
Parole chiave: dinamiche familiari, transgenerazionale, trauma, elaborazione del lutto, riparazione
In ricordo di Marta Badoni
“Una casa di ferro e di vento” di L. Bonini e Paolo Valsecchi
(Casa Editrice Nord, 2024)
Recensione di Maria Grazia Gallo
Da appassionata lettrice quale sono credo che i libri “chiamino” e intercettino le proprie inclinazioni, i propri desideri, le passioni come per me la psicoanalisi: girovagando, come è mia abitudine tra librerie, mi sono imbattuta in un libro dal titolo curioso “Una casa di ferro e di vento” ad opera dei due giornalisti e scrittori L. Bonini e P. Valsecchi, al loro romanzo d’esordio.
Leggo sul retro di copertina che il libro è ambientato a Lecco, sul ramo orientale del lago di Como, (dove vivo) e parla delle vicende di una dinastia industriale legata alle acciaierie: i Badoni. Il pensiero va immediatamente con sorpresa e curiosità alla nostra collega Marta recentemente scomparsa (4 maggio 2024) e al suo lascito inestimabile.
Marta ci ha donato questo ulteriore lascito: ultima discendente (di 12 figli) della famiglia, ha permesso la scrittura di questo libro concedendosi generosamente in un ‘intervista ai due scrittori a partire dal ritrovamento del diario del padre, l’ingegnere Giuseppe Riccardo Badoni, capitano d’industria dalle grandi ambizioni e visionario al punto da diventare protagonista dell’industrializzazione del paese e ricostruzione nel secondo dopoguerra.
Il romanzo, sia storico sia saga familiare, come gli stessi autori dichiarano, è piuttosto fedele alle vicende familiari e dell’azienda paterna, basandosi in primis sulla testimonianza di Marta, sul diario paterno e sui documenti custoditi nell’archivio familiare nonché sugli epistolari di famiglia e la raccolta di memorie della sorella Sofia.
Nell’esordio ritroviamo una Marta come chi l’ha conosciuta, nel giardino della sua villa di famiglia in cui ritorna dopo trent’anni: un giardino in cui era solita ospitare colleghi e amici “vere presenze”, passeggiare e prendersi cura di fiori, di piante e di animali, metafora della sua “promenade sensorielle che è la sua via alla psicoanalisi”, come scrivono S.Nicasi e A.Fusilli De Camillis.
Della grande fabbrica è rimasto ben poco (l’edificio neogotico della vecchia mensa), così come della villa, ma quest’ultima rimane tuttavia un “luogo dell’anima” che il romanzo ricostruisce attraverso una narrazione polifonica e corale: ciascun capitolo introdotto dalla poesia di Piera, una delle sorelle di Marta, descrive le esistenze e dà voce ad una galleria di personaggi, in particolare alle figure femminili, figure “contro vento” che sfidano destino e sorti per restare fedeli alle loro verità interiori, unite insieme dal “ filo del ferro, del metallo forgiato dalla grande fabbrica”.
Come la primogenita Laura, amante della libertà e ribelle, ma che poi “consegna il figlio all’altare della fabbrica” per ottenere l’indulgenza tanto desiderata del padre; come Sofia dalla sfortunata vicenda sentimentale; Adriana che, dopo aver dedicato la sua giovinezza all’impresa di famiglia, si sottrae a quest’ultima e sceglie la clausura; Piera, creatura fragile e sensibile che cerca rifugio nella poesia. E poi Nicoletta, Costanza, Elisabetta, Franca.
Tutto ruota attorno alla figura del grande patriarca G.R. Badoni e al suo disperato sforzo di “saldare” a sé le esistenze dei propri familiari e figli e proiettare suoi progetti su vite altrui: su Antonio, unico figlio maschio e suo “delfino” prematuramente scomparso in guerra e poi sul nipote Giuseppe, richiamato a sé dopo anni di lontananza.
