Cultura e Società

Un dialogo sulle origini : cos’è casa ? Ferroudja Allouache, D. Scotto di Fasano

16/02/24
Un dialogo sulle origini : cos’è casa ? Ferroudja Allouache, D. Scotto di Fasano

BAYA 1966 (Fatma Haddad-Mahieddine)

Parole chiave: Origini, Immigrati, Tradire, Maschera, Conflittuale

Je n’ai pas vraiment de patrie.

J’ai fait du livre ma maison.

Il sait.

E. Jabès, Le livre de l’hospitalité

DSdF: Innanzitutto, mi puoi parlare del tuo rapporto con le tue origini?

FA: Non ho un rapporto semplice con le mie origini, un rapporto pacificato. Sono turbata ogni volta che penso alle mie origini o quando alcune situazioni me le fanno riaffiorare alla memoria.

DSdF: Riaffiorare alla memoria…. Già questa frase mi pare esprima la tua consapevolezza del fatto che tu non hai – nella quotidianità – una relazione con le tue origini. Come se trasformassi il ‘provenire da’ qualcuno/qualcosa che non sei tu in un provenire da te stessa: sorta di partenogenesi…

FA : Origine: punto di partenza. Provenienza.

Qual è questo momento iniziale a cui devo volgere lo sguardo quando le situazioni mi costringono a ricordare da dove vengo, il buco da cui sono emersa?

DSdF: buco….

FA: Il termine riporta me, donna afro-algerina-francese nata in una famiglia molto modesta, a uno spazio-tempo compatto, raccolto e vivo.

È un luogo bianco ocra punteggiato dai toni verdi degli ulivi e dei fichi, un villaggio in cui la povertà mi si offriva e io la assaporavo, ogni volta, come pane raffermo. La povertà ha questo potere: dare l’illusione che sia ancora pane. Così si finisce per accontentarsene.

DSdF: Forse tu qui stai parlando del rifiuto – legittimo e più che comprensibile – dell’accontentarsi: “perché per nascita, per origine, dovrei crescere imparando a accontentarmi?”.

FA: Sono nata in un posto in mezzo al nulla, lontano dai centri urbani, dove sono cresciuta fino a quasi undici anni; un luogo dove ho pianto tanto perché mi lasciassero andare a scuola: inutilmente..

DSdF: Avevi il sogno, anzi, per meglio dire, il desiderio di studiare. Dover piangere per poterlo fare inevitabimente aliena dalle proprie origini, se l’origine è essere nata in un vuoto di tutto. Un vuoto che è un troppo pieno di dolore.

FA: Senza dubbio, se fossi nata e cresciuta in un ambiente socio-culturale benestante, avrei meno difficoltà a parlare della nozione di origine.

Ma, poiché le parole sono soprattutto sociali, la parola origine mi spinge, mio malgrado, verso questo luogo bianco ocra punteggiato da macchie verdi di ulivi e fichi e, poi, verso la Francia, verso l’Oise, dove vivono ancora la mia famiglia e alcune comunità prevalentemente africane. Vi ho trascorso quasi 17 anni.

A 23 anni, con il diploma di maturità in tasca, ho sentito pesare su di me lo sguardo di donne che pensavano che sarebbe stato meglio che mia madre mi facesse sposare piuttosto che farmi viaggiare in pullman e in treno per andare all’università nell’Île-de-France.

DSdF: Crescere sentendosi sbagliata non è semplice.

FA: Le origini sono anche questo….

E’ solo dopo essere stata respinta all’esame di Capes de Lettres (nel 2000) che ho lasciato tutto – famiglia, amici, vicini – per trasferirmi a Parigi: a 28 anni ero molto lontana dalle mie origini.

Ho tagliato i ponti tardi! Raggiungere la maggiore età non ha alcun valore per le donne del mio ambiente, soprattutto per le donne delle mie origini. Anche in Francia! Nella cultura delle mie origini, solo i genitori e i cugini governano la vita delle loro donne.

DSdF: Ricapitolando, queste dunque le ragioni per cui ascoltandoti poco fa ho pensato alla partenogenesi.

FA: Origini: ascendenza, inizio.

Ho detto che il mio rapporto con questo Paese e con l’Algeria-Africa è doloroso, complesso e conflittuale. Complesso perché non è facile da definire. Noi, ‘figli di immigrati’, siamo divisi tra due comunità: una ridotta allo spazio familiare, l’altra relativa al mondo esterno, nel quale veniamo integrati a tutto ciò che costituisce la Francia, la scuola, gli amici: il ‘fuori’. Per la prima, siamo e restiamo algerini, arabi e kabyle, proprio come i nostri genitori. La filiazione non può essere spezzata.

