Cultura e Società

”Il Covid condanna il nostro modello di civiltà. O si cambia o si muore”. Huffpost 20/1/22 di D. D’Alessandro

21/01/22
”Il Covid condanna il nostro modello di civiltà. O si cambia o si muore”. Huffpost 20/1/22 di D. D’Alessandro

JANNIS KOUNNELIS, 1964

Parole chiave: Immunità, Comunità

Roberto Esposito: ”Il Covid condanna il nostro modello di civiltà. O si cambia o si muore”. Huffpost 20/1/2022 di D. D’Alessandro

Huffpost, 20 gennaio 2022

Il filosofo a Huffpost: La globalizzazione, le diseguaglianze, il disastro ambientale. La pandemia ci dice che siamo impreparati e inadeguati.

Introduzione: Qual è il rapporto tra Comunità e Immunità? Il confine  tra  corpo individuale/ corpo sociale, sé/altro e protezione/contaminazione è il tema che Roberto Esposito tratta nel suo ultimo libro ’Immunità comune. Biopolitica all’epoca della pandemia’. Il filosofo napoletano, in questa intervista di Davide D’Alessandro descrive il suo pensiero su questioni  cruciali evidenziate dall’esperienza della pandemia. (Maria Antoncecchi)

Davide D’Alessandro, saggista

Huffpost, 20 gennaio 2022

Roberto Esposito:”Il Covid condanna il nostro modello di civiltà.O si cambia o si muore”. Huffpost 20/1/2022 di  D.D’Alessandro

Il filosofo a Huffpost: La globalizzazione, le diseguaglianze, il disastro ambientale. La pandemia ci dice che siamo impreparati e inadeguati.

“Senz’e te fernesce Napule, sultante tu ta sai difendere…”. Nessun dubbio. È Cient’anne. Di buon mattino, da un balcone di via S. Caterina da Siena, la voce di Gigi D’Alessio scalda i cuori e riconduce a Mario Merola, il re della sceneggiata. In realtà, Napoli può finire soltanto con la scomparsa dell’ultimo filosofo; quindi mai, essendo culla del pensiero filosofico. Non fu una pazza idea, nel 2010, dedicare una monografia a Roberto Esposito, uno dei suoi figli più brillanti. “L’impolitico e l’impersonale”, edito da Morlacchi, servì per dare conto di una ricerca filosofica robusta e intraprendente, capace di riscuotere consensi e, soprattutto, traduzioni in giro per il mondo. Eppure, eravamo fermi, si fa per dire, a libri in cui risuonavano fondanti i termini di communitas, immunitas, bios, terza persona, pensiero vivente. Poi, negli ultimi dodici anni, la riflessione di Esposito si è estesa e sono arrivati “Le persone e le cose”, “Da fuori. Una filosofia per l’Europa”, “Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero”, “Politica e negazione. Per una filosofia affermativa”, “Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica”, e ieri, appena ieri, “Immunità comune. Biopolitica all’epoca della pandemia”. Tutti editi da Einaudi. Sono termini, titoli, libri che disegnano un percorso di filosofia autentica, di sforzo teoretico e generativo, di pensieri che illuminano il presente, la strada intrapresa e uno sbocco possibile.

Come ci si sente nel ruolo di chi vent’anni fa ha iniziato una riflessione filosofica su temi che oggi sono divenuti letteralmente centrali?

“Certamente non soddisfatto, dal momento che abbiamo pagato la conferma di quelle riflessioni al prezzo altissimo di una pandemia con milioni di morti. Del resto non sono stato l’unico a immaginare quanto poteva accadere. Tra il 2005 e il 2006 scienziati come Antony Fauci e Michael T. Osterholm avevano previsto fin nel dettaglio quanto sarebbe successo, spingendo a prepararci ‘for the next pandemic’. Il tutto mentre i governi occidentali smontavano la sanità pubblica”.

Avresti mai potuto immaginare una deriva così tragica?

