Cultura e Società

Per una cittadinanza attiva. L. Becchetti intervistato da D. Federici

24/10/22
Per una cittadinanza attiva. Intervista di D. Federici a L. Becchetti

Per una cittadinanza attiva. Intervista a Leonardo Becchetti

a cura di Daniela Federici

parole chiave: #cittadinanzaattiva, #sostenibilità, #economia, #transizioneecologica

Leonardo Becchetti è economista, insegna all’Università di Roma Tor Vergata, consulente economico del ministero della transizione ecologica, Direttore del Festival dell’Economia Civile, editorialista del Sole 24 ore e di Avvenire, co-fondatore di NEXT, una rete che, attorno al tema della responsabilità sociale, raccoglie molte delle principali organizzazioni della società civile e co-fondatore di Gioosto, una piattaforma per il voto col portafoglio e il consumo responsabile dei prodotti delle eccellenze della sostenibilità sociale e ambientale.

È Autore di numerosi testi l’ultimo dei quali è La rivoluzione della cittadinanza attiva (Emi, 2022).

DF: Nel suo lavoro, nei suoi libri e nella sua fitta attività sui social spiega come nella tradizionale visione dell’economia l’uomo sia considerato un massimizzatore di profitti ‘non importa come’, tralasciando ben altre istanze legate al nostro sentirci parte di una comunità, ai valori del rispetto dei diritti, della solidarietà e dell’aspirazione alla pace come indicatori di benessere. Scrive: “Nella vita degli esseri umani la soluzione al problema della realizzazione personale e a quello della trasformazione sociale sono profondamente connessi.” Ponendo la perdita di senso del vivere fra gli aspetti patologici di questo sistema economico, lei ne fa una lettura sistemica molto efficace a mostrare l’importanza e la forza della mobilitazione civica per contribuire al cambiamento verso una economia civile generativa di valore sociale oltre che economico. Ci parla delle problematicità cui si prova a dare risposta e delle proposte in atto?

LB: Il modello economico neoclassico tradizionale affermando di fatto un paradigma antropologico riduzionista ed adottando un modello di sviluppo che mette al centro la creazione di beni e servizi “non importa come”, ovvero producendo molti effetti esterni sociali ed ambientali negativi, ha creato un’immensa area di disagio e di infelicità. Nella visione riduzionista la persona è quasi sempre modellata come homo economicus, ovvero come individuo la cui utilità/felicità dipende dall’accrescimento delle proprie dotazioni monetarie e dal proprio consumo di beni e servizi. Parliamo di riduzionismo perché l’economia ha imparato a modellare i beni privati (rivali ed escludibili), i beni pubblici e i beni comuni ma ha completamente ignorato fino a poco tempo fa i beni relazionali.

Gli studi sulle determinanti della felicità e della soddisfazione di vita sviluppati assieme da economisti, sociologi e psicologi hanno evidenziato come era immaginabile l’importanza cruciale delle relazioni per la soddisfazione e ricchezza di senso di vita della persona. Modellare in modo riduzionista la funzione di utilità/felicità delle persone ha portato modelli e ricette di policy ad essere orientate verso un’idea distorta di felicità collettiva che stimola l’iperconsumo di beni spesso inutili.

L’altro limite fondamentale dell’approccio riduzionista è quello di ignorare le preferenze non (miopemente diremmo noi) autointeressate della persona. Anche su questo fronte le evidenze sperimentali degli esperimenti di teoria dei giochi identificano una serie di fattori ignorati dall’approccio riduzionista come altruismo, reciprocità, avversione alla diseguaglianza, fiducia e meritevolezza di fiducia.

Il modello riduzionista dell’homo economicus, proprio per questa incapacità di tener conto delle preferenze non miopemente autointeressate, va incontro a varie patologie.

