Cultura e Società

“Il re ombra” di M. Mengiste e “La linea del colore” di I. Scego. Recensioni di D. Scotto di Fasano

1/03/22
"Il re ombra" di M. Mengiste e "La linea del colore" di I. Scego. Recensioni di D. Scotto di Fasano

Il re ombra, di Maaza Mengiste (Einaudi 2019)

La linea del colore, di Igiaba Scego (Bompiani 2020)

a cura di Daniela Scotto di Fasano

Parole chiave: #razzismo, #donne, #violenza, #resilienza

Due donne – Maaza Mengiste e Igiaba Scego -, due libri – Il Re ombraLa linea del colore, due le resistenze descritte, ai limiti della sopravvivenza, tanto fisica quanto psichica quanto morale.

Scelgo di parlare dei due romanzi contemporaneamente per intrecciarne i percorsi e avviare un dialogo tra loro.

Partiamo dalle due autrici. 

La prima è etiope, nata a Addis Abeba e vive a New York, dove insegna scrittura al Queens College. 

La seconda è nata in Italia da famiglia somala. 

Entrambe sono scrittrici di grande valore, hanno vinto premi e sono note a livello internazionale.

Cos’hanno in comune Il Re ombra La linea del colore?

Il fatto che le due protagoniste, la cui vita scorre in continenti e epoche diversi, sono due guerriere, che sfidano convenzioni che altrimenti le intrappolerebbero in destini non scelti di esilio da se stesse. 

Entrambe le vicende narrate prendono avvio da un’invasione delle truppe italiane in Corno d’Africa. Ne La linea del colore è il febbraio del 1887, quando in Italia giunge la notizia che a Dògali, in Eritrea, cinquecento soldati italiani sono stati uccisi dalle truppe etiopi che ne contrastarono le mire coloniali. A quei cinquecento è dedicata la piazza antistante la stazione di Roma Termini. Dalla rabbia che scoppia nel popolo quando si diffonde la notizia della disfatta viene travolta (e non è la prima volta) Lafanu Brown, la protagonista di La linea del colore, nata dall’unione di una donna della tribù indiana Chippewa con uno straniero dalla pelle nera, residente al momento dei fatti a Roma, dove è nota come pittrice di talento. 

Ne Il Re ombra la protagonista è Hirut, che incontriamo ormai anziana nelle prime pagine del libro e della quale ripercorriamo la vita retrospettivamente. Hirut è etiope, venduta schiava poco più che bambina a nobili etiopi, presso i quali sperimenta da serva i primi abusi e subisce le prime violenze per mano sia maschile che femminile. Simile è l’esperienza di Lafanu, in balìa della sua benefattrice, che l’ha portata via con sé per darle un’istruzione ma nelle cui mani è di fatto un fiore all’occhiello, che le permette di indossare l’abito dell’amica dei neri. Ma i fatti purtroppo mostreranno quanto l’atteggiamento in apparenza generoso e benevolo sia in realtà solo apparente, un ‘abito’, appunto, e non, per dirla in termini psicoanalitici, un vero sé.

Sia Hirut che Lafanu subiranno, anche, una cocente disillusione, una vera e propria ‘caduta delle illusioni’, da parte dell’uomo che amano e dal quale pensavano e credevano di essere amate. Mentre per entrambe dolore e violenza sono all’ordine del giorno, nelle società in cui vivono, seppur molto diverse e lontane tra loro – una quella americana della seconda metà dell’ottocento, l’altra quella etiopica della prima metà del novecento – i fatti narrati hanno in comune il profondo disprezzo per le persone dalla pelle nera da parte dei bianchi, da un lato, e la forza e la volontà di queste due donne nel rivendicare come Diritto la propria libertà, la propria autonomia, la propria esigenza di uguaglianza e giustizia. Per Hirut, tali rivendicazioni riguardano sia la relazione tra ricchi e poveri etiopi sia il rapporto con i bianchi, per Lafanu anche, sebbene sia prevalente l’accento messo su quello con i bianchi.

In entrambi i casi, il riscatto sarà possibile, a prezzo di molte rinunce e di profonde lacerazioni, ma mai perso di vista come esigenza di costruzione della propria identità in termini di un’autonomia innanzitutto psichica e non solo fisica.

A mio parere due libri da leggere per più di una ragione.

La prima, credo assolutamente la più importante, evoca quanto il noto psicoanalista con funzioni di training Paul Williams, membro della Società Britannica di Psicoanalisi e dal 2001 al 2007 codirettore dell’International Journal of Psychoanalysis, ha così bene messo in luce in due suoi libri in particolare, Il quinto principio (2010) e Feccia (2017), sui quali è possibile in SPIweb avere più dettagliate informazioni (Gabriella Giustino, ottobre 2014: https://www.spiweb.it/cultura-e-societa/il-quinto-principio/). 

Per spiegarmi meglio, Paul Williams come Maaza Mengiste e Igiaba Scego trasmette, non solo descrive, l’esperienza interiore di una psiche costretta a sopravvivere in circostanze disumane.

Per chi fa il mestiere di psicoanalista ma anche per un lettore non addetto ai lavori, tutti i libri citati testimoniano di quali risorse è provvista la nostra mente, la nostra umana voglia di farcela. Si tratta veramente, secondo me, della perfetta ‘messa in scena’ dell’azione della pulsione di vita quando essa si mobilita contro forze che lavorano dall’esterno al servizio della pulsione di morte.

Ovviamente nei libri qui presi in esame non si tratta della forza mortifera che lavora nel nostro mondo interno, in costante impasto – l’impasto pulsionale – con la pulsione di vita. In La linea del colore, in Il Re ombra, in Il quinto principio e, come esito di quanto accaduto nel corso dell’infanzia, in Feccia, essendo il piccolo protagonista poi adolescente lo stesso individuo, la forza mortifera, per quanto forza interna, arriva anche con violenza dall’esterno, a umiliare, terrorizzare, cancellare ogni possibile umanità.

Ma Paul in Il quinto principio e in Feccia, Lafanu in La linea del colore e Hirut in Il Re ombra sono la resilienza e il trionfo della pulsione di vita ‘in persona’. Se poi si pensa che il piccolo Paul è il Paul Williams noto e brillante psicoanalista, in quanto gli spunti letterari di questi suoi due libri sono autobiografici, possiamo capire quanto sia vero e non solo realtà romanzata il fatto che si può sopravvivere e poi addirittura vivere nonostante e comunque. 

Paul diventa un ottimo psicoanalista, Lafanu un’importante pittrice, e infatti nella sua figura si uniscono le storie di due donne afrodiscendenti realmente esistite, la scultrice Edmonia Lewis e l’ostetrica e attivista Sarah Parker Remond, entrambe giunte in Italia dagli Stati Uniti dove, fino alla guerra civile, i neri non erano nemmeno considerati cittadini. Hirut, la tenera e durissima protagonista di Il Re ombra, diventa, oltre che, molti anni dopo, sposa e madre felice, negli anni in cui si svolgono i fatti narrati una guerriera coraggiosa che, assieme a altri combattenti etiopi, organizza una resistenza vittoriosa, che assume, soprattutto in alcune pagine, tonalità epiche, riuscendo a respingere, nel 1935, l’esercito agli ordini del sadico e perverso colonnello Fucelli. E lascio al piacere di scoprirlo leggendo chi si nasconde nei panni de Il re ombra.

In particolare in Il re ombra l’accento posto sui personaggi protagonisti dei fatti è felicemente capace di mostrare come e quanto la psiche umana sia caratterizzata da contraddizioni e da tratti a volte addirittura in opposizione tra loro. 

In Fucelli, il sadico e perverso colonnello, il terrore arcaico e il mal di vivere alimentano fin dall’infanzia i suoi comportamenti distruttivi. La scrittrice ci mette nelle condizioni di comprendere l’origine e lo sviluppo delle sue tendenze perverse, senza con questo portare il lettore a ‘empatizzare’ con il soggetto perverso. Altrettanto accade con Kidane, con Aster, dei quali dirò tra breve.

Nel soldato ebreo Ettore Navarra, appassionato di fotografia, capiamo e vediamo con lucidità perché, come e quanto intensamente si possa essere in modo inerme e ‘indifferente’ in balìa di tendenze sadiche impietose pur restando paradossalmente e direi inevitabilmente ‘umano’. 

Il nobile di antica stirpe etiope Kidane, che guida la rivolta, è figura che tanto ci intenerisce quanto altrettanto ci risulta odiosa, come Aster, la sua sposa. 

Insomma, se lucido e implacabile resta il giudizio contro azioni che violano etica e morale, al contempo Maaza Mengiste sa offrire a chi legge un modo che definirei ‘psicoanalitico’ di porsi emotivamente e affettivamente nei confronti dei protagonisti minori e maggiori de Il re ombra.

La linea del colore invece obbliga senza mezzi termini il lettore a divenire per così dire testimone delle ingiustizie, delle violenze, delle umiliazioni inflitte dall’uomo all’uomo. Non si possono con Igiaba Scego avere dubbi, non si può non appassionarsi, letteralmente, allo sforzo di identificare i reati individuali e collettivi di una razza – quella bianca – su un’altra razza: in questo caso, i neri. Con Igiaba Scego i buoni, gli umiliati, gli oppressi, sono ben individuabili, e altrettanto facilmente si individuano tra i bianchi quelli che sulla base di s/ragioni e non di ragioni, ragionevoli ragioni, danno per scontato che le razze si dispongono per natura sui gradini di una scala, chi ‘naturalmente’ più in alto dell’altra, altrettanto ‘naturalmente’ più in basso. Ci sono, per fortuna, anche figure amiche e solidali, tra i bianchi. Ma il tema del libro restano i misfatti compiuti da una razza su un’altra.    

Non c’è proprio qui lo spazio per una indispensabile problematizzazione del concetto di razza, rimando alla finestra aperta in SPIweb sul Razzismo (curata da Simonetta Diena e Virginia De Micco in Geografie della Psicoanalisi). 

Ma voglio sottolineare come in La linea del colore il lettore non può non farsi carico del ruolo assunto nel suo lavoro clinico con i sopravvissuti alle violenze del regime argentino da Silvia Amati Sas (ai cui testi rimando): il ruolo del testimone. A conferma, la preziosa appendice Noi nella pietra, che mostra, con le fotografie di Rino Bianchi, le fantasie collettive dei bianchi relative ai neri come schiavi rappresentate da monumenti, dipinti e fontane a Roma, a Livorno, a Venezia e così via.

Altrettanto accade ne Il re ombra, ma con sfumature lievemente più complesse. 

Entrambi sono, a mio parere, libri necessari e indispensabili, espressione delle due facce altrettanto preziose di un’unica medaglia: il je accuse irrinunciabile de La linea del colore e l’altrettanto irrinunciabile sforzo di capire, senza per questo giustificare (anzi!) de Il re ombra

E, last but not least, entrambi romanzi bellissimi e intensi, tutti e due espressione di un’ottima quanto autentica letteratura.

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