Cultura e Società

Intervista a L. Micati: pensieri fra psicoanalisi e letteratura. D. Federici

11/12/23
Intervista a L. Micati: pensieri fra psicoanalisi e letteratura. D. Federici

Loredana Micati

parole chiave: #psicoanalisi, #letteratura

PSICOANALISTI SCRITTORI

Intervista a Loredana Micati: pensieri fra psicoanalisi e letteratura

A cura di Daniela Federici

“Leggete in profondità, non per credere,

non per accettare, non per contraddire,

bensì per imparare a partecipare

dell’unica natura che scrive e legge”

Bloom, Come si legge un libro

Loredana Micati: Loredana Micati é psicoanalista con funzioni di training della SPI. Oltre a pubblicazioni scientifiche comparse in Rivista di Psicoanalisi, IPJ, Revue Francaise e raccolte di testi psicoanalitici in italiano, inglese spagnolo e portoghese, ha scritto il romanzo Don Riccardo, pubblicato da Mursia nel 2015. Vive e lavora a Roma. Un suo racconto dal titolo “Quattro cappuccini in zona Prati” è uscito nella sezione Gli analisti raccontano del sito del centro Psicoanalitico di Bologna, che accoglie racconti scritti da Soci e Candidati della SPI e dell’IPA (https://www.cepsibo.it/index.php/cultura-e-societa/gli-analisti-raccontano/quattro-cappuccini-in-zona-prati-loredana-micati).

DF: Per riflettere sulla letteratura partirei dalla parola: da analisti ne conosciamo bene l’importanza come strumento per portare alla coscienza, per quel ‘farsi psichico’ che si appropria della realtà conferendole un senso, che costruisce il mondo interno facendone uno strumento di contenimento, elaborazione e comunicazione. La parola nasce nella carne, la sua magia e il suo potere evocativo scaturiscono dal linguaggio primordiale che l’ha vista prima di tutto un atto senso-motorio. Freud considerava poeti e scrittori alleati preziosi, spesso più avanti nella conoscenza dell’anima, perché attingendo a fonti profonde, scoprono e danno forma a quel che lo scienziato impiega un lavoro faticoso per portare alla luce. E suggeriva agli psicoanalisti di coltivare interessi umanistici per non trovarsi smarriti di fronte al narrarsi del paziente, perché il lavoro analitico è un dialogon, l’incontro di due testi che si intrecciano trasformandosi, estendendo lo psichico e il senso nella polisemia delle forme simboliche, in uno spazio intermedio che è comune all’opera creativa.

Come arrivi alla scrittura di un testo letterario e quali scrittori ti hanno ispirato di più?

LM: A dieci anni volevo fare due cose nella vita – lo dico come posso dirlo adesso, non so come lo pensavo allora – la prima era capire cosa c’è nella mente, esplorare il mistero del funzionamento mentale e aiutare le persone in difficoltà. (Come si intuisce facilmente la situazione famigliare era di grande complessità). La seconda era scrivere e già scrivevo. Alla prima sono arrivata attraverso un processo impegnativo ma netto, che occuperà ancora a lungo gran parte delle mie risorse. La seconda, che in realtà sentivo affine alla prima, fino ai vent’anni è stata una necessità, poi è diventata un lusso, richiedeva una sospensione da tutto che non potevo più permettermi. A ventidue anni avevo due bambini e dovevo guadagnarmi la vita.

Poi, molto più avanti nel tempo, avvenimenti importanti si sono presentati e hanno sollecitato un atto vitale e creativo, questo lo so ora, non lo sapevo mentre accadeva. Così si è presentata l’immagine di una giovanissima ragazza che, in nave, viaggia dall’Inghilterra alla Sicilia. È gravida, come conseguenza di uno stupro. Il romanzo “Don Riccardo”, è la storia del  bambino, nato in Sicilia nel 1870 e dato in adozione. Ho incominciato a scriverlo un’estate in Sicilia, circondata da affetti forti e rispettosi dell’avventura in cui mi ero lanciata come se fossi finalmente libera di farlo. Come se un peso, che avevo sempre portato sulle spalle, mi avesse lasciata libera di andare. Scrivere era appassionante e gioioso.

