
Parole chiave: Riconoscimento, Intersoggettività, Empatia. Misconoscimento. Autosufficienza narcisistica
“Empatia tossica”? Note sulla cultura dell’onnipotenza autosufficiente
Di Chiara Buoncristiani
Nel corso di un’intervista recente, Elon Musk ha definito l’empatia “tossica”. La formula, evidentemente paradossale, ha trovato ampia eco mediatica. Più che un lapsus, sembra trattarsi di una vera e propria enunciazione ideologica: un’espressione di quella logica culturale che legge la relazione con l’altro come un rischio per l’autonomia, e la vulnerabilità come una minaccia da contenere.
Il giudizio negativo sull’empatia si inserisce in un quadro discorsivo più ampio, nel quale la soggettività si definisce secondo coordinate di indipendenza, calcolo e forza. In questa costellazione, l’affettività, la dipendenza, l’attenzione all’altro — spesso culturalmente associate al femminile — vengono progressivamente svalutate. Una genealogia di tale fenomeno non può prescindere da un’indagine sul misconoscimento come struttura psichica e sociale.
Misconoscimento e riconoscimento: la struttura intersoggettiva del sé
La teoria del riconoscimento, come articolata da Axel Honneth, offre una chiave interpretativa utile. Ogni esperienza soggettiva è, al fondo, una relazione: l’identità non si costituisce nel vuoto ma in un tessuto intersoggettivo fatto di sguardi, risposte, rimandi. Quando questa struttura viene negata o distorta, si produce sofferenza. La negazione dell’empatia, in questa prospettiva, può essere letta non come un rifiuto della relazione in sé, ma come una difesa contro la sua asimmetria costitutiva — contro il fatto che l’altro, nel momento in cui ci tocca, ci espone.
Per Honneth, la patologia sociale si manifesta quando viene meno il riconoscimento in una delle tre sfere fondamentali: affettiva, giuridica, sociale. L’insistenza sulla tossicità dell’empatia sembra riflettere, in prima istanza, una crisi nella sfera affettiva: un’insofferenza verso la dipendenza relazionale, verso la richiesta dell’altro che non può essere semplicemente ignorata. In particolare, il discorso proposto da Musk — seppure avvolto nella retorica dell’efficienza — sembra fare leva sulla difficoltà diffusa, specialmente tra molti uomini, a riconoscere la propria vulnerabilità affettiva. Il mito della virilità autosufficiente, che resiste a ogni legame come fosse un debito, trova qui una nuova razionalizzazione: se l’empatia è tossica, allora la dipendenza è patologica, e la richiesta dell’altro una forma di ricatto.
Eppure, l’empatia non è un optional culturale, né un costrutto fragile della civiltà postmoderna. È una competenza biologicamente radicata, frutto di una lunga evoluzione della specie. Come hanno mostrato Rizzolatti e Sinigaglia nel loro saggio So quel che fai, i neuroni specchio rappresentano il fondamento neurofisiologico dell’intersoggettività: non semplicemente un riflesso, ma una capacità strutturale di sentire l’altro dall’interno. La simulazione incarnata — come la definisce Gallese, a cui è stato conferito il premio Musatti per il suo contributo alla psicoanalisi — dimostra che la relazione empatica precede il linguaggio e fonda ogni forma di riconoscimento. Essa non è un eccesso, ma la condizione minima della convivenza umana.
Ma questo movimento non si arresta alla dimensione intima. Il discorso individuale viene generalizzato e traslato in una critica sociale più ampia, in cui l’empatia — o meglio: le politiche che si fondano sull’idea di riconoscimento — diviene bersaglio ideologico.
Il passaggio è sottile ma decisivo: dall’affetto all’etica, dalla relazione alla legge. Se la dipendenza affettiva è letta come fragilità, la cura per l’altro (che sia donna, migrante, persona vulnerabile) viene presentata come privilegio ingiustificato. Le parole di Musk si inseriscono in questa deriva: non è un caso che, negli Stati Uniti, l’amministrazione Trump abbia operato sistematicamente per svuotare di contenuto ogni dispositivo giuridico fondato sul principio di inclusione — dai diritti dei transgender all’asilo politico — presentando tali forme di tutela come eccessi di empatia, ovvero cedimenti alla debolezza
In tal senso, l’apparente diagnosi culturale (“l’empatia è tossica”) funge da fondamento per una politica del misconoscimento: affettivo, sociale e giuridico. La logica è la stessa: dove c’è relazione, c’è pericolo; dove c’è bisogno, c’è debolezza; dove c’è riconoscimento, c’è parzialità.
La teoria del riconoscimento, come articolata da Axel Honneth, offre una chiave interpretativa utile. Ogni esperienza soggettiva è, al fondo, una relazione: l’identità non si costituisce nel vuoto ma in un tessuto intersoggettivo fatto di sguardi, risposte, rimandi. Quando questa struttura viene negata o distorta, si produce sofferenza. La negazione dell’empatia, in questa prospettiva, può essere letta non come un rifiuto della relazione in sé, ma come una difesa contro la sua asimmetria costitutiva — contro il fatto che l’altro, nel momento in cui ci tocca, ci espone.
Riconoscere l’altro come soggetto: la proposta di Jessica Benjamin
Più radicale ancora è la proposta di Jessica Benjamin, la cui riflessione psicoanalitica insiste sulla natura paradossale della soggettività: per diventare sé, occorre incontrare un altro che sia riconosciuto come distinto, agente, non assimilabile né sottomettibile. Questo “terzo” spazio del riconoscimento reciproco non è né fusione né isolamento, ma una tensione costante tra autonomia e dipendenza.
