Cultura e Società

L’inconscio post-coloniale

3/04/20

Il giorno 8 febbraio presso il Centro di Psicoanalisi Romano si è svolto un incontro intorno al libro L’inconscio post-coloniale. Geopolitica della psicoanalisi di Livio Boni, dottore di ricerca a Parigi in psicopatologia e psicoanalisi. E’ stato preso in considerazione il rapporto inesplorato della psicoanalisi con il tema del colonialismo.

Oltre all’autore hanno  partecipato al discorso  psicoanalisti e antropologi come si può vedere dalla locandina sotto riportata.

Pubblichiamo  la riflessione portata al convegno da Livio Boni

 

Livio Boni

Intervento alla Società Psicoanalitica Italiana in occasione della giornata di studio

“L’inconscio post-coloniale. Geopolitica della Psicoanalisi”

 (Centro Psicoanalitico Romano, 8 febbraio 2020)

 

Si è spesso portati ad accoppiare i due ordini dei discorsi “storia e geografia” della psicoanalisi come se si trattasse di discipline complementari,, quasi fossero un’unica “materia”… Tuttavia si possono vedere le cose altrimenti, e considerare l’approccio storico e l’approccio geografico come, se non alternativi l’uno all’altro, quanto meno in tensione. Come se si trattasse di due polarità discorsive che costituiscono un campo di forze e di tensioni interne. Il primato della storia è stato oggetto di innumerevoli critiche e contestazioni nel pensiero del Novecento, e talora tali critiche hanno in effetti preso la forma di una valorizzazione dell’elemento geografico, spaziale, topografico, cartografico… Tutti questi termini non si equivalