Cultura e Società

“Il peso” di L. Moore. Recensione di D. Federici

5/12/22
"Il peso" di L. Moore. Recensione di D. Federici

Parole chiave: #solitudine, #disinvestimento, #obesità, #speranza

IL PESO

di Liz Moore (NNE, 2022)

di Daniela Federici

… quando questo vuoto veniva alla luce

lei non era altro che un’enorme fame.

Winnicott, Niente al centro

Una poetica storia di solitudini tratteggiata con una scrittura limpida, essenziale, capace di dare consistenza al quotidiano della sofferenza che sprofonda nell’isolamento senza clamori, quando l’animo si quieta nella rinuncia alla speranza, per non riesporsi all’angoscia della delusione e del rifiuto.

Il peso cui allude il titolo non è solo quello del protagonista, è il fardello esistenziale dell’umano. Perché pensare, come sentire, significa cimentarsi con un peso.

Arthur Opp, ex professore di letteratura, è imprigionato in un corpo che nel suo espandersi ha costruito un riparo. Da anni ormai non esce dalla sua casa di Brooklyn, che gli si è stretta intorno come un bozzolo: i piani superiori – che non riesce più a raggiungere – lasciati a coprirsi di polvere, sono lo specchio di uno spazio d’esistenza che ha smarrito buona parte delle sue potenzialità e serra i ranghi contro l’assedio del vivere.

C’era qualcosa di deliziosamente romantico nel sentirmi completamente solo e mi ripetevo che questo mi rendeva più nobile e che la mia solitudine aveva uno scopo, che doveva averlo.

Ogni giorno qualcuno perde il contatto con il mondo e diventa un nobile eremita, connesso solo con se stesso, un serpente che si morde la coda e che poi deve cercare con determinazione l’aiuto della superanima della solitudine, deve farlo, altrimenti morirà. E poi diventa come me, e la superanima si espande con amore, con generosità, e l’accoglie come un membro di un club segreto: tutte le persone del mondo che sono sole o malate o molto tristi.

Quando ero bambino… mi sentivo destinato alla solitudine, certissimo che un giorno mi avrebbe trovato, così quando è accaduto non mi sono stupito e l’ho perfino salutata con gioia.

Dalla soglia di casa Arthur riceve pacchi e offre la maschera di una pacifica quotidianità: molto abituato al mio piccolo mondo, che dopotutto non è affatto male

L’unica breccia nelle mura del suo congedo dal mondo sono le lettere di Charlene, ex allieva del suo corso di letteratura. Da anni le scrive di sé omettendo e inventando per la vergogna di rivelare l’isolamento desolato in cui si è chiuso. Una corrispondenza con cui evade temporaneamente dal vuoto immobile della sua esistenza, soffiando sulle braci del rimpianto, dell’immagine di un futuro che poteva essere diverso da quel lento e inesorabile morire del suo quotidiano.

Quando Charlene gli rivela di aver avuto un figlio, Kel, e gli chiede di aiutarlo a preparare la lettera per il college, l’occasione perduta del passato si veste a festa dei colori di una possibilità, di tornare a contare qualcosa per qualcuno, di sentirsi di nuovo nobile e degno, di ritrovare un senso. In una tempesta di emozioni, Arthur li invita entrambi di lì a un paio di settimane. 

Questo mi darà il tempo di abbellire la casa e me stesso. Mi sento felice e vivo

Una voce narrante intima e dolente racconta il peso del proprio passato, l’infanzia segnata dall’abbandono del padre, la rinuncia all’insegnamento fino a quella lenta e volontaria segregazione.

A toccare in modo commovente è il momento in cui il protagonista si trova a fronteggiare il ‘traumatico’ di lasciare entrare nel suo bozzolo una giovane donna delle pulizie.

Quando è entrata in casa mia è stato come se si rompesse un incantesimo. Le mie pulsazioni sono aumentate, dentro mi sono sentito crollare, e poi ho provato vergogna

È stato un brutto momento. … mi sono reso esattamente conto di come appaio, sempre, agli occhi di chi mi guarda.

Quella figura muta e discreta che si aggira nell’accumulo caotico delle cose, spezza il sigillo del pudore, lasciando Arthur esposto al disperante timore della propria impresentabilità, la certezza che l’altro vedrà quel senso di sé segreto e squalificato che ha smesso di considerare umano e condivisibile. Pichon-Rivière lo definisce laidezza interiore, il senso di non valere abbastanza.

Lo sguardo dell’altro diventa il precipizio che si immagina sentenzierà quel disvalore, la condanna che alberga inappellabile nei non amati.

È uno di quei passaggi che rendono i personaggi di un libro rappresentanti di qualcosa di universale.

Si può sentire il dilemma interiore che arpiona l’animo del protagonista, il bilico fra richiudersi o sfidare le angosce della propria nudità indifesa: vale la pena tutta quella sofferenza per l’esile promessa che l’altro possa smentire i propri fantasmi, per la possibilità barricata nelle difese di riuscire a guardarsi con meno vergogna e disperazione?

È come uscire dalla caverna di Platone, gli occhi ormai assuefatti alle proprie ombre, feriti dalla luce improvvisa e accecante di una realtà incontrollabile ma improvvisamente aperta e possibile.

Ho abbassato un attimo la guardia e ho aperto il mio cuore e ci ho lasciato entrare un sacco di dolore che mi era rimasto accanto per gran parte della vita… 

L’Autrice ha uno stile ammirevole nel lasciar emergere senza sentimentalismi il languore che si spande da una presenza che rompe l’isolamento e rianima la consistenza delle cose che tocca; ma così facendo ravviva anche i morsi del desiderio e il dolore sopito della mancanza. Lo sappiamo bene da psicoanalisti come il ‘fare breccia’ sia anche un po’ rinnovare il traumatico.

La capacità che Liz Moore ha di affrescare le parabole di questi sentimenti dal dentro dei suoi protagonisti, impiega un suggestivo gioco di specchi fra Arthur e Kel, nel loro alternarsi come voci narranti.

Il ragazzo, giovane promessa del baseball che sta attraversando gli affanni individuativi, vive all’ombra della cupezza materna, una presenza imbarazzante da tempo preda dell’alcool, in cui stenta a riconoscerequella mamma che mi salvava dalle cose che immaginavo. Charlene, disfatta una propria possibilità realizzativa, è aggrappata a un progetto di riscatto per il figlio che ha la forma del proprio desiderio mancato, mentre Kel è proteso verso il sogno sportivo condiviso con quel padre che li ha abbandonati quando lui era piccolo e che spera ancora di vedere riapparire sugli spalti richiamato dal suo successo.

Ma non è facile ambire a diventare quando il peso della realtà mette vento contrario e il tarlo di un senso di inadeguatezza fa temere che giocarsela rivelerà il bluff che si pensa di essere.

Mi sento come se fossi stato finalmente scoperto.

Quando tutto va a rotoli e la paura di fallire è così concreta da poter diventare una profezia che si auto-avvera, la prospettiva della rinuncia è un sollievo.  

Erano fantasie ambigue. Contenevano qualche frammento di piacere. Il piacere di provare pietà per me stesso. Il piacere di piombare finalmente nel dolore dopo essere rimasto sospeso sopra la sua voragine.

Quando lo spettro della solitudine degli incompresi albeggia nella vita del ragazzo, sembra di vedere un giovane Arthur al bivio con la resa.

A un tratto non voglio sapere niente: voglio restare orfano per sempre, voglio ripiegarmi in me stesso fino a cessare di esistere, voglio vivere nella casa di mia madre e non uscire mai più. Voglio ordinare tutto per posta e non avere né amici né parenti, voglio essere io la mia unica famiglia…

Per chi ha amato Stoner di John Williams, ne ritroverà alcune atmosfere. Anche Liz Moore affida l’esplorazione dell’umano all’interiorità commovente di persone comuni, non baciate da un talento particolare, vulnerabili sconfitti dalla vita o avvinti da profonde insicurezze che li sospingono ai margini.

La solitudine è un’emozione strutturante perché nella separazione ci definiamo e nella capacità di essere soli in presenza di qualcuno c’è una misura di ciò che è sano del funzionamento psichico. E non significa necessariamente isolamento – si pensi al diverso portato dei termini loneliness (che include l’idea di abbandono, isolamento e desolazione) e aloneness (che si riferisce più semplicemente all’essere soli).

È ampio l’arco delle forme di smarrimento, chiusure e ritiri con cui si esprime la sofferenza, con cui essa può torturare dall’interno e lacerare i legami con il mondo e con gli altri. Molta della funzione terapeutica è rivolta a mantenere pervio quel confine, ad aver cura dell’ansia del contatto, dell’intimità, della dipendenza, la possibilità di sottrarre una persona dal precipitare nel non-senso e in un isolamento assoluto, dove va perduta l’aspettativa che una relazione sia ancora possibile e che i propri vissuti risultino comunicabili. L’esistenza nuda di cui parla Binswanger, la solitudine di quando ci si crede gli unici a provare quel male e si è perduta ogni speranza.

Liz Moore colloca i suoi protagonisti a un crocicchio in cui è ancora possibile la scelta di rischiare il vivere. Poi ogni vertigine è insieme paura di cadere e voglia di volare, e ogni volo implica la perdita di un appoggio che, perfino nella sua disfunzionalità, ci offre una sicurezza.

Si. Lascio che le persone mi aiutino. Sento che mi sto aprendo, ma mi sento anche come se stessi morendo.

In filigrana la speranza di poter non restare da soli a far fronte all’impeto della tempesta, senza nascondersi le angosce che abitano irriducibilmente il crinale.

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