Per la seconda, non siamo altro che individui simili, simili, con qualche differenza. Ma siamo parte della storia del loro Paese.

DSdF: Effettivamente è complesso e doloroso, come hai detto poco fa, essere ma ‘essere non’ sia in un contesto che nell’altro all’interno dei quali si cresce e si vive. Io, pur essendo letteralmente un melting pot di provenienze e culture (ci sono alle mie spalle e dentro di me Grecia, Napoli, Sicilia, Siria, Turchia, e sono nata e cresciuta prima in Eritrea e poi in Somalia), non mi sono mai sentita ‘non’, semmai ‘più’, più di storie, di saperi, di sapori, ma comprendo (e tale riflessione è estremamente preziosa per il nostro lavoro nel gruppo di Geografie della Psicoanalisi) che essere ‘individui simili con alcune differenze’ può essere penalizzante per alcuni tanto quanto arricchente per altri. Dipende dalle origini…. Per alcuni le contaminazioni possono essere feconde[1], per altri, in termini di soggettività, mortifere.

FA: Adesso mi rendo conto che le origini non sono mai state oggetto di riflessione in famiglia. Forse perché le differenze non potevano radicarsi in questo spazio-tempo compatto. I genitori avevano formule già pronte, così semplici da non poter essere mai messe in discussione: i figli erano a loro immagine e somiglianza, punto e basta. La scuola e lo studio non cambieranno mai questa realtà.

DSdF: Lacanianamente, potremmo dire in questo ‘Reale’.

FA: Mostravamo la nostra unicità, la nostra alterità, solo quando erano in gioco due regole che non potevano essere infrante: mangiare carne di maiale e, per le donne, la verginità. Due valori sacri tenuti sotto stretta sorveglianza. Per rispetto delle origini, le madri ispezionavano regolarmente la vagina delle figlie.

Le occasioni in cui le origini finivano per segnare un confine tra i compagni francesi autoctoni e quelli immigrati erano rare. Questa era una delle occasioni che ci ricordava la nostra posizione di stranieri (ci ricordava la nostra estraneità?).

DSdF: Fatti del ‘Reale’….

FA: L’assenza di un dialogo pacificato in famiglia – ho mai conosciuto un dialogo pacificato in famiglia? – e il desiderio di essere come le altre, le compagne che davano l’impressione di avere una vita normale, hanno scavato in me la vergogna delle origini. Non potevo condividerla con le ragazze della stessa ‘cultura’ (quasi tutte nate in Francia, ma i cui genitori erano spesso originari della mia stessa città) né con i francesi. Non volevo tradire né le mie origini sociali, né la mia famiglia, né il mio Paese d’origine, e non volevo vendermi al Paese che mi ospitava.

Quanta sofferenza in mezzo a queste due opzioni.

Doloroso.

Questi sono i motivi per cui le mie origini sono state difficili da accettare. Da bambina, ma anche da grande, negli anni in cui ero alunna e studentessa, desideravo molto essere come i miei compagni di classe, assomigliare a loro, far parte di loro, ragazze e ragazzi, senza distinzioni. Mimetizzarmi e dimenticare la mia provenienza. Cancellare ogni traccia visibile o leggibile che avrebbe potuto tradirla.

DSdF: Tradirla… Una parola dal punto di vista inconscio molto significativa: da qualunque parte ci si girasse, in casi come il tuo, c’era un ‘tradire’.

FA: Anche solo il suono del mio nome di battesimo mi rivelava.. Non è francese. No, non è affatto francese.

Per molto tempo ho indossato la maschera di persona forte, realizzata, ben integrata, per nascondere il dolore di sentirmi una persona senza storia, senza nulla da dire, senza nulla di interessante da offrire…che, invece, ha tutto da prendere, tutto da imparare dal Paese ospitante.

Perché mi sentivo vuota. Incapace di sfuggire alla mia realtà, e soprattutto incapace di nasconderla. Come un’orfana che cerca solo di essere adottata. Il silenzio dei genitori, l’assenza di una storia, hanno creato un vuoto. Tutto ciò che mi tornava in mente, come una lamentela che respingevo con tutte le mie forze, era la storia dei miei genitori che continuavano a ripetere (come un ritornello) che un giorno saremmo tornati al paese, per sempre.

DSdF: Nessuna possibilità di pensarsi per sempre altrove?

FA: Conflittuale.

Gli immigrati portano sulla pelle l’impronta delle loro origini. Come una seconda natura.

Io che sono nata in quel luogo bianco e ocra punteggiato di verde, so che cosa mi resta e considero, misuro, ogni giorno, che cosa significa vivere nel Paese dove mio padre all’inizio lavorava da solo, anni prima che la famiglia si riunisse nel 1982.