Alla stesura di Don Riccardo sono arrivata di getto.

DF: Freud scrisse a Schnitzler che vedeva nella letteratura una sorta di doppio della psicoanalisi: condividendone fonti e oggetto, autore e psicoanalista utilizzano entrambi l’interpretazione, l’uno per creare, l’altro per penetrare la tramatura invisibile del racconto del paziente, slegando l’elaborazione secondarizzante. La psicoanalisi deve molto al rapporto con l’intelligenza letteraria, così come quest’ultima è stata influenzata dal sapere analitico sulle dinamiche del profondo.

Nel tuo lavoro di scrittrice quanto hai attinto a modelli narrativi o strutture simboliche di matrice psicoanalitica? Quanto pensi che l’esercizio alla funzione maieutica accanto ai pazienti abbia inciso sulla tua scrittura nel costruire trama e personaggi?

LM: L’essere analista fa parte di me, quando sono impegnata a vivere non ci penso, rimane sullo sfondo e tuttavia è sempre presente in un’area tanto vasta e non delimitabile da coincidere appunto con tutta l’esperienza della vita. Non credo per niente che, nello scrivere, un analista abbia più mezzi di altri. Leggendo A little life (Una vita come tante) diHanya Yanagihara, mi sono chiesta come facesse quella donna quarantenne ad avere una conoscenza così profonda del dolore e dei molti volti dell’amore. È un libro che tutti gli psicoanalisti dovrebbero leggere, per la sua capacità di penetrare gli abissi della sofferenza e della capacità di amare, così profonda, così totale. Tante volte mi sono anche chiesta come fosse possibile che Irène Némirovsky a soli 26 anni scrivesse David Golder e conoscesse dall’interno gli spasimi dell’anima e del corpo di un vecchio malato e morente. 

DF: Proust dice che ogni lettore legge se stesso, che un libro è uno strumento ottico che ci permette di comprendere quel che forse, senza di esso, non avremmo mai conosciuto di ciò che siamo. Scrivere, così come leggere una storia, è sempre l’occasione di un viaggio per farci carico dell’alterità di noi a noi stessi – come accade nei sogni – e della possibilità di farci trasformare da quell’incontro. Ogni personaggio offre l’opportunità di rappresentare degli aspetti della propria vita psichica, così nella tessitura di una storia si oscilla fra uno scrivere per la trama, per ciò che già si “conosce” e si vuole rappresentare, e l’esplorazione che il punto di vista di un altro ci permette, scavandolo da dentro e schiudendo traiettorie impreviste.

Quanto da scrittrice hai misurato la sorpresa dell’inconscio al lavoro, da inseguire per la curiosità di vedere fin dove va a finire? Ti sono capitati riscontri di lettori che hanno colto sfumature che non avevi considerato? I pazienti fra i possibili lettori hanno influenzato la tua scrittura o leggerti ha creato effetti imprevisti nelle relazioni analitiche con loro? 

LM: … leggere è un grandissimo, colpevole piacere. Colpevole, colpevolissimo, perché mangia il tempo in cui invece si dovrebbe… Leggere talvolta è andare in altri mondi lontani nello spazio e nel tempo, essere sorpresi, avere paura, inorridire, sorridere, riconoscere, imparare. Quanto mi annoierei se mi limitassi a leggere dentro me stessa. Non posso dimenticarmi di me, sono io che leggo, ma il romanzo mi porta fuori, talvolta in un umano che non conosco. Attraverso gamme emotive ancora non sperimentate, non in quel modo.

Scrivere è stato come un lungo sognare in cui i personaggi si presentavano ed entravano in storie lontane, nascevano dalla mia mente ma mi erano sconosciuti e mi sorprendevano. Come assistere a una rappresentazione che va dove vuole con la sua forza. I personaggi facevano ciò che volevano e non ciò che avevo previsto per loro. E bisognava seguirli. Accadeva, per ragioni di lavoro, di non poter scrivere per tanto tempo e li ritrovavo sempre lì ad aspettarmi.

