
Parole chiave: isolamento, rimozione, memoria, bianco
Il dolore crea l’inverno
di Matteo Porru (Garzanti, 2023)
Recensione di Daniela Federici
Il passato non è dietro di noi,
è dentro di noi.
Ogden, Vite non vissute
Elia ha un male dentro che custodisce come un segreto, una massa di vita trascorsa segnata da una crepa lunga e profonda… Ha vissuto tanto a lungo da potersi permettere di dimenticare il tempo e talmente poche cose da non averlo mai sentito trascorrere.
La vita gli è nevicata addosso. … Si è arreso al freddo e ha imparato a lasciarsi cadere, come fa da tempo il bianco del mondo. L’ha fatto perché non aveva più scelta, perché ogni cosa ha iniziato a crollare.
Dicono che abbia iniziato a vagabondare fra i ghiacci, come se potesse riuscire a ritrovarsi, nell’inverno che ha in testa.
Elia spazza la neve liberando strade quasi deserte in un piccolo paesino affacciato al mare Artico, un paesaggio algido, desolato, dove abitano esseri umani dimenticati dal mondo e dal tempo, figure evanescenti, spesso sinistre, nate dal gelo. Non hanno fantasia, ma un grande meccanismo di replica di azioni uguali, tutte inutili. … Si rivolgono la parola solo davanti all’assoluta necessità di dover comunicare e, in quei rari momenti in cui si ritrovano uno davanti all’altro, fanno tutto il possibile per evitare anche il contatto delle loro ombre. L’unico senso di appartenenza che li unisce è la fragilità. E più che accettarla, ognuno la conserva, la accumula, come fosse l’unica e intima essenza che fa scorrere il sangue nelle arterie. La solitudine mangia ogni loro azione e anche il desiderio viscerale di urlare per chiedere aiuto, per non morire e cercare conforto, un contatto. Parlano tanto con loro stessi e, più lo fanno, più perdono il sonno e il senso distorto delle cose che accadono. Perché ogni parola, in quel paese, in quelle teste, è una voce del verbo soccombere. Hanno paura di uscire, di viaggiare, perché non l’hanno mai fatto e l’idea di lasciare, anche per poco, l’essenziale che li tiene in vita, quasi li stordisce. Stanno bene così, con lo stretto necessario a portata di mano e con la sicurezza incrollabile che resterà tutto uguale.
La solitudine ghiacciata delle ambientazioni in cui Porru avviluppa il lettore, suona tanto lontana e aliena quanto intimamente profonda: quel paesaggio siberiano, enclave di esistenze smarrite prigioniere del gelo, si fa metafora della condizione umana travolta dal dolore. Il bianco che isola gli uni dagli altri e impone protezioni estreme dalle tempeste, risuona di una condizione psichica vetrosa, prossima a spezzarsi, che porta la traccia di colonizzazioni traumatiche. Il bianco è il colore di ogni psichismo che precipita in un fondo lacunoso delle rappresentazioni, nel ‘nulla’ dell’impossibilità di pensare la sofferenza, quando la vita mentale, sopraffatta, si contrae e si svuota degli affetti, mirando a un funzionamento di sopravvivenza contro la definitiva morte psichica.
L’unico modo per sopravvivere, se si sopravvive, è morire, abbandonare la testa, distaccarsi. L’unico modo per affrontare il buio è semplicemente spegnersi…
Elia guarda il vuoto. Non è vivo, ma nemmeno morto, non ancora, non del tutto. Il freddo gli divora la polpa dei pensieri e mangia i momenti, le idee. I segreti, i rimorsi, tutti i sogni vanno in necrosi e ciò che rimane è una polvere incolore ed eterna. Qualcuno pensa sia l’anima. Altri, cenere.
Il bianco diviene una rappresentazione dell’inelaborato in cui si precipita e al contempo ci si ripara, forma larvale e liminare dell’esistenza nell’eterna lotta umana fra consistere e rinunciare, svanire o ricordare, un ristagno che è diserzione da ogni desiderio.
Non ha mai capito se i tremori che ha alla guida siano dovuti al freddo o a qualche paura inconscia, ma costante. Forse il corpo reagisce così a una vita in gabbia e inizia a cedere, non riuscendo a evadere dal bianco che ha intorno. … gli rimangono solo immagini accartocciate, senza collante, tanta carta straccia sparsa in testa. Negli anni le ha raccolte, le ha strappate e le ha cercate quando ha avuto bisogno, e ne ha avuto parecchio, di capirsi meglio, di fare luce. Ora vive al buio e tenta di conservarle nel terrore che gli ceda la presa e che volino via. Le tiene molto forte pur di non perdersi…
“Le cose cadono a pezzi, il centro non tiene”, scriveva Yeats(Il secondo avvento).