Il Paese che mi ha dato tutto: studiare e sfuggire alla condizione sociale che sarebbe stata il mio destino se avessi rinunciato alla mia libertà: naturalizzarmi. Diventare insegnante.

Trasmettere.

Questa libertà ha un prezzo: voler vivere per se stessi significa rinunciare alle proprie origini, rinnegarle, rompere con esse, dicono categoricamente coloro a cui per origine dovrei assomigliare, coloro che rivendicano di appartenere a una comunità ridotta a rimanere con la memoria in un Paese in cui non vivono.

Da molto tempo sono dentro un conflitto di lealtà: abbandonare il percorso imposto dalla famiglia (spesso estesa al quartiere) o rimanervi e, in questo caso, mutilare una parte di me stessa. Cosa che ho rifiutato categoricamente di fare.

DSdF: Allora, partenogenesi, e nessuna possibilità di contaminazioni feconde….

FA: Origini: storia, mito. Il mito dell’eterno ritorno. Gli immigrati sono malati di origini. Alimentano le malattie nervose che le madri lamentano e che le medicine non sono ancora riuscite a curare. Nostalgia è l’altro nome del mito del ritorno. L’etimologia greca ricorda che nostos e algos, cioè ‘ritorno’ e ‘dolore’, traducono la patria e il dolore di non esserci.

Le origini sono l’eterno presente per i genitori (forse soprattutto per gli ultrasessantenni), un tempo che cauterizza l’assenza dei parenti. Sono la lontananza.  Determinano un tempo che coltiva la dolce illusione del ritorno. La dolce illusione che non cambia mai, non è mai cambiata, nemmeno altrove.

E ancora una volta, le origini. Un abisso senza fine.

Le vacanze estive, poche, trascorse con le famiglie allargate rimaste nella terra che abbiamo lasciato.

I genitori risparmiano per anni per poter portare con sé i figli. Il prezzo è alto e si misura con il costo della privazione: non ricordo alcuna spesa per viaggi culturali, ristoranti, giocattoli o compleanni. Per fortuna, gli amici prestavano volentieri biciclette, skateboard, pattini a rotelle…

Per me questo è il senso delle origini: genitori che risparmiano e poi recitano il ruolo degli emigrati che non hanno altra scelta che fare regali al paese lontano, mandare soldi a chi è rimasto lì. Un abisso senza fine. Mia madre continua a pagare caro ogni ritorno. Non si ferma mai per più di un mese. Mio padre è tornato in una bara per essere seppellito lì.

Questo sono le origini.

Per alcuni sono una sorta di denominazione di origine incontrollata. Ciò che chiamiamo origine/i sembra essere associato, da chi interroga lo straniero, a un segno esterno, a una traccia visibile di differenza – colore dei capelli, della pelle, accento -: “Qual è la tua origine?

La domanda è presentata in termini che fanno sempre riferimento al luogo di origine: da dove vieni? I tuoi genitori? Perché se la persona non è francese di nascita, qualcuno della famiglia deve per forza aver avuto una storia altra.

Riporre tutto ciò che non è di origine francese nella casella differenze. Proprio come una denominazione d’origine non controllata.

A forza di ricordare all’Altro la loro differenza, la loro appartenenza a uno spazio-tempo che non è familiare a chi rivendica la nazione francese come propria, gli ‘stigmatizzati’ hanno finito naturalmente per rivendicare lo stigma e brandirlo appena possibile, appena si presentano, come un legame inalienabile: ‘Sono di origine…’. Da quando vivo in Francia – e sono ormai 40 anni-  non ho mai sentito porre la domanda sulle origini a un francese di ‘origine’ da parte di un altro francese. Ovviamente, una domanda del genere non mi sarebbe mai venuta in mente di fronte ai miei compagni francesi quando ero più giovane. Anche adesso, come se immaginassi la Francia come una terra senza origine. Sono gli altri, gli stranieri che ne hanno una, che la portano dentro di sé. Come una croce. Eppure è a questo Paese che devo la mia filiazione.

DSdF: Per finire…

FA: Le mie origini? Le reinvento ogni volta che incontro qualcuno, in Francia o altrove. La mia passione per la Grecia, il suo mare, i suoi ulivi, i modi ospitali della sua gente, tutto mi ricorda l’Algeria. Ma un’Algeria che non è quella che conoscevo. Forse è quella che desidero..

DSdF: Grazie. E’ toccante quanto dici a proposito dell’Algeria desiderata, un’Algeria ‘inventata’. Un’ultima questione: pensi che quanto mi hai esposto in riferimento a te come persona si sia riflesso nelle tue opere, nel tuo lavoro? Provo a spiegarti: che legame c’è tra ciò che insegni, i temi del tuo lavoro universitario e il tuo ‘buco di origine’? Puoi fornire alcuni esempi?