Un padre severo che pur proiettando aspettative sui figli, “ha cercato di insegnarci puntualità negli impegni,” dice Marta in un’intervista e “ha favorito inventiva e libertà nei nostri giochi, aiutato i nostri progetti: abbiamo potuto studiare, viaggiare,” e alla fine “seguire le nostre aspirazioni, vivere del nostro lavoro”.
Marta è l’ultima delle figlie di secondo letto, forse un po’ privilegiata dal padre che le faceva piccole concessioni. Era lei, esortata anche dalla madre Emilia Gattini, ad avere il compito di andare incontro al patriarca di ritorno dalla fabbrica e sollevarne gli umori, confortarne la stanchezza. Questo suo ruolo, unito all’educazione all’ascolto e all’interiorità da parte della madre, figura spesso nell’ombra del marito e della storia ufficiale della famiglia, ma dotata di grande forza morale e sensibilità, sembrano essere forieri della futura vocazione psicoanalitica della figlia.
Marta, viene riportato nel romanzo, “si domandava inevitabilmente quanto sollievo avrebbe potuto portare alla sua famiglia, se solo non fosse stata l’ultima figlia”.
“La ghisa, se si rompe, non si può riparare” le diceva il padre esprimendo una delle sue più grandi paure, durante le visite insieme a lei all’acciaieria. E di rotture definitive e di come si possa trovarvi rimedio Marta si occuperà all’interno della sua famiglia e nell’intero arco della sua vita professionale: “si può riprenderla la ghisa, ma non si sa cosa ne possa venire fuori, un mistero”.
Attraverso la sua voce narrante implicita e il suo sguardo riflessivo, il romanzo si trasforma in un’indagine psichica oltre che storica, in cui le dinamiche familiari vengono esplorate come sistemi complessi, segnati da alleanze, silenzi, lutti irrisolti e desideri transgenerazionali.
Il diario paterno, che Marta vuole aprire soltanto dentro la villa di famiglia, custodisce un segreto, un vissuto doloroso taciuto a tutti, ma incistato profondamente nella storia familiare: dietro a quell’uomo, dall’apparente tempra di acciaio, c’era un bambino smarrito orfano di entrambi i genitori e di sei fratelli: il lutto mai elaborato dell’unico figlio erede, Antonio, aveva fatto riaffiorare il tragico trauma abbandonico. “Una cosa sola poteva salvarlo…: il lavoro, il sacrificio, la dinastia, la fabbrica…e tenere saldate a sé le sue creature. Tutte, pur di non fare i conti, ancora, con il dolore degli addii”.
Attraverso la rilettura delle lettere, dei diari, delle memorie, l’ultima Badoni compie un vero e proprio lavoro di elaborazione del lutto — non solo personale, ma storico e transgenerazionale.
Ora Marta capisce che la villa è “solo lo specchio di tante anime, spesso incapaci di comprendersi l’un l’altra. Ciascuna alla ricerca disperata di un brandello di pace e di libertà.” Anche lei aveva sentito di essere incastrata in un’esistenza che non le apparteneva: “di convivere …per tutta la giovinezza con le ombre di aspettative e assenze domestiche”.
Attraverso di lei, il romanzo riflette sulle possibilità (e sui limiti) della cura, sul peso della memoria e sulla necessità — a volte dolorosa — di raccontarsi per non soccombere al non detto.
Gli autori dicono che “aver conosciuto Marta è stato un grande privilegio” e tutti noi, suoi colleghi, lo sappiamo.
Consiglio questo libro quindi per chi vuole continuare a dialogare con lei, per sentirla ancora una volta accanto, con quel suo modo unico di “stare con”, di prendersi cura, di ricordare.
Bibliografia
Stefania Nicasi, Alessia Fusilli De Camillis La via di Marta Badoni alla psicoanalisi, in Marta Badoni, Prendersi in gioco. Milano, Raffaello Cortina Editore
Piera Badoni Felicità che pure esisti, a cura di Alba Caprile, Lecco, Periplo Edizioni
Archivio Tecnico Badoni SiMUL (Sistema museale lecchese)