
Parole chiave: psicoanalisi, trasformazioni, abuso
Questo visibile raggio di buio
di Fabio Castriota (Alpes, 2024)
Recensione di Daniela Federici
Solo il passato riscattato non ritorna,
quello rischiarato dalla coscienza,
il passato da cui si è sprigionata una parola di verità.
M. Zambrano, Lettere dall’esilio
Un romanzo che racconta le faglie dell’esistenza, le volte in cui ci si sente morire e quelle in cui la vita può rinascere, il tempo interno bloccato dal trauma accanto a quello esterno che continua a scorrere, l’analisi come esperienza che riapre la temporalità e le possibili trasformazioni della mente ingombra di troppi detriti.
Sara è una paziente che varca la soglia della stanza d’analisi cercando l’occasione di portarsi fuori dal buio, dalla ripetizione, la luce un’idea tanto spaventosa quanto agognata; Giorgio è l’analista che l’ascolta. Quando riaffiora il silenzioso segreto del trauma che imprigiona la donna in un femminile diffidente e minacciato dall’intimità, all’analista ripiomba addosso il suo passato e con esso gli inascoltati rimasti sospesi.
L’abuso non è solo nel danno che si consuma, nell’oltraggio di essere relegati a oggetti prede, ma irrompe nella vita scippando la possibilità di crescere con il proprio passo, è una frattura che può minare alla radice l’opportunità di una dipendenza fiduciosa, disfare la capacità di pensare un desiderio in nome proprio, condannare una persona all’aggrappamento a forme di legame senza un vero contatto, solo per garantirsi dall’abbandono.
Se questa violenza subita lega inaspettatamente i due protagonisti, portando entrambi a fare i conti con i propri fantasmi persecutori, a concretizzarsi nelle pagine di questo libro non è solo la particolare vicenda di transfert-controtransfert, la partecipazione dell’analista a una storia che richiama la propria e lo convoca con le sue pressioni urgenti e i suoi delicati risvolti etici. A emergere è la più universale richiesta di lavoro psichico sull’inconscio dell’altro che l’analisi sempre muove nella sua intersoggettività. Perché quello che Castriota lavora sullo sfondo sono anche storie di mancanze nelle relazioni primarie, dei vuoti di un’esperienza di amore, di accudimento, di tenerezza, senza cui il potenziale umano rimane come un’area informe in attesa di poter germogliare. L’assenza di una figura contenitiva e strutturante agli inizi della vita psichica è come la caduta in un vuoto senza confini, dal momento che solo un investimento affettivo fa sìche si possa prendere forma e corpo,solo un rispecchiamento consente il divenire reali e conferisce al vivere la cifra della vitalità. Così l’assoggettamento all’altro nella violenza, la sua forza annientante, risuona della dipendenza infantile a figure mancanti, che hanno il potere di definire l’esistere o lo scomparire del soggetto.
Sara e Giorgio sono vittime del male, delle sue ferite e delle derive tossiche di reiterazione che lo può condannare a rinnovarsi; la trama costruisce l’incontro dei loro sogni e delle ossessioni, degli inganni sulla realtà, delle spinte di vendetta che fanno ritrovare il fra Cristoforo manzoniano:“i soverchiatori, tutti coloro che in qualche modo fanno torto altrui, sono rei non solo del male che commettono, ma del pervertimento a cui portano gli animi degli offesi”.
Due persone che parlano in una stanza, tessere di una vita da ricomporre, nicchie di verità e incompiuti, sapendo che ci si può sottrarre all’abisso di ciò che è pesante e doloroso da affrontare, oppure giocarsi quell’affaccio con la paura di cadervi dentro. Il romanzo prospetta il crinale fra il perdersi e il potersi salvare trasformando, per riaprire un futuro requisito nell’angoscia della ripetizione coatta.
Sara accetta di lasciare in quella stanza d’analisi le sue parti violente che invocano la ferocia della giustizia al riparo dalla responsabilità, che chiedono una protezione e una cura mancate nella sua vita: qualcuno che mi volesse così bene da vendicarmi senza che io mi debba sporcare un’altra volta.
La ricerca su di sé di un lavoro psicoterapeutico è un far venire a essere ciò che fino a quel momento non aveva trovato posto, per elaborare nel presente un passato che non passa, per sollevarlo dall’oggettività pietrificante della violenza subita verso nuove ri-tessiture di senso, per poterlo oltrepassare e riavviare a una direzione di libertà ed emancipazione.
Custode di questa processualità da favorire, Giorgio addomestica la misura di una presenza viva e partecipe, un guaritore ferito che non abdica alla priorità di un posto trofico per l’altro, destreggiandosi fra le pressioni dei guasti da riparare (propri e altrui) e la sponda della tutela dei confini.
Attraverso un personaggio che risuona molto autobiografico, Castriota mette in scena l’analisi come occasione di riparatività, che risponde al bisogno di una relazione fondativa che accolga e dia voce ai dolorosi inespressi, per poter ritrovare il mondo di sopra. Non uno spazio curativo magico ma l’attraversamento elaborativo dell’esperienza e le possibilità integrative fra le forze profonde e contrapposte che dominano il dentro: messo in condizioni estreme avrebbe potuto agire, senza rendersene conto, con la stessa ferocia… Chi era lui per definirsi puro, non attraversato e portatore di certi aspetti distruttivi? Il male lo abitava come ogni essere umano… Perché se la distruttività la riconosciamo unicamente negli altri, stiamo solo rinforzando i funzionamenti scissionali.
In quei passaggi si ritrova il tema dell’orfanità dei protagonisti, che è di quei momenti di vita in cui, pur accompagnati e sostenuti, spetta a ciascuno la forza delle scelte, la responsabilità di sé là dove non c’è più chi ti indica la via, qualcuno dietro cui rifugiarsi di fronte alle paure e che sceglie per te. La vita che “ci tocca”, insomma, in entrambi i sensi.
L’infelicità diviene solo il contributo da pagare alla naturalezza della vita…
Viene in mente Freud quando parla della naturale infelicità esistenziale come risultato dell’analisi: “è diventato quale avrebbe potuto diventare, a dir molto, nelle condizioni più favorevoli”, e, ci ricorda: “questo è moltissimo” (1915-17, “Introduzione alla psicoanalisi” OSF v. 8, p.585).
Anche la scrittura è un modo per affrontare la realtà, ampliando le nostre capacità di conoscerla e pensarla facendo i conti con i limiti e le potenzialità. In un’intervista sul rapporto fra psicoanalisi e letteratura, Castriota sottolineava: “Da giovani abbiamo l’idea che il controllo della Realtà (con la R maiuscola) sia legata alla nostra capacità di capire e agire con capacità e determinazione sia sul mondo interno che quello esterno. Col tempo capiamo che, sciolti certi conflitti e elaborati, per quello che è possibile, i nostri traumi, dobbiamo affidarci alle spinte e alle modalità inconsce per dare forma alle nostre intenzioni, che sono intrecciate e loro stesse espressione dei livelli più profondi” (https://www.spiweb.it/cultura-e-societa/intervista-a-fabio-castriota-una-riflessione-fra-psicoanalisi-e-letteratura-daniela-federici/).
L’analisi, come la vita, non consente restitutio ad integrum, ma può aiutare a tenersi sul filo teso sul buio, custodendo la scelta di chi possiamo essere.