Cultura e Società

Liberi tutti

17/02/10

 

STEFANIA NICASI INTERVISTA VALERIA BABINI

V.P. Babini, Liberi tutti. Manicomi e psichiatri in Italia: una storia del Novecento. Il Mulino, Bologna, 2009.

Parto dalla domanda più semplice. Perché questo libro?

Da subito, allora, la risposta più semplice. Mancava una ricostruzione storica del cammino della psichiatria italiana del Novecento. Un vuoto storiografico che andava colmato date le vicende e gli esiti che tale cammino ha avuto in Italia – non possiamo del resto dimenticare che il movimento anti-istituzionale e la figura di Basaglia sono stati un punto di riferimento per la psichiatria mondiale

Poi, una risposta più personale. Sono una storica della psichiatria e mi sembrava importante, conoscendo le vicende italiane, approfondirne lo studio per renderle a tutti più note. La psichiatria della prima metà del Novecento era poco studiata e poco conosciuta; quella degli anni sessanta/ settanta narrata, prevalentemente se non esclusivamente, dai protagonisti. Ricostruirla storicamente, raccontarla e renderla nota e leggibile a un pubblico vasto – il libro è uscito nella collana storica del Mulino, non nella collana Studi e ricerche – mi è parsa un’occasione importante sul piano culturale. Credo infatti che, come ha sottolineato Sergio Luzzatto nella recensione al mio libro sul domenicale del Sole 24ore (10 gennaio 2010), la storia della psichiatria italiana del Novecento sia un capitolo tout court della storia d’Italia. Questo è ciò che ho cercato di mostrare nel libro, ricostruendo sia le ragioni politiche sia le ragioni scientifiche di un’impresa che mostra come la questione psichiatrica in Italia abbia rappresentato un momento centrale del cammino del nostro paese cammino verso la democrazia. Ma in questa impresa mi premeva anche sottolineare la parte che hanno avuto alcuni uomini, che, con il loro carattere e le loro idealità, si resero forze attive di trasformazione, nella cultura e nella società.

Ti riferisci a Basaglia?

Certamente: la persona Franco Basaglia, non solo la sua leadership, è stata determinante. Spero che questo, nel mio libro, si colga. Ma non mi riferivo esclusivamente a Basaglia. Volevo dire che, a partire dal secondo dopoguerra, e in modo più decisivo negli anni sessanta, il problema della trasformazione dell’assistenza psichiatrica si affianca, si incrocia e a volte si pone anche in conflitto con la realizzazione di un sistema sanitario nazionale tanto atteso quanto necessario. Soprattutto si rende progressivamente evidente che con la questione della cura delle malattie mentali nei manicomi (la vecchia legge del 1904 disponeva del solo ricovero obbligatorio e privava dei diritti civili il malato mentale ricoverato) si pone un problema di democrazia concreta. Come si legge nell’ editoriale del 1966 di un’importante rivista nata a Firenze e diretta da Graziella Magherini, "Assistenza psichiatrica e vita sociale", è la coscienza di cittadini democratici, unita alla disponibilità dei nuovi mezzi terapeutici (gli psicofarmaci, scoperti nel 1952 e presto utilizzati), a non consentire più di "tollerare" il manicomio e il vecchio stile di cura e custodia lì dentro praticato. Ma va detto che all’allargarsi di questa sensibilità democratica, oltre agli psichiatri contribuiranno in modo determinante i media (mi vengono subito in mente l’inchiesta giornalistica di Angelo Del Boca nel 1966, e i servizi televisivi tra cui il memorabile I giardini di Abele di Sergio Zavoli), nonché l’entusiasmo e il coinvolgimento degli stessi cittadini (così per esempio a Colorno alla fine degli anni sessanta), ma anche alcuni uomini politici: tra questi, solo per citarne uno, il ministro della sanità Luigi Mariotti che, nel settembre del 1965, scagliava per così dire la prima pietra parlando di ospedali psichiatrici simili a "veri e propri lager germanici".

Nel libro tu riconosci un ruolo importante anche a Mario Tobino.

È così. Al di là della polemica degli anni settanta tra Basaglia e Tobino (cui peraltro va riconosciuto di essere stato l’unico avversario dichiarato della leadership basagliana), non si può trascurare che lo psichiatra/scrittore pubblica nel 1953 Le libere donne di Magliano: libro che parla dei "matti" dall’interno della fortezza manicomiale. Il libro, inoltre, verrà rieditato dieci anni dopo da Mondadori, quando Tobino è ormai divenuto uno degli scrittori più popolari d’Italia. Ma è già nel ’53, dunque, che si parla dei malati di mente rinchiusi in manicomio come "creature di dio", bisognose di amore. Per quell’epoca è molto: non dimentichiamo che il primo servizio fotografico che porta sotto gli occhi degli italiani le immagini e le condizioni dei malati di mente è un reportage agghiacciante di Francesco Jovane pubblicato sul settimanale "Le ore" del 1959. In più, come dicevo, con la riedizione delle Libere donne all’inizio degli anni sessanta, l’umanità dei matti diviene un tema della letteratura nazionale. Insisto: Tobino era come Cassola, Bassani, tra gli scrittori più letti e più popolari. Così, mi pare si possa ragionevolmente affermare che grazie al poeta/ scrittore/ psichiatra Mario Tobino, l’Italia comincia, attraverso la letteratura, a familiarizzare con quel mondo di esclusi e rinchiusi che sarà pochi anni dopo al centro delle battaglie anti-istituzionali. Voglio dire che, al di là dei diversi orientamenti, Tobino prepara una strada: quella del dialogo tra psichiatri e cittadini, che sarà poi e in tutt’altro contesto ideologico il cavallo di battaglia di Basaglia e del movimento anti-istituzionale.

Quale ti sembra la novità più interessante nella tua ricostruzione storica ?

Anzitutto, mi è parso di dare della psichiatria dell’epoca fascista una visione meno monolitica e scontata: l’Italia fascista non è solo quella di Cerletti e dell’elettroshock ma anche quella, ad esempio, del "caso Elena" magistralmente esaminata dal fenomenologo Giovanni Enrico Morselli. Poi , direi, la messa a fuoco della svolta degli anni cinquanta. Nel libro, infatti, mostro che è in quegli anni che si prepara e affonda le sue radici l’idea della necessità di un cambiamento radicale nell’assistenza e nella cura dei malati di mente. Non voglio, ovviamente, con questo dire che tutto quello che avviene negli anni sessanta e settanta sia l’effetto di quanto posto negli anni cinquanta, ma, nondimeno, penso che non avrebbe potuto realizzarsi senza i cambiamenti politici e di mentalità risultanti dalla seconda guerra mondiale – penso alla presa di coscienza degli orrori dei lager nazisti – sia senza la scoperta degli psicofarmaci. Caso ha voluto che proprio mentre si avvertiva dolorosamente l’insostenibilità morale e politica di quel paragone, " manicomi come lager", che sarebbe poi divenuto uno slogan del movimento psichiatrico riformatore, venivano scoperti in Francia, peraltro in modo abbastanza curioso, i primi neurolettici. Si rendeva così concretamente pensabile l’apertura delle strutture manicomiali e lo spostamento dell’assistenza sul territorio. Certo occorreva trovare la strada e la forza per cambiare, ma la "pensabilità" di quel cambiamento era ormai posta.

Qualche altra osservazione, magari per il periodo più vicino a noi?   

Pur cercando di dare al movimento anti-istituzionale e a Basaglia tutto quello che gli si doveva, ho voluto mettere  in evidenza anche la parte giocata da altri movimenti e da altri personaggi che, a diverso titolo, hanno partecipato a quella che nel libro ho chiamato la rivoluzione psichiatrica italiana. Così, per esempio, la psichiatria di settore, che ebbe in  Edoardo Balduzzi una figura di spicco e con cui di fatto si aprì quel "processo al manicomio" che poi si radicalizzò nel movimento anti-istituzionale; così il gruppo fiorentino (ricordo gli psichiatri Graziella Magherini, Franco Mori, Arnaldo Ballerini, ma anche Marcello Trenatanove dei Cemea) gravitante attorno alla già citata rivista "Assistenza psichiatrica e vita sociale" che ebbe un ruolo fondamentale nel richiamare l’attenzione sull’importanza della formazione del personale infermieristico, nell’aprire il dialogo su quanto di nuovo si veniva facendo nell’assistenza psichiatrica in Italia, nonché nel collegamento del movimento psichiatrico al progetto politico del sistema sanitario nazionale (Ivan Nicoletti, Severino Delogu); sia, ancora, il gruppo milanese per lo sviluppo della psicoterapia, guidato per così dire da Pier Francesco Galli, che, proponendo un dialogo con la psicoanalisi e la psicoterapia e la necessità di un recupero del ritardo nazionale, si fece carico della cultura psichiatrica in Italia in un momento in cui la battaglia anti-istituzionale decideva di dover necessariamente lasciare da parte il problema "tecnico". Non si può infatti trascurare il fatto che lo svecchiamento della cultura psichiatrica in Italia è in buona parte avvenuto per via editoriale, e più in particolare attraverso la feltrinelliana collana di psicoterapia e psichiatria clinica diretta da Galli e Gaetano Benedetti, in un momento in cui l’università prendeva e dunque perdeva tempo, non riuscendo a proporre nulla di nuovo. Né va trascurata l’operazione di Boringhieri, fondamentale per la diffusione del pensiero di Freud in Italia.

Quale ti sembra il ruolo giocato dalla psicoanalisi in questa "storia del Novecento"?

La storia della psicoanalisi in Italia è la storia di un lento e difficile cammino all’interno di una cultura, scientifica e non, che per varie e diverse ragioni le ha opposto resistenza fin dall’inizio del Novecento. Ruolo decisivo in questa lenta penetrazione lo ebbe la presenza di una tradizione scientifica alta (almeno per la prima parte del secolo) che aveva nell’anatomia patologica e nella neurologia i suoi punti di forza, riconosciuti anche a livello internazionale. Ma a questo ostacolo interno, che si tradusse nella scarsa considerazione della clinica psichiatrica e quindi nella difficoltà di penetrazione della psicoanalisi, si aggiunsero opposizioni politiche e ideologiche: la opposizione della chiesa, che solo negli anni cinquanta diede i primi segnali di apertura verso la psicoterapia, ma non verso la teoria psicoanalitica – di fatto lo sdoganamento ebbe inizio negli anni sessanta con il libro di Leonardo Ancona, La psicoanalisi (La Scuola, Brescia, 1963), che dedicava ben 72 pagine su 221 alla delicata questione dei rapporti tra psicoanalisi e religione cattolica – nonché dal fascismo che rinvigorì, per così dire, l’impostazione biologistica della psichiatria italiana (grazie anche al neocostituzionalismo di Nicola Pende) e che con la promulgazione delle cosiddette leggi razziali nel 1938  diede il colpo di grazia alla già esigua Società italiana di psicoanalisi. Fu così che Edoardo Weiss riparò a Chicago, Cesare Musatti venne sospeso dall’insegnamento, il filosofo Enzo Bonaventura, che proprio nel 1938 aveva dato alle stampe la prima opera sistematica sul pensiero di Freud, si rifugiò in Palestina, Emilio Servadio emigrò in India. Ma, anche nel secondo dopoguerra, l’apertura della psichiatria alla psicoanalisi sarà lenta e soprattutto legata alla iniziativa individuale: iniziativa di quei medici e psichiatri che, o formatisi in Italia in mezzo a mille difficoltà e nascondimenti, o addirittura all’estero (Svizzera, Germania, Inghilterra, Stati Uniti) cercarono di introdurre in Italia, e in particolare nella realtà delle istituzione pubbliche, la pratica della psicoterapia anche con gli psicotici (qui i nomi sarebbero tanti e preferisco non citare per non dimenticare qualcuno). Ma, cosa importante e insieme ammirevole,  fu un tentativo davvero affidato all’intraprendenza e al coraggio individuali, anche se fu in qualche modo travolto  dal fortunato cammino del movimento anti-istituzionale.

Un’ultima cosa. Tu apri il libro con il servizio televisivo di Zavoli e lo chiudi con il richiamo a un articolo di Dentice sull’"Espresso". Vuoi dire che senza l’appoggio dei media l’Italia non avrebbe avuto la 180 o quella che comunemente viene chiamata la "legge Basaglia"?

Sì e no. Certamente riconosco il ruolo fondamentale giocato dai giornalisti in quella che considero, al di là degli esiti nella legge 180, la operazione più importante di tutta la vicenda psichiatrica in Italia: è cioè la negazione di una specificità psichiatrica, il bisogno di aprire un dialogo con la società, e dunque di riportare sul piano della decisione etica e politica una questione come quella della cura delle malattie mentali che è anche una questione di democrazia. In più, lo dico con grande sincerità, in alcuni pezzi giornalistici ho ritrovato una sensibilità, un’ intelligenza e una cultura tali da farmi riflettere. In particolare, devo dire che, mentre ancora andavo svolgendo la mia ricerca, i due pezzi con cui apro e chiudo il libro mi hanno presa di sorpresa, suggerendomi due idee "motrici" del mio lavoro di riflessione e di scrittura. A Zavoli devo la messa a punto dell’incontro tra storia d’Italia e storia della psichiatria come necessità di una presa di coscienza etica del paese; a Dentice il suggerimento a rintracciare un’aria di famiglia, per così dire, tra due personaggi della psichiatria e delle scienze dell’uomo così tra loro apparentemente lontani, quali furono  Maria Montessori e Franco Basaglia. Pur avendo scritto un libro sulla formazione scientifica e intellettuale di Maria Montessori, non mi  ero accorta di questa parentela. È una intuizione su cui mi riservo di ritornare. Per ora mi sento solo di sottolineare che l’Italia del Novecento ha dato al mondo due metodi rivoluzionari nelle scienze dell’uomo, uno per i matti uno per i bambini, entrambi costruiti sul valore vivifico della libertà. E che è per questo tema della libertà che il nome di Montessori e il nome di di Basaglia hanno portato l’Italia nel mondo.

Stefania Nicasi

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