Cultura e Società

“Sulla riva del mare”di A. Gurnah. Recensione di D. Federici

21/02/24
"Sulla riva del mare"di A. Gurnah. Recensione di D. Federici

Parole chiave: #esilio, #colonialismo, #letteratura, #Bartleby

SULLA RIVA DEL MARE

di Abdulrazak Gurnah (La nave di Teseo, 2021)

Recensione di Daniela Federici

Questi sono dunque i fatti che mi capitarono. Di molti è difficile parlare in maniera non drammatica, e alcuni mi riempiono di angoscia, ma sento il bisogno di dirli, di mostrarli come giudizi sul mio tempo e sulla meschinità delle nostre vite insincere.

Nobel per la letteratura 2021, Gurnah ha una scrittura fascinosa e poetica nel dipingere paesaggi e atmosfere, capace di evocare fragranze e colori ma anche di trasmettere il vissuto profondo dello sradicamento e la nostalgia dell’esilio. Scrittore africano naturalizzato britannico, narra con pacata limpidezza la Storia e gli universali dell’umano, le storture del colonialismo e le lotte fratricide, la violenza e la solidarietà, il valore della libertà e la forza di opporsi all’assimilazione.

Saleh è un mercante di mobili che lascia la sua terra per arrivare in Inghilterra, ma il suo visto non è valido e all’agente che lo sta respingendo si dichiara un rifugiato.

… il lampo di sicurezza con cui il fortunato guarda il supplice…

Il poliziotto gli dice che l’asilo politico è un gioco per giovani, lui ormai è un uomo anziano, solo, non conosce nemmeno la lingua, che sostegno può aspettarsi? Non era meglio restare dov’era?

A quale età si dovrebbe smettere di temere per la propria vita? O di voler vivere senza paura?… perché era immorale volere una vita migliore e più sicura?

È l’incontro con la nuova terra e i risvolti nascosti di ciò che ogni paese libero da a intendere di offrire.

… siamo venuti strisciando per chiedere di essere ammessi. Rifugiati. In cerca di asilo. Di pietà.

… è una piccola emozione ben nota, nelle nostre storie, lasciare ciò che conosciamo e arrivare in posti strani, trascinando piccoli bagagli affastellati e nascondendo ambizioni segrete e represse.

Saleh finge soltanto di non conoscere la lingua perché così gli è stato suggerito prima di partire.

Nel mezzo di quel dialogo fra chi parla e chi simula di non capire, c’è una piccola scatola d’incenso dalla fragranza sublime: oud-al-qamari,legno della luna, una resina che producono le piante di aloe infettate dai funghi.

Curioso che qualcosa di così celestiale sia frutto di una malattia.

Quel profumo è come un frammento di voce o il ricordo del braccio del mio amore sul collo … la scatoletta che avevo portato con me come unico bagaglio da una vita conclusa, le provviste per il mio aldilà.

Naturalmente gli viene sottratta, ma Saleh ha già perso tutto altre volte e rimane in una composta rassegnazione.

Il romanzo richiama al suo centro la figura di Bartleby e la sua celebre frase ricusatoria: Avrei preferenza di no, è come se Gurnah ne facesse la parola d’ordine dei protagonisti per riconoscersi tra simili. Quell’opporsi mite e tenace, che non rifiuta né accetta, di cui Deleuze dirà ‘un nulla di volontà più che volontà di nulla’, sembra essere la perfetta rappresentazione di Saleh, un uomo che non cerca vendette per quel che è stato nella sua vita, ma solo di vivere lontano dalle violenze e dalle umiliazioni, il diritto di essere lasciato in pace, il rifiuto a conformarsi e a familiarizzare.

Che cos’è un uomo in rivolta? – scriveva Camus – Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia. … il movimento di rivolta poggia, a un tempo, sul rifiuto categorico di un’intrusione giudicata intollerabile e sulla certezza confusa di un buon diritto, o più esattamente sull’impressione, nell’insorto, di avere ‘il diritto di…’ … Non esiste rivolta senza la sensazione d’avere in qualche modo, e da qualche parte, ragione. … Egli afferma, insieme alla frontiera, tutto ciò che avverte e vuol preservare al di qua della frontiera. Dimostra, con caparbietà, che c’è in lui qualche cosa per cui ‘vale la pena di…’, qualche cosa che richiede attenzione. In certo modo, oppone all’ordine che l’opprime una specie di diritto a non essere oppresso al di là di quanto egli possa ammettere (Camus, L’uomo in rivolta).

Quel misto di subordinazione e insubordinazione in Saleh non è opposizione al cambiamento, piuttosto il tentativo di ricostruire un resto di vita che preservi quel che è stato e che gli è necessario, la continuità di una riva di mare, un cuore invisibile ma non dimenticato.

È un posto triste, il paese della memoria, un deposito buio con pavimenti marci e scale arrugginite dove a volte si passa il tempo frugando fra cose abbandonate.

È così diverso qui che sembra che una vita sia finita e adesso ne stia vivendo un’altra.

… adesso vivo la mezza vita di uno straniero… forse esagero, o non resisto alla tentazione di sottolineare le differenze fra me e loro, la drammaticità del nostro contrasto… esagero nel tentativo di dare un senso a ciò che vedo. Non è facile, dopo tutti questi anni, imparare a non vedere, imparare a non dire il significato di quello che credo di vedere.

Ogni personaggio nel romanzo sembra l’occasione per narrare un periodo della vita del protagonista e al contempo un aspetto della Storia che lo contiene. La giovane assistente sociale che prende a cuore il suo caso lo fa pensare a sua figlia, riaprendogli nel cuore dolore, colpa e piacere. E quando la ragazza gli procura un interprete, Saleh si trova di fronte il figlio del suo acerrimo nemico.