FA: Da un lato, quando insegnavo francese al collège (=scuola media) (nelle classi normali e agli alunni stranieri e allofoni), credo di aver fatto tutto il possibile per non lasciare mai gli alunni con difficoltà ai margini, fuori dal cerchio. Al tempo stesso, incoraggiavo quelli ‘bravi’ a lavorare di più e a leggere più libri. Volevo nutrirli, anche se significava rimpinzarli. Dare loro ciò che non ho ricevuto da bambina, ciò che mi è mancato. È come se avessi avuto davanti a me alunni affamati e vuoti che avevano bisogno di essere ‘riempiti’. Per gli alunni francesi, ero orgogliosa di essere un’insegnante di francese, cioè di letteratura. All’epoca (tra il 2000 e il 2010, ero l’unica insegnante nordafricana di francese, gli altri colleghi nordafricani insegnavano matematica o tecnologia). Quindi la distinzione da un punto di vista istituzionale. Come insegnante di FLE/FLS (= Français Langue Etrangère, Français Langue Seconde), vedevo le carenze degli alunni stranieri/allofoni ed ero determinata ad aiutarli a raggiungere l’eccellenza, anche se partivano da una base molto bassa. facendoli lavorare su testi letterari francesi e francofoni (di autori africani e nordafricani), consolidavo la loro padronanza della lingua e arricchivo il loro patrimonio culturale! All’università, ho esteso questo approccio a testi in lingua francese di autori provenienti da tutto il mondo (Iran, Giappone, Afghanistan, Oceano Indiano, ecc.), stimolando gli studenti a riflettere su questioni socio-antropologiche (rapporti di dominazione, peso delle tradizioni e delle religioni, nozione di cultura, ecc.)

DSdF: In che misura le tue esperienze di vita hanno influenzato il modo in cui scegli e pratichi il tuo lavoro? Puoi fornire alcuni esempi?

FA: Resto convinta che la lettura di testi e la letteratura in generale possono cambiare le rappresentazioni degli studenti. Il confronto di idee durante le lezioni e i punti di vista divergenti costringono tutti ad ascoltare e, al tempo stesso, ad accogliere un punto di vista particolare, un’opinione che può disturbare chi è ‘sicuro’ di sé. I testi letterari sono portatori di storia, di viaggi (esilio, cambio di lingua, violenza…) che parlano agli studenti, li interrogano o mettono in discussione le loro certezze (questo vale soprattutto per gli scrittori degli stessi Paesi, i Paesi di ‘origine’ che gli studenti pensano di conoscere). Per esempio, ho tenuto un corso su “Magia e stregoneria nella letteratura francese: Africa, Maghreb e Antille“. L’organizzazione del corso, che si basa sulla co-costruzione del sapere, permette la circolazione dei punti di vista, anche quelli più virulenti. Il modo in cui viene gestita la parola, l’obbligo di leggere e argomentare, spesso attenua le tensioni che possono sorgere, il più delle volte inaspettate. E gli studenti sanno che la loro voce è ascoltata in classe, nella misura in cui si affidano ai testi, alla loro lettura e alle riflessioni che ne traggono.

DSdF: E infine: il tuo lavoro ha qualcosa a che fare con il tema dell’autobiografia linguistica? Se sì, puoi fornire alcuni esempi?

FA: Sì, credo che il coinvolgimento richiesto da ciascuno dei miei corsi (laurea e master), che si basano sulla condivisione delle conoscenze e sul lavoro di gruppo (insegnamento basato su progetti), impedisce di ridurre gli studenti al loro status di ‘studenti’; al contrario, vengono coinvolti come individui consapevoli delle loro competenze, capacità, conoscenze e del potere che possono avere sul loro ambiente immediato. Per quanto possibile, cerco sempre di far scrivere agli studenti un’autobiografia linguistica (oltre alle lezioni). Questa autobiografia viene letta e commentata da me, in modo che un punto possa essere approfondito, un’idea sviluppata… Il frutto di questo lavoro viene spesso pubblicato in un libretto A5 che gli studenti universitari e post-universitari ricevono con entusiasmo.  Naturalmente, scrivo anche la mia Autobiografia Linguistica, che viene inclusa nel libretto finale.

Ferroudja Allouache

MCF Littératures française et francophones à l’Université Paris 8 Vincennes – Saint-Denis


[1] Contaminazioni feconde titolava il n.1/2004 della rivista della Società Psicoanalitica Italiana Psiche.

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