DF: In questo nostro tempo in cui languono le capacità simboliche e la nebulizzazione del senso del limite rende sempre più difficile avere a che fare con le angosce e con le perdite, coltivare dubbi e un senso di responsabilità, la parola che da forma al non detto dentro ognuno di noi (e che quando manca lascia preda di un agire acefalo) non è solo contenuto, è anche atto sociale e relazione, cura e cultura. Quanto pensi che la buona letteratura possa favorire le risorse del pensiero? Credi che gli psicoanalisti, al di fuori della stanza d’analisi, potrebbero contribuire a diffondere una cultura di maggiore consapevolezza?

LM: La buona letteratura, come la musica e tutte le forme di arte, aiuta a vivere, non solo ad affrontare il mistero e l’incertezza ma a goderne malgrado la paura. Allarga la possibilità di capire, di tollerare, di provare una vera compassione per il vivente. La buona letteratura aiuta ad avere il coraggio di pensare, di sorridere, di piangere. Non darei compiti agli psicoanalisti. Sono una comunità eterogenea e all’interno delle loro istituzioni non mostrano maggiore saggezza e maggiore consapevolezza degli altri umani.

DF: Nelle Lezioni americane Calvino richiamava il pericolo di perdere la funzione fondamentale dell’immaginazione, che la capacità di evocare immagini in assenza si atrofizzi in un’umanità sempre più inondata dal diluvio delle immagini prefabbricate. Invocava una pedagogia dell’immaginazione, per apprendere a elaborare le proprie visioni interiori, senza lasciarle soffocare sotto questa realtà aumentata in fruizione passiva né ammorbarle in un confuso fantasticare, perché quelle epifanie cariche di significati che spesso fondano l’immaginazione letteraria, animino una scrittura creativa che dia ordine e intenzione a quelle invenzioni. Immaginare ci serve a costruire le rappresentazioni con cui conosciamo noi stessi, gli altri, la realtà che ci circonda, con cui colmiamo i vuoti del pensiero razionale e pensiamo l’invisibile. “Il romanzo non indaga la realtà, ma l’esistenza. E l’esistenza non è ciò che è avvenuto, l’esistenza è il campo delle possibilità umane, di tutto quello che l’uomo può divenire, di tutto quello di cui è capace” (Kundera, L’arte del romanzo).

Pensi che la rivoluzione dei media, insieme alle enormi possibilità che ci ha aperto, destini al cambiamento i libri e gli spazi della lettura che nutrono l’immaginario e la funzione narrativa che fonda l’umano?

LM: Calvino è di un fascino infinito. Ho spesso immaginato un dialogo tra Calvino e Bion, talvolta ho pensato che, in qualche modo, si fossero conosciuti e frequentati. Come se ciascuno di loro rappresentasse la parte migliore del pensiero del novecento, la più ricca, la più feconda.

Dalle lezioni americane (1985) ad oggi eccellente letteratura ha visto la luce. Forse è cambiato il modo di organizzare il testo, che deve tenere legato alla pagina un lettore impaziente, che, in mancanza di continui colpi di scena, si annoia. È vero che ci sono scrittori talmente padroni del mestiere e dell’arte di narrare da sfornare un libro godibile quasi con frequenza annua. Ma vi sono anche libri straordinari, cito i primi che mi vengono in mente, così come si presentano casualmente alla memoria, uno solo per autore, ma di ciascuno andrebbe letta l’opera intera: La casa nella moschea di Kader Abdollah, La rivière et son secret (Il pianoforte segreto) di Zhu Xiao Mei, Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli, Patria di Fernando Aramburu, L’amica geniale di Elena Ferrante, La metà di un sole giallo di Chimamanda Ngozi Adichie, Il simpatizzante di Viet Thanh Nguyen, La simmetria dei desideri di Eskol Nevo.

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