Nel discorso pubblico contemporaneo, tale spazio appare sempre più ristretto. La polarizzazione ideologica, la logica amico-nemico, l’economia dell’attenzione sembrano ridurre la relazione a prestazione o minaccia. In questo contesto, l’empatia — anziché essere pensata come condizione per l’esistenza dell’altro come soggetto — viene fraintesa come forma di debolezza, come se il sentire l’altro equivalesse a farsi invadere.
Benjamin ha descritto questo movimento come una “patologia della unilateralità”: il soggetto che si difende dalla relazione finisce per deformarla, negando l’esistenza dell’altro come alterità irriducibile.. Tale unilateralità, tuttavia, non si limita a un piano psichico o culturale. Essa implica una vera e propria disattivazione della disposizione intersoggettiva che struttura il nostro essere-nel-mondo. Come mostrano le ricerche contemporanee sull’empatia incarnata, la capacità di sentire l’altro non è un’aggiunta secondaria, ma una forma primaria di accesso all’esperienza. La negazione del riconoscimento, in questo senso, non è soltanto un’esclusione dell’altro, ma un impoverimento del proprio mondo possibile, una riduzione dell’esperienza relazionale al solo controllo dell’altro o alla sua espulsione. È in questo orizzonte che possiamo comprendere l’irritazione contemporanea verso l’empatia: non come scelta razionale, ma come formazione reattiva.
Le economie del desiderio: dalla manosfera alla performance dell’indipendenza
Questa logica difensiva trova espressione anche nei modelli culturali veicolati da alcuni sottogruppi digitali, noti come manosphere — luoghi virtuali dove si elabora una visione relazionale basata sulla scarsità, la competizione e la gerarchia sessuale. La cosiddetta “regola dell’80/20”, secondo cui l’80% delle donne desidererebbe il 20% degli uomini, assume qui valore di dogma. Ne deriva una concezione del legame come scontro, e del desiderio come mercato: chi non ottiene riconoscimento erotico è vittima di un sistema truccato.
In realtà, come suggerisce la psicoanalisi, il desiderio non segue leggi distributive ma logiche fantasmatiche. E laddove il legame viene pensato come contabilità o algoritmo, ciò che si perde è proprio la dimensione più umana — e più inquietante — della relazione: quella in cui si è costretti a negoziare la propria posizione simbolica.
L’indignazione verso l’empatia si rivela allora come una forma di difesa narcisistica: il soggetto non può tollerare di dipendere da uno sguardo, e costruisce un mondo immaginario dove l’altro viene ridotto a funzione della propria autoconservazione.
Empatia e riconoscimento: tra esposizione e responsabilità
Parlare di empatia, in una prospettiva non sentimentale ma strutturale, significa parlare di esposizione. Judith Butler ha insistito su questo punto: la soggettività è sempre, in certa misura, passività. Siamo afferrati dal linguaggio, dalla norma, dal corpo dell’altro prima ancora di poterci dire sovrani.
In questo senso, l’empatia non è un accessorio morale, ma un’architrave ontologica: è ciò che rende possibile il riconoscimento dell’altro come altro-da-sé. Negarne la necessità equivale, in ultima analisi, a rimuovere la propria origine relazionale.
Non a caso, le esperienze cliniche più profonde ruotano attorno alla possibilità di essere visti senza essere invasi, accolti senza essere fusi, ascoltati senza essere dominati. La funzione analitica, da questo punto di vista, non è altro che la disponibilità a sostenere una forma di riconoscimento non simmetrico, ma asimmetricamente responsabile.
L’ironia del diniego
L’enunciazione dell’“empatia tossica” rivela — forse suo malgrado — il disagio di una soggettività che non riesce più a pensarsi come in relazione. Che si difende dal legame, proiettando su di esso il timore della perdita di sé. E che, proprio per questo, continua a riprodurre le condizioni del proprio isolamento.
La critica dell’empatia, se presa sul serio, non andrebbe derisa né semplicemente rifiutata. Va compresa come espressione di un desiderio paradossale: desiderare l’altro senza dipenderne, essere riconosciuti senza riconoscere. Ma questo desiderio è, come ogni fantasia di autosufficienza, destinato a fallire. La soggettività non si dà se non nella reciprocità. E ogni tentativo di negarlo — come ci insegnano Honneth, Benjamin e l’intera tradizione psicoanalitica — è destinato a produrre, prima o poi, le sue forme di sofferenza.
Bibliografia
Benjamin, J. (1995). Legami d’amore. Psicoanalisi, femminismo e soggettività. Raffaello Cortina.
— (2018). The Shadow of the Other: Intersubjectivity and Gender in Psychoanalysis. Routledge.
Butler, J. (2004). Vite precarie. I poteri del lutto e della violenza. Meltemi.
— (2016). La forza della nonviolenza. Un vincolo etico-politico. Nottetempo.
Gallese, V., Migone, P., & Eagle, M. N. (2006). La simulazione incarnata: i neuroni specchio, le basi neurofisiologiche dell’intersoggettività ed alcune implicazioni per la psicoanalisi. Psicoterapia e Scienze Umane, XL(3), 543–580.
Honneth, A. (2002). Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto. Il Saggiatore.
— (2007). Reificazione. Uno studio in chiave di teoria del riconoscimento. Meltemi.
Marramao, G. (2003). Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione. Bollati Boringhieri.
Rizzolatti, G., & Sinigaglia, C. (2006). So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio. Raffaello Cortina.
Taylor, C. (1992). The Politics of Recognition. In A. Gutmann (Ed.), Multiculturalism. Princeton University Press.
Winnicott, D. W. (1971). Gioco e realtà. Armando Editore.