La prima è quella del fallimento della cooperazione. La vita è fatta d’incontri tra persone con esperienze e competenze tra loro complementari in condizioni di asimmetria informativa (non posso conoscere in anticipo le mosse della mia controparte) e incompletezza contrattuale (non posso proteggermi da eventuali comportamenti opportunisti con contratti di migliaia di pagine in grado di coprire ogni possibile situazione e fattispecie). In queste condizioni nell’incontro tra due homines economici non può scattare la fiducia necessaria per avviare un processo di cooperazione in grado di generare superadditività (quando si coopera uno più uno fa tre ovvero il risultato del lavoro di squadra è superiore alla somma di quanto i singoli avrebbero realizzato separatamente). Per superare il paradosso della sfiducia e della mancanza della cooperazione si evidenzia in letteratura l’importanza del dono (inteso non come pacchetto regalo ma come fare qualcosa in più di quanto stabilito dai ruoli o di quanto ci si aspetta da noi) come elemento in grado di generare gratitudine e riconoscenza mettendo in moto meccanismi di reciprocità che generano relazioni di qualità. In presenza di beni relazionali le convenienze s’invertono e violare la fiducia è più costoso che mantenerla perché porta con sé la perdita del bene relazionale.

I limiti dell’homo economicus nella capacità di risolvere il paradosso della fiducia (che viene modellizzato dagli economisti in giochi come il dilemma del prigioniero o il trust investment game) portano il nobel Amarthya Sen ad affermare in modo piuttosto forte come l’homo economicus sia un idiota sociale, ovvero un individuo incapace di cogliere e mettere a frutto il potenziale delle relazioni.

Nella visione economica riduzionista presa a livello aggregato la crescita del PIL (la quota dei beni e servizi venduti in un paese) è misura sufficiente della felicità. Questa convinzione viene messa in crisi dal cosiddetto paradosso di Easterlin che evidenzia con un semplice dato descrittivo come nel secondo dopoguerra negli Stati Uniti alla crescita del PIL non sia seguito un aumento ma una diminuzione della quota dei molto felici nel paese. La letteratura successiva delle determinanti della felicità cerca di spiegare il paradosso e lo fa facendo riferimento a concetti psicologici e sociologici. In primis viene evidenziato il fenomeno dell’adattamento edonico, ovvero la propensione delle persone ad “assuefarsi” ad un evento positivo che in un primo momento ha generato un incremento di felicità. Così è per una vincita di una lotteria ma anche per il conseguimento di un risultato in ambito professionale o di istruzione. Il fenomeno dell’adattamento edonico spiega perché la relazione tra reddito e felicità che nel breve periodo può essere positiva e molto significativa nel medio termine diventa piatta.

Le patologie del sistema accentuate dal paradigma riduzionista sono state analizzate recentemente in un bel libro scritto dal nobel dell’economia Angus Deaton assieme ad Ann Case che analizza il fenomeno dell’epidemia delle morti per disperazione, ovvero dei decessi per overdose di oppioidi di centinaia di migliaia di cittadini degli Stati Uniti nel corso dell’ultimo decennio. I due autori identificano una vera e propria trappola di povertà di senso del vivere e aprono la via per una ridefinizione della persona in grado di superare il riduzionismo antropologico. Nella visione dell’economia civile l’uomo infatti più che massimizzatore di utilità è cercatore di senso e il senso del vivere dipende non solo da reddito, salute ed istruzione ma soprattutto dalla generatività, ovvero dalla capacità della propria vita di essere utile a qualcosa o a qualcuno.

La visione dell’economia civile dunque ritiene che la generatività, ovvero la capacità delle politiche sui territori di rendere generativa la vita delle persone sia l’aspetto fondamentale di cui preoccuparsi ai fini del benvivere.

DF: Nel suo libro “La rivoluzione della cittadinanza attiva” (Emi, 2022) lei rinnova l’impegno che da anni la vede promotore delle reti sociali che possono operare da dentro le strutture profonde della società attraverso il consumo critico e un risparmio responsabile. La sottolineatura sull’importanza di far evolvere un pensiero più consapevole e responsabile è in risonanza con il compito analitico. Del valore dell’ambiente (compreso quello non-umano, come lo definisce Searles) per il nostro mondo interno, oltre che esterno, noi maneggiamo gli effetti nei dissesti psichici, affettivi, dell’immaginario e nella perdita di senso del futuro; così come ci occupiamo dei meccanismi di negazione e rigetto che si oppongono alle prese di coscienza di ciò che ci turba o minaccia.

Alle comode obiezioni che spesso vengono fatte al modello di economia equosolidale come una scelta per pochi o ‘una goccia nel mare’ delle problematiche, lei risponde illustrando bene il ‘potere di quella goccia’ che ciascuno di noi può rappresentare, come l’alleanza fra imprese pionieristiche abbia prodotto quote di mercato e reso l’Etica una variabile competitiva, generando processi di imitazione che hanno aumentato il livello di responsabilità sociale complessivo promosso sui mercati. Ci illustra i principali strumenti con i quali si può procedere ulteriormente in questa direzione per diventare consum-attori più informati e poter diffondere il valore di esperienze virtuose socialmente e ambientalmente sostenibili?

LB: Come sappiamo l’attuale paradigma economico è oggi in crisi a causa della sua potenza e della sua debolezza. Il modello nasce in un momento in cui la priorità è generare beni materiali per soddisfare i bisogni di una popolazione crescente. I problemi ambientali non si pongono in questo momento. E la rivoluzione industriale, con il mercato e il capitalismo raggiungono in modo molto efficiente l’obiettivo. Il modello non cambia ma le condizioni oggi sono completamente differenti. Con una popolazione di quasi 8 miliardi abbiamo toccato i limiti ambientali del pianeta soprattutto per quanto riguarda la questione delle emissioni di Co2 che determina il fenomeno del riscaldamento globale. Ma i problemi non finiscono qui perché nel corso degli ultimi decenni le diseguaglianze aumentano notevolmente. Il modello dunque abbina una qualità fondamentale ai tempi della sua ideazione (la capacità di creare il maggior numero possibile di beni e servizi) che diventa un problema ai nostri tempi vista la questione della sostenibilità ambientale, con i suoi limiti e la sua incapacità di soddisfare i problemi distributivi.

La politica tradizionale si è dimostrata incapace di risolvere il problema perché i regolatori sono spesso catturati dai regolati, ovvero la forza delle grandi imprese è spesso superiore a quella della politica. Per questo motivo, con il nuovo paradigma dell’economia civile insistiamo con il concetto di voto col portafoglio. Se il centro del potere dell’economia globale sta nelle decisioni di consumo, e se le grandi aziende attraverso ingenti risorse investite nel marketing vogliono convincerci ad usare questo grande potere che abbiamo per acquistare i loro prodotti, attraverso il voto col portafoglio i cittadini capiscono il valore politico delle loro scelte e decidono di premiare con i loro consumi e risparmi quei prodotti e quelle imprese leader nella capacità di creare valore economico in modo socialmente ed ambientalmente responsabile. Se tutti votassimo col portafoglio il mondo da domani sarebbe cambiato. Come purtroppo sappiamo questo orizzonte ideale non è ancora in vista per i quattro ostacoli che il voto col portafoglio deve affrontare: la mancanza di consapevolezza dei cittadini sulla potenzialità dello strumento, i limiti di informazione sulle caratteristiche di sostenibilità socioambientale dei prodotti, le difficoltà di tanti consumatori singoli ed isolati di coordinare le loro scelte di voto col portafoglio affinché le stesse abbiano maggiore impatto e le differenze di prezzo tra prodotti sostenibili e prodotti tradizionali.

Il voto col portafoglio è un caposaldo di un nuovo paradigma economico, quello dell’economia civile, che allarga gli orizzonti rispetto a quello tradizionale su quattro specifiche dimensioni. La prima, antropologica, ci parla di persone maestre nell’arte delle relazioni e capaci di fare 1+1=3 ovvero di far tesoro delle potenzialità delle relazioni umane. La seconda di imprese e imprenditori più ambiziosi che oltre al profitto puntano all’impatto sociale ed ambientale. La terza di indicatori di benessere capaci di cogliere le dimensioni profonde della ricchezza di senso del vivere come quelli di generatività e, allo stesso tempo, di mettere a fuoco il tema della transizione ecologica misurando l’efficienza energetica e la circolarità del nostro sviluppo attraverso il rapporto PIL/CO2. La quarta di una politica economica fatta di quattro mani (istituzioni, mercato, cittadinanza attiva, imprese responsabili) invece che di due.

DF. Il suo riferimento alla generatività di Erikson per nominare questo nuovo modello di economia virtuosa, richiama il bisogno umano profondo di poter contribuire a creare, di partecipare a un progetto più grande di sé, potendo incidere positivamente sulla vita altrui, in una sorta di trascendenza come aspirazione a lasciare un segno positivo. La direzione di un’economia sostenibile, visto il dissesto ambientale, la crisi delle risorse e la ricattabilità della nostra dipendenza energetica, è una necessità palese, un vitale atto di responsabilità sul futuro per le prossime generazioni, oltre che di auto-interesse lungimirante. Ci spiega meglio gli inciampi e i punti di forza di questo progetto politico globale di transizione ecologica?

LB: Con l’aumento esponenziale della popolazione e della produttività il sistema economico è arrivato oggi a mettere in discussione il futuro del pianeta. La sfida principale è quella climatica. La progressiva concentrazione di CO2 nell’atmosfera ha creato il cosiddetto effetto parabrezza che determina il riscaldamento globale. Come d’estate quando lasciamo la macchina al sole la temperatura interna è molto più calda di quella fuori perché il vetro fa entrare il calore ma non lo fa uscire così avviene con la concentrazione di Co2. Il riscaldamento globale produce fenomeni come siccità, ondate di calore ed eventi climatici estremi mandandoci sempre nuovi avvisi. Come scritto recentemente su Avvenire ( https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/nella-giusta-direzion-942a19d672e347c39eaed1a404a69e02 ) il nostro avversario principale nella transizione ecologica non sarà il negazionismo ma la rassegnazione. Tragedie come quella della Marmolada ci mostrano che siamo entrati in una nuova fase della sfida climatica.Gli avvisi che ci arrivano ormai quasi quotidianamente dal pianeta rendono impossibile far finta di non capire ma rischiano di spingere l’opinione pubblica all’eccesso opposto che ci porta a dire che non c’è più niente da fare.  Ma non è così, il futuro è ancora nelle nostre mani, ma dobbiamo cambiare marcia. Gli allarmi lanciati dal mondo dell’economia civile, della finanza etica e del consumo responsabile da più di trent’anni non devono più rimanere inascoltati. I dati scientifici sono schiaccianti. L’alternativa è l’accelerazione dei fenomeni a cui stiamo assistendo.
Un mito da sfatare in ottica di ecologia integrale e di centralità della persona è che la sfida climatica sia una questione radical chic. Un tempo parlavamo di danni per le generazioni future; poi sono arrivati i ‘gilet gialli’ che hanno fatto presente che il loro problema è la «fine del mese» mentre gli ambientalisti pensavano alla «fine del mondo». Ora siamo consapevoli che i disastri ambientali ci colpiscono oggi e colpiscono soprattutto i più deboli che hanno meno risorse per difendersi. Non possiamo vincere questa sfida aspettando Godot (la fusione nucleare, un progresso nella cattura di CO2, qualche meccanismo provvidenziale che ci salverà nostro malgrado) anche se speriamo caldamente che arrivi. Il nostro dovere è muovere il più velocemente possibile nella direzione giusta e praticabile già da ora.

Le difficoltà nascono dai ritardi della politica e dalle frenate da parte dei settori industriali che perderanno dalla transizione ecologica. Che aspettiamo allora a varare i decreti attuativi per le comunità energetiche che cittadini, imprese, diocesi, fondazioni vogliono far nascere in tutta Italia, a sostenere maggiormente lo sforzo degli imprenditori che diventano autonomi nella produzione di energia liberandosi dal gas (di Putin) e delle aziende agricole che vogliono affiancare la produzione di energia alla loro attività tradizionale? Continuiamo a ridurre i tempi per le autorizzazioni, ad investire nel potenziamento della rete (smart grid).

Le tecnologie degli accumuli già esistenti consentiranno di superare i problemi di intermittenza nella produzione di energia e il progresso tecnologico ci renderà sempre meno dipendenti da singoli minerali o materie prime (molto peggio è dipendere da Paesi nell’erogazione dell’energia giorno per giorno piuttosto che per i materiali necessari ma sostituibili per produrre impianti). Si dirà a che serve lo sforzo dell’Unione Europea, prima della classe, se gli altri non si muovono. La risposta è il Carbon Border Adjustment Mechanism (Cbam) votato a grande maggioranza dal Parlamento europeo e sostenuto da più di 10 anni da un numero mai visto di economisti e premi Nobel concordi su una stessa iniziativa: tutti i prodotti da Paesi terzi che vogliono accedere ai mercati europei devono pagare alla frontiera una tassa proporzionale alle emissioni di CO2 generata lungo la filiera per evitare di fare concorrenza sleale alle nostre imprese. In questo modo la competizione internazionale cessa di essere una corsa il ribasso, ma diventa una competizione che tiene conto della sfida climatica e della transizione ecologica. In tutto questo, i nostri stili di vita sono fondamentali e gli spazi per migliorare i nostri comportamenti enormi.

Dobbiamo scegliere tra la rassegnazione che ci fa sentire parte del problema e ci spegne e la cittadinanza attiva che ci fa sentire parte della soluzione e dà ricchezza di senso alla nostra vita. Non ci sono dubbi su quale direzione prendere se vogliamo avere una vita generativa e felice in questo momento così difficile e sfidante. Se però la nostra memoria (come purtroppo molto spesso accade ai media) sarà troppo corta e metterà in atto meccanismi di emozione a breve termine (subito dopo una catastrofe) seguita poi da indifferenza e rimozione il problema non verrà risolto.

DF: La conclusione del suo libro, con l’invito a svegliarci ogni giorno felici e accesi, mi è sembrata la chiusura di un cerchio con l’esergo che lo apre:

“Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna, dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito” (Antoine de Saint-Exupéry).

È il riconoscimento che ogni percorso generativo nasce da un desiderio, ed è il desiderio ciò che motiva e da senso alla fatica e alle energie da impiegare per il raggiungimento di un obiettivo, ciò che ne sostiene la responsabilità e che apre alla possibilità di condividerlo.

LB: La generatività ha una sua dinamica fatta di quattro verbi secondo quanto insegna lo psicologo sociale Erik Erikson. Il primo verbo è desiderare. La mancanza di desiderio, magari per paura che il desiderio sia irrealizzabile o per un timore eccessivo per gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione del desiderio, rischia di essere oggi uno dei problemi principali della crisi di generatività che poi porta alla trappola di senso del vivere. La stessa soluzione di problemi economici come la piaga dei Neet, i giovani che non lavorano né studiano dipende in maniera fondamentale dalla carenza di desideri. Se i percorsi di discernimento ed orientamento scolastico sono ben realizzati e favoriscono nel giovane studente l’emersione di un desiderio o di un “pallino”, quest’ultimo crea le motivazioni per lo sforzo necessario per risalire la scala delle competenze. Il secondo verbo è far nascere, perché la nascita di qualcosa (una famiglia, un’impresa, un’organizzazione sociale, un’opera artistica) è elemento costitutivo della generatività. Il terzo verbo è accompagnare ed è quello più prosaico e faticoso. Ciò che abbiamo fatto nascere con grande entusiasmo iniziale senza opportuno accompagnamento iniziale rischia di morire presto rendendo il nostro atto generativo monco. L’ultimo verbo della generatività – lasciar andare – individua una fatica non fisica ma spirituale o mentale. Se ciò che abbiamo creato ed accompagnato con fatica resta sempre sotto il nostro controllo e le nostre ali, morrà con noi. E’ questo il problema anche di tanti fondatori di organizzazioni a movente ideale quando il fondatore ha paura di lasciare il timone del comando e non si impegna per far crescere una nuova leadership in grado di portare avanti un’opera. 

La frase di Saint Exupery che uso spesso sta a significare che il desiderio è movente essenziale dell’azione umana e che le persone sono innanzitutto cercatrici di senso. Dare come orizzonte di benvivere quello della generatività vuol dire indirizzare forze individuali e politiche pubbliche verso un sentiero di ricchezza di senso del vivere che evita le trappole delle morti per disperazione e fa sperare che saremo in grado di affrontare e vincere le grandi sfide che abbiamo davanti.

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