Quel ritrovarsi è l’occasione di un viaggio nella memoria per entrambi, un racconto che riattraversa le faide familiari, il potere e l’amore, i torti e gli inganni, le pietose rivelazioni.

Ho il tempo sulle mani, sono nelle mani del tempo, per cui potrei anche render conto di me. Prima o poi ci tocca farlo.

È difficile sapere con precisione in che modo le cose sono arrivate a essere come sono… gli istanti mi scivolano fra le dita. Anche mentre li conto fra me e me, riesco a sentire l’eco di quello che sto sopprimendo, di qualcosa che ho dimenticato di ricordare. … e sento il bisogno di fare un resoconto dei piccoli drammi a cui ho assistito e in cui ho giocato un ruolo e il cui inizio e la cui fine si allontanano da me. Non credo che sia un bisogno nobile. Voglio dire che non sono a conoscenza di una grande verità che muoio dalla voglia di insegnare, né ho vissuto un’esperienza esemplare che illuminerà le nostre condizioni o i nostri tempi. Ma ho vissuto.

È l’incontro fra due uomini che hanno abbandonato il loro nome e la loro terra, sullo sfondo del disastro del colonialismo con la sua violenza anche morale, l’ideologia a legittimare la supremazia con i suoi privilegi, la spoliazione e l’assimilazione.

Accettare il loro dominio sulla nostra vita materiale, accettarlo nella mente oltre che nella realtà, cedere alla loro abbagliante sicurezza. … Era come se ci avessero rifatti, e in modi tali che non potevamo far altro che accettare, tanto completa e ben congegnata era la storia che raccontavano su di noi. Non credo che questa storia fosse raccontata cinicamente, credo che ci credessero anche loro. … le storie che conoscevamo su di noi prima che arrivassero loro sembravano medievali, fantastiche, miti sacri e segreti che costituivano metafore liturgiche e riti di appartenenza, una conoscenza di altro tipo che, malgrado i nostri tentativi di restarle fedeli, non poteva competere con la loro. … senza una conoscenza più piena della storia del molteplice mondo… solo un’ordinata accumulazione delle vere conoscenze che loro ci portavano, in libri che loro ci fornivano, in una lingua che loro ci insegnavano.

Il colonialismo era stato anche possibilità di ricchezza per Saleh, il commercio con quegli europei che avevano il bisogno di acquistare le cose belle del mondo per portarsele a casa e possederle, come prove della loro cultura e della loro apertura mentale, come trofei della loro esperienza del mondo e della loro conquista delle innumerevoli savane riarse.

E quando il colonialismo si era ritirato aveva lasciato l’arbitrio e la corruzione di governanti feroci.

Allora sembrò che i britannici non ci avessero fatto che bene, in confronto alle brutalità che potevamo farci da soli.

…perché avete deciso di andare a prendere quello che apparteneva ad altri e chiamarlo vostro e prosperare con la doppiezza e la forza. Addirittura combattere e mutilare per cose a cui non avevate diritto.

Come pensiamo il mondo in cui viviamo? La mia educazione coloniale… era un pensiero che mi lasciava senza parole, com’era possibile sapere così poco e accontentarsene…

Saleh è un appassionato di mappe, le rappresentazioni del mondo. Sembra stare in questo il messaggio dell’Autore.

… credo che sia meglio sapere, tutto sommato.

… sapere quello che è successo per capire cosa stiamo facendo e come siamo diventati e quali storie ci raccontiamo. … le storie. Ci sfuggono sempre dalle dita, cambiano forma, lottano per andarsene via. Occorre il lavoro del pensiero e riflettere il tempo necessario per dare un nome al ricordo…

La letteratura riscatta le storie dall’oblio e nutre la valenza morale della ricerca della verità, offrendosi alla perenne messa in forma delle cose, favorendo la possibilità di venire a patti con le assurdità e la violenza dell’esistenza. Conoscere, espandere le mappe con cui guardiamo il mondo, plasma la nostra identità fra lo sfondo di memoria del passato e l’orizzonte di speranza del futuro.

Viene in mente il prigioniero Edmond Dantès e l’abate al di là del muro: il rumore di Faria che scava è diventato un complemento necessario alla concentrazione dei miei pensieri… mi basta sapere che qualcuno sta cercando una via d’uscita per convincermi che una tale via esiste; o almeno, che ci si può porre il problema di cercarla (Dumas, Il conte di Montecristo).

Abbiamo sempre bisogno di un compagno segreto che accompagni la nostra navigazione.

L’essere e osservarsi della psiche è in quello spazio che Gurnah narra dal dentro dell’esilio di Saleh.

… le ore di buio sono diventate così preziose per me, come i silenzi della notte si siano rivelati così pieni di mormorii e di sussurri, quando prima erano così terribilmente immobili, così tesi per l’inquietante mancanza di rumori che incombeva sulle parole. Come se venire a vivere qui avesse chiuso una porta stretta e ne avesse aperto un’altra su una strada che va allargandosi… Anelo alla notte ogni arido giorno, anche se temo il buio e i suoi spazi illimitati e le sue ombre mutevoli. A volte penso che sia mio destino vivere tra le macerie e la confusione delle case in rovina.

La ricerca di senso e l’incontro con l’altro, nemico-amico, cui raccontare e da cui farsi trasformare.

Due persone che parlano in una stanza.

Le sue visite mi hanno fatto bene, mi hanno mostrato più di quanto avrei potuto vedere se fossi stato abbandonato a me stesso, mi hanno fatto ricordare cortesie e attenzioni, mi hanno portato affetto e mi hanno dato modo di affezionarmi a mia volta. Non sono doni da poco….

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