Cultura e Società

“Il disagio della sera”di M.L. Rijneveld. Recensione di D. Federici

9/10/23
Bozza automatica 61

Il disagio della sera

di Marieke Lucas Rijneveld (Nutrimenti, 2019)

recensione di Daniela Federici

parole chiave: #lutto, #deficit, #disinvestimento

Oh, Rosa, ti sei ammalata!

L’invisibile verme che vola nella notte

nell’ululante tempesta,

ha scovato il tuo letto di gioia vermiglia

e il suo oscuro amore segreto

distrugge la tua vita.

W. Blake, La rosa malata

Jas ha dieci anni quando il fratello maggiore Matthies, uscito a pattinare sul ghiaccio fino all’altra riva del lago, cade in acqua senza trovare ritorno. La morte prende il suo posto in casa Mulder e ogni cosa di quel natale atteso, l’abete con la sua scia di aghi e brillantini, le teglie cucinate dalla mamma, è consegnato ai vicini che vengono silenziosi in visita, indugiando sulla porta a pulirsi le scarpe più a lungo del necessario. 

In seguito mi capitò di pensare che il vuoto fosse cominciato da lì, da quei due giorni di vacanze di Natale che furono dati via chiusi nelle casseruoleperfino il rotolo di spago da carne bianco e rosso che avremmo potuto usare per legare i nostri corpi così da non disfarci e cadere a fettine.

La giovane promessa letteraria olandese, che con questo romanzo d’esordio ha vinto il Man Booker Prize, ha ricamato una voce narrante infantile acuta e struggente, che descrive con sorprendente sapienza le sorti della sottrazione improvvisa di un ambiente supportivo, con l’attacco al mentale e il danno alla crescita che comporta. La piccola protagonista inanella pensieri, sensazioni e folgoranti metafore, a dipingere l’allerta dello sguardo dei bambini sulla presenza adulta che si distoglie e si raffredda, la penosa costruzione dei labirinti di adattamento per ritrovare una vena di tepore, il progressivo impoverimento della personalità che cede lentamente la sua sostanza vivente.

scopro le preoccupazioni dentro di me e la notte mi tengono sveglia, sembrano crescere. Ora che la mamma sta diventando più magra e i suoi vestiti più larghi, ho paura che morirà presto e che papà se ne andrà con lei. Li seguo per tutto il giorno, così non possono sparire come se niente fosse. Li custodisco negli angoli degli occhi, insieme alle lacrime per Matthies.  

Potessi cancellare le rughe intorno agli occhi e alla bocca della mamma, e premerle i pollici nelle guance per far tornare le fossette, le sue labbra un papavero che non sboccia mai.

A volte ho paura che sia colpa nostra, che la stiamo mangiucchiando da dentro, come fanno i figli del tessitore di filo nero. Nell’ora di scienze la maestra ha spiegato che dopo la schiusa delle uova la mamma ragno si offre alla nidiata: i ragnetti affamati se la pappano tutta, senza avanzare nemmeno una zampetta.

In chiesa, alla preghiera per il raccolto, sbircio papà attraverso le ciglia. Ha le guance bagnate. Forse non stiamo pregando per le piante, ma per il raccolto di tutti i bambini del paese. Perché diventino grandi e forti. E forse adesso papà si rende conto di non aver badato ai suoi campi, di aver addirittura lasciato che l’acqua ne sommergesse uno. Oltre al cibo e ai vestiti, abbiamo bisogno di attenzione. Sembrano scordarsene sempre di più.

Jas si chiude dentro il suo giaccone come uno strato protettivo, riempiendo le tasche dei resti degli inelaborati che non ha con chi condividere. Il mio cuore non lo conosce nessuno. È ben nascosto sotto il giaccone, alla pelle e alle costole. … nessuno si preoccupa più di sapere se fa abbastanza battiti all’ora, nessuno si spaventa quando si ferma per un attimo o comincia a martellare così forte che deve essere per la paura…

Una bambina che osserva tutto intensamente: il fratello Obbe, poco più grande di lei, che tutta la notte sbatte agitato la testa contro la testiera del letto e di giorno se la tocca di continuo nervosamente, come se la fontanella potesse riaprirsi e i pensieri rovesciare fuori il loro disordine. E la piccola Hanna, il suo corpicino magro tremava come una libellula: avrei voluto prenderla tra le dita e alitarle addosso per scaldarla.

È uno smarrimento logorante quello di Jas, una solitudine di allerte che ammalano nel profondo, sfibrando la possibilità di confidare in un contenimento; l’alleanza possibile rimane quella fra bimbi sperduti o con gli animali della fattoria, i luoghi segreti e la ricerca di riti strutturanti a far sponda a ciò che si sfalda. Perché in casa imperano una sedia vuota, un barattolo di cioccolata bicolore che nessuno tocca più per paura di non saper impedire che il bianco precipiti nel nero, un silenzio che non può dire quel che lentamente si spegne dentro. 

Sciacquo lo straccio sotto al rubinetto e vado accanto alla mamma, sempre più vicina, nella speranza che mi tocchi per sbaglio mentre porta la padella verso i piatti disposti sul piano della cucina. O anche solo che mi sfiori. Pelle contro pelle, fame contro fame.

… vorrei che mi dicessero che non ho fatto niente di sbagliato.

Il bisogno disperante di sentirsi al sicuro brama di dare una spiegazione a quelle tenebre improvvise, necessita di tornare a illudersi di poter controllare qualcosa, di ricostruire un ordine offrendo patti e sacrifici alla vita, esperimenti vertiginosi sul buio che flirtano con la morte.

sentir pulsare il sangue nelle venuzze della fronte quando ero a letto e cercavo di trattenere il respiro per capire la morte, o facevo la candela così a lungo che tutto il sangue mi scendeva alla testa come cera liquida… Avevo trattenuto il respiro e contato… ancora un po’ e sarei riuscita a trattenerlo abbastanza da potermi tuffare e recuperare Matthies dal sonno in cui era caduto…

… penso a cosa si deve provare a soffocare lentamente…

… finché avremo desideri saremo al riparo dalla morte, che incombe sulla fattoria come la puzza soffocante dopo un giorno in cui si è dato il concime.

Quella descritta attraverso i pensieri di Jas è la tenace lotta contro il non-essere, il bivio fra il perdersi annientante e una qualche forma residua di esistenza, estenuata, barricata.

Il dolore è un sacchetto di biglie vuote.

Sono pagine di una tessitura toccante che raccontano l’angoscia in cui ci si dibatte per mantenersi a galla, avvinghiati a una rabbia macilenta, il dolore che scava una cuccia fetida di lenta disaffezione.

Ogni perdita ha in sé tutti i precedenti tentativi di tenere con te qualcosa che non volevi perdere, e che però devi lasciare andare. Da un sacchetto pieno di splendide biglie a un fratello. Nella perdita troviamo noi stessi e siamo ciò che siamo: esseri vulnerabili come pulcini di storno ancora implumi, che ogni tanto cadono giù dal nido e sperano di essere recuperati. Piango per le mucche, piango per i Re Magi, piango per compassione, e poi piango per la ridicola me avvolta in un giaccone di paura…

Questo romanzo mostra in presa diretta la tragedia del non vedersi più riflessi negli occhi della madre, l’orlo rovinoso di viversi come non esistenti. E i tre fratelli portati in scena sembrano rappresentare le varie soluzioni che l’anima riesce a imbastire nel crocevia fra integrità e disperazione.

Senza trovare soccorso in una mente adulta che bonifichi i contenuti spaventosi, che plasmi l’urgenza delle angosce, le richieste affettive e l’aumento dell’ostilità, tutto si spinge sul concreto, in una sovrabbondanza di percezioni sensoriali in luogo della consapevolezza riflessiva; è un attacco al legame, alla vita di fantasia e alla capacità di rappresentare gli affetti. Un’invasiva attività proiettiva che tenta di liberarsi della pressione, rende le emozioni degli atti più che dei modi di comunicare e sapere di sé per autoregolarsi.

Nella giostra frenetica di eccitazione e sollievo, Obbe sembra incarnare la via veemente dell’esteriorizzazione. Ricorda le descrizioni della McDougall sulla perversione come forma alessitimica, l’ottundimento de-umanizzante dei fenomeni dissociativi, quel gusto per la sofferenza che forza gli altri a rappresentare una parte della propria realtà psichica. Ma la negazione della propria identità erode lentamente il legame connettivo fra le rappresentazioni di sé e quelle degli oggetti, compromettendo la possibilità di costruire o mantenere un introietto positivo.

Attraverso la finestra vediamo i nostri genitori seduti sul divano. Visti di spalle sembrano i monconi di candela nelle nostre lanterne. Con un po’ di sputo li spegniamo.

Un giorno al lupo cattivo avevano aperto la pancia per salvare i sette capretti e, prima di ricucirlo, li avevano sostituiti con dei sassi. Anche alla mamma devono aver messo una pietra al posto di quello che c’era prima, mi dico, ecco perché a volte è così dura e fredda…

Mi viene da pensare che forse papà non gratta via le stelle soltanto dal soffitto della mia stanza, ma anche dal cielo, e che per questo tutto sembra diventare più nero e Obbe più cattivo: ci siamo smarriti e non c’è nessuno a cui chiedere la strada.

Una piccola voce nella tempesta che bisbiglia il male, il vuoto aspirato che si nutre della sua emorragia, una sirena maligna, a un tempo irresistibile e spaventosa.

Solo la violenza dentro di me fa rumore, cresce, e cresce, come il dolore. Ma il dolore chiede più spazio, la violenza se lo prende e basta.

Forse i desideri di morte sono contagiosi, o fanno come i pidocchi nella classe di Hanna e saltano da una testa all’altra. … Darei qualsiasi cosa per alzarmi in aria, diventare di porcellana, essere lasciata cadere accidentalmente e frantumarmi in un numero infinito di pezzettini, perché poi qualcuno si accorga che sono rotta, che non servo più a niente… Sempre più spesso mi succede di sperare che qualcuno mi trovi. Che qualcuno mi faccia trovare me stessa…

Jas rende con una potenza commovente l’affettività prostrata, i silenzi esangui, lo svanire dei colori e dello spirito, come il Nulla che divora Fantàsia, e l’urgenza di presenze che tornino a far recedere il buio che nientifica.

Provo a pensare al mio salvatore, così che il senso di oppressione intorno allo stomaco sparisca e faccia spazio a un desiderio. …  finalmente qualcuno che farà lo sforzo di venire a vedere quanta vita è rimasta dentro di me. Qualcuno che faccia un’orecchietta, come nei libri per segnarsi il punto in cui ci si è fermati, così saprei qual è il mio posto e da dove devo riprendere a vivere la mia storia… 

… per un istante spero che papà venga da me e mi abbracci così forte da farmi sentire i bottoni della sua tuta sulla guancia, da far si che possa perdermi nel desiderio di stringerlo fortissimo anch’io – ma l’unica cosa in cui posso perdermi in questo momento è la perdita stessa. … Osservo dall’alto la sua riga in mezzo. Ha la testa che sembra una capocchia di vite. Certe volte vorrei piantarlo nel pavimento, così gli rimarrebbero solo due cose da fare: guardare e ascoltare, ascoltare moltissimo.

Mia sorella è l’unica a capire perché non mi tolgo il giaccone. È l’unica che cerca di inventarsi soluzioni… lei è luminosa mentre io mi sto facendo sempre più buia…

Tutti finiamo per dover combattere il buio da soli. Sempre più spesso nella mia testa è tutto nero, mentre nella testa di Hanna va a giornate: ogni tanto lei sbuca in superficie. Io invece, non so più come uscire da questo stramaledetto labirinto di cunicoli… 

Hanna è l’anima che custodisce una riserva ancora sufficiente del materno, con la sua seduzione a vivere, l’indicazione della strada per resistere nelle tenebre.

Non dice niente, ma so che sta pensando. Lei ci riesce, a pensare prima di dire qualcosa. Io funziono alla rovescia. Se provo a pensare all’improvviso ho la testa vuota e le parole fanno come quelle mucche che non vogliono entrare nei box: si mettono al posto sbagliato, dove non posso raggiungerle.

Jas è sul crinale: da una parte il non-sentire e il disfarsi della presenza di quando resta vero solo il negativo; dall’altra, la possibilità di essere ancora in contatto, che è un orlo aguzzo cui rimanere aggrappati.

Quando una persona è in ipotermia bisogna maneggiarla come la porcellana. Il minimo tocco può essere fatale.

L’altra riva del lago si fa luogo di insidie mortali e al contempo speranza di oltrepassare. Il disinvestimento, come quel ghiaccio fragile, può fungere da autoriparazione e funzionamento di sopravvivenza disperata contro la morte psichica. Senza quello strato protettivo mi sarei ammalata…

La lettura di questo romanzo è l’esperienza intensa dell’area fra il deserto della rinuncia e il lumino fioco di una possibilità, sul rischio – che da analisti conosciamo molto bene – che abita le brecce, territori delicati di frane e opportunità:

… se da me potrebbe crescere una nuova vita, una mia versione senza giaccone.

McDougall, J. (1989) Teatri del corpo, Cortina 1990

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