Il protagonista del toccante romanzo di Porru raffigura con potenza tragica il crollo dell’esistenza interiore: i suoi demoni… lo minacciano, lo accompagnano in posti lontani da quelli in cui ha deciso di stare. Farsi forza non aiuta, serve solo scomparire … c’è il ghiaccio all’interno e il male, col dolore, crea l’inverno.
Sua madre glielo aveva detto cosa fa la neve: copre tutto. Tutto quello che vedi, che senti, che provi, ogni tuo sogno muore se la neve lo ricopre… Noi cambiamo il corso delle cose, figlio mio. Dove cade la neve, noi la leviamo. Tiriamo fuori ciò che il destino vuole nascondere… La neve ci tenta.
Marea bianca di rimozione, che prova a silenziare e dislocare altrove il dolore per renderlo tollerabile, è una colorazione melanconica che rinuncia alla vita che cresce, che intreccia il ritiro con un’esigenza non meno assoluta rivolta all’oggetto: la fantasia residua di essere soccorsi, che qualcuno venga a salvare.
Il letargo è il mondo che attende…
E nel pieno di una tormenta di neve, in quel paesino artico dimenticato dal mondo arriva un gruppo di geologi in cerca di un giacimento di petrolio. Una rivoluzione in quel silenzio chiuso e refrattario: il rumore del ghiaccio che cede. È un suono strano, mai sentito, e sveglia tutti, compreso Elia. … Rumore. Viene da fuori, come se sorgesse… è una magia, come se qualcuno avesse rotto il sortilegio, quella maledizione terribile che li aveva incatenati al nulla per tanto, per troppo tempo.
Improvvisamente in quel luogo in cui ognuno viveva segregato dal mondo, per non pensare neanche un istante al dolore di essere avvolto dal buio, in cui la natura stessa sembrava aver sviluppato un’irrefrenabile e malata assuefazione a voler oscurare, nascondere, far nevicare tutto il bianco del mondo pur di eliminare ogni traccia di colore, di ricordi, di passato, tornano a riecheggiare musica ed emozioni.
E con esse vengono a galla le cose nascoste e riemergono dal fondale tutti i ricordi del male
sofferto a cui Elia aveva legato un piombo e lasciato annegare.
Ciò che nel suo mondo interno era stato scisso, fa ritorno insieme alla seduzione alla vita.
Sai che differenza c’è fra ricordo e rimpianto? … Il ricordo si muove, il rimpianto no: è freddo, fermo e preme su tutto. Il ricordo lo puoi cancellare, modificare. Il rimpianto rimane, non va mai via, non si copre, non si arrende.
E quando riemergono i segreti, è la neve di dentro quella da spalare, il dolore del suo inverno.
All’inferno, anche un angelo diventa un demone, Elia lo sa.
Ricordare è un richiamo al cuore, è pensare e portarne il peso.
Mi trattano come un mostro, ma non ci arrivano a capire che siamo tutti fatti di carne e neve… in ogni testa c’è l’inverno, amico mio. Ma per quanto possiamo e vogliamo scegliere, non potremo mai sapere quanta vita, quanta neve ci cadrà addosso, e quanta dentro. Crediamo di essere angeli in terra solo perché siamo stati educati alle buone maniere… ci professiamo puri, con la coscienza cristallina, senza elucubrazioni. Ma cosa succederebbe se, anche solo per un istante, si sciogliesse tutta la neve del mondo? Cosa verrebbe fuori?
È il potere del ricordo a trasformare un uomo. A renderlo un altro, se stesso o nessuno. Solo quel potere può farne un eroe, un cattivo o entrambi.
Matteo Porru mostra mirabilmente la maestria delle invenzioni narrative a dar forma all’indicibile. La sua è una storia intensa e toccante, illuminata da una scrittura poetica, evocativa, ipnotica, che racconta della lotta umana per rimanere vivi nel dolore, della necessità che ogni esistenza ha, di un interlocutore che ci rispecchi in modo vitale, dei labirinti in cui nascondersi e del rischio di trovarsi, che è pur sempre l’unica condizione per non perdersi nel gelo, per non morire da vivi.