel che ci ha segnati, dal male dentro?

Mi chiesi di cosa avevo bisogno per smetterla con quella sensazione di avere qualcosa di marcio dentro di me, invece di un cuore.

Ero nato per desiderare più di quello che avevo. … Ho cominciato tardi a riflettere su me stesso, e ancora non ho circoscritto il problema. Probabilmente raccontare questa storia mi aiuterà a chiarirmi le idee.

Le domande che ci facciamo sul senso della nostra vita sono anche la ricerca di una direzione.

Tutti a metterti in guardia dalle cattive influenze, ma sono le cose che hai dentro a trascinarti davvero giù. Quell’irrequietezza che hai nelle viscere, come gatti randagi impazziti per le loro faide di sangue che si aggirano nel buio delle notti senza luna. Desideri senza speranza che non smettono mai di tormentarti: parole perfette che credi di poter dire a qualcuno per costringerlo a vederti, amarti, restare. O che potresti dire al tuo specchio per la medesima ragione.

Demoni generati da cuori affamati… da madri troppo affamate… 

Il toccante protagonista della Kingsolver lo mostra bene: solo l’affetto fa sparire quella fame.

Quando si fa male in partita, Demon arriva a conoscere anche la dipendenza da oppioidi, l’ultima sciagura che la criminale corsa ai profitti delle industrie farmaceutiche ha sparso fra quelle vite infelici.

Il dolore è acqua, di quella che ti affoga. Soffochi per un po’, emergi in cerca d’aria, torni sotto. Hai paura di morire, e poi hai paura di non morire.

Se non conoscete il drago al quale davamo la caccia, le parole non bastano. La gente parla dello sballo, della botta che ti arriva, ma non è tanto quello che provi quanto quello che non provi più: la tristezza e il terrore viscerale, tutta la gente che ti ha giudicato inutile, il dolore di un ginocchio esploso…   

Pare che Odisseo fosse figlio di Sisifo.

È questo il senso da tenere saldo quando certi sviluppi della vita non concedono redenzione? Resistere in un procedere votato più alla ricerca del sentiero che al suo possesso, consapevoli dell’incertezza e della precarietà invece che ottenebrati da miraggi grandiosi?

In un tempo storico che premia le soluzioni facili e le scorciatoie fortunose o fraudolente, i veri eroi sono coloro che lottano nelle avversità mantenendosi fuori dal sequestro della distruttività?

Il negativo che può bloccare il nostro divenire in un eterno ripetersi, dannato di desolazione o violenza, può essere trasformato?

Il disagio del nostro presente, con i suoi imperativi di godimento in un tutto-e-subito che ha de-simbolizzato il limite, la rinuncia, la responsabilità come funzioni regolanti, compromette i processi psichici trasformativi e infragilisce il nostro narcisismo, anche su un piano collettivo.

L’immaginario delle storie, quello che impregna la nostra umanità fin dai suoi albori, che crea le sue regie fabulatorie ogni notte dentro le nostre menti, è a servizio della simbolizzazione che protegge lo psichico. Quando guardiamo al gioco nei bambini riconosciamo quanto quella funzione, così automatica e insopprimibile perfino nelle condizioni più drammatiche, vada ben oltre il piacere dell’evasione e sia al contempo apprendimento, strategia e pratica per affrontare le paure e le difficoltà del reale.

Siamo come marinai che devono riparare la loro nave in mare aperto usando anche i pezzi di legno alla deriva, scriveva Neurath.

Questa storia narra con un realismo acuto e profondo una vita ferita da mancanze e perdite, lo fa mostrando la forza dirimente di una spinta vitale interna e l’importanza di avere qualcuno di cui occuparsi, insegnando la quotidiana fatica della riparatività, quella autentica, senza maniacalità, che riconosce il danno subìto come quello inferto, che nelle sue cicatrici porta le tracce del lavoro psichico impiegato in una tessitura integrativa.

Fino all’ultima pagina vuoi credere che non sia finita.

La Kultur, che plasma sottilmente convinzioni e comportamenti giungendo fino alla nostra etica, con le sue narrazioni può offrirci uno sguardo da fuori su ciò che ci fa sentire condannati, aiutandoci a elaborarlo, sostenendo la ricerca di una rotta nelle tempeste, infondendo coraggio e speranza alla nostra fatica di vivere.

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