“Era una possibilità insita nel disastro ambientale e nella pessima amministrazione del rapporto tra specie umane, animali e natura. I salti di specie, da parte dei virus, sono ormai tutt’altro che rari. Nella nostra impreparazione, e nella circolazione frenetica determinata dalla globalizzazione, si è inserita una contingenza francamente incontrollabile”.

“Immunità comune” è un bel titolo, perché mette insieme i due termini cruciali della tua riflessione. Credi che oggi, dentro l’immunità, sia da riscoprire soprattutto la comunità?

“Va innanzitutto rifiutata l’idea che comunità e immunità siano due blocchi contrapposti. Esse sono fin dall’inizio l’una dentro l’altra. Non c’è immunità che nella comunità. Così come non esiste comunità che non abbia dispositivi immunitari – per esempio il diritto – senza i quali qualsiasi società imploderebbe. Oggi – quando l’intera comunità mondiale chiede di essere immunizzata – i paradigmi di immunità e comunità appaiano sempre più sovrapposti, naturalmente con tutti i problemi irrisolti e i conflitti che ciò determina”.

Che cosa ha detto questa pandemia all’uomo del terzo millennio?

“Che o si va a una svolta radicale o il nostro modello di civiltà è condannato. Ciò riguarda la relazione, sempre più stretta, tra storia e natura, uomo e ambiente, scienza e tecnica. Ma anche i rapporti di forza economici e politici. Non è pensabile che il mondo possa resistere a una crescita delle disuguaglianze come quella cui stiamo da tempo assistendo e che la pandemia ha accresciuto. Mai come oggi è diventato chiaro che non è possibile che una parte di umanità si salvi a scapito dell’altra. O il mondo si salva nel suo insieme o rischia di perire tutto”.

Scrivi di una nuova interpretazione del concetto di immunitas. Che vuol dire?

“Non solo gli scienziati sociali, ma anche i biologi, lavorano su un concetto di immunità diverso da quello immaginato all’inizio del Novecento. L’immunità biologica, presente nei nostri corpi, non è solo un muro di difesa del ‘sé’ contro le aggressioni del ‘non-sé’. È una struttura assai più complessa, una sorta di filtro, che ci mette a contatto con l’esterno, determinando equilibri sempre diversi. A consentire i trapianti d’organo, un tempo considerati impossibili, e la stessa gravidanza nelle donne, è una funzione specifica del sistema immunitario. Senza confondere livelli diversi, in qualche modo ciò vale, o deve valere, anche per i sistemi sociali. Se fino a un certo momento la definizione di immunità biologica è stata influenzata dalla semantica politica, e anche militare, oggi bisognerebbe rovesciare la prospettiva, trasponendo sul terreno politico qualcosa di quella che i biologici chiamano ‘tolleranza immunitaria’ ”.  

Il contesto da tragedia epocale che viviamo ha rimesso in relazione, e in conflitto, il corpo e l’istituzione. Qual è il tuo giudizio sul comportamento di chi ha guidato il Paese?

“Un giudizio equilibrato. Errori, inadempienze e confusione sono stati notevoli. Per non parlare dei tanti difetti di comunicazione e di gestione. Basti pensare alle continue interferenze tra poteri regionali e potere centrale. Anche l’equilibrio costituzionale tra legislativo ed esecutivo è stato messo a dura prova e in qualche caso è saltato. Ma nel complesso le istituzioni hanno retto alla spinta devastante del virus, senza cedere. Corriamo su un filo che rischia continuamente di spezzarsi. Ma la battaglia per trasformare le istituzioni va fatta al loro interno, non contro di esse”.

Anche la filosofia e alcuni filosofi sono stati messi a dura prova dall’evento Covid. Come ne sono usciti e perché ti sei tenuto lontano dalle diatribe tra pro e no-vax, tra stato d’emergenza e stato d’eccezione?

“Non intendo dare voti a nessuno. In un quadro democratico, come quello in cui comunque viviamo, ciascuno deve avere la possibilità di esprimersi liberamente. Soprattutto quando lo si fa senza ricavarne alcun vantaggio personale, anzi rischiando qualcosa. Chi lo fa merita rispetto e considerazione, anche quando non si è d’accordo con lui. Mi sono tenuto lontano dalle diatribe perché non concordo con quanto hanno detto alcune persone che stimo. Ma quando qualcuno è attaccato da una maggioranza troppo ampia, anche se ha torto, non mi sento di unirmi al coro delle critiche. Ciò non nasce da una valutazione delle conseguenze, ma da un mio dato caratteriale”.

Che cosa separa la tua posizione da quella di Cacciari e Agamben?

“Parliamo di filosofi di alto profilo internazionale. Non condivido le loro conclusioni. Ma si sbaglia ad omologarli – mi sorprende che nessuno lo abbia notato. Parlano da punti di vista molto diversi. Agamben si pone fuori dall’orizzonte della democrazia rappresentativa, che considera omologa, sul piano paradigmatico, ai regimi totalitari, essendo entrambi interni al dispositivo sovrano, per lui sempre discriminatorio nei confronti della vita. Cacciari invece si situa all’interno della democrazia e mette in guardia dai rischi che essa corre, spesso a ragione. Concordo con diverse delle sue preoccupazioni e con quanto ha scritto sul rapporto tra politica e scienza nel suo recente libro Il lavoro dello spirito. Il dissenso nasce quando desume da premesse politiche giuste conseguenze, per me problematiche, sul contrasto alla pandemia. Lo stato di necessità cambia la gerarchia dei valori, rispetto alla situazione normale. Massimo sa benissimo che la politica moderna, già con Hobbes, nasce con l’obiettivo primario della conservazione della vita. Che la vita assuma una certa forma – innanzitutto quella della libertà – è altrettanto importante, ma, perché possa darsi un ‘modo di vita’, deve esserci intanto una vita”.  

Ti sei caratterizzato per una critica della teologia politica, per una critica di una concezione che tende a escludere il due a favore dell’uno, a escludere il conflitto a favore dell’ordine. Perché ti poni al di fuori?

“La teologia politica è una categoria fondamentale del pensiero novecentesco. Il saggio di Carl Schmitt sulla teologia politica, scritto esattamente cento anni orsono, ha influenzato tutta la grande cultura filosofico-politica contemporanea, assumendo diverse forme – escatologica, katechontica, messianica. Eppure qualcosa ci dice che questa grande storia volge al termine. Che dobbiamo trovare il coraggio di rompere la gabbia concettuale della teologia politica. È un’impresa quasi impossibile, dal momento che tutto il nostro linguaggio politico ha un fondo teologico-politico. Eppure dobbiamo provarci”.

Ti senti ancora posseduto dall’opera di Elias Canetti?

“Naturalmente sì. Dal pensiero della morte – l’unico che per lui alla fine contasse. Sempre più, tutti i miei pensieri muovono su questo sfondo. La morte ci stringe da tutte le parti, fino a toglierci la parola. Ma non ho la testarda fiducia di Canetti che si possa vincere la morte”.

L’amico Biagio de Giovanni, tuo maestro, ha lanciato un urlo per denunciare la solitudine di Napoli e l’abbandono della questione meridionale. Concordi?

“Certo. Intanto, lasciami ricordare che Biagio ha compiuto novant’anni un mese fa. Ho letto l’intervista che gli hai fatto per l’occasione. Ben pochi, tra noi, abbiamo la sua straordinaria forza e lucidità. Napoli e il Meridione sono del tutto abbandonati. Spiegare il motivo di tale abbandono sarebbe troppo lungo. Si aspetta ancora un ceto dirigente all’altezza. E che si capisca, una volta per tutte, che senza Mezzogiorno non esiste l’Italia come entità politica autonoma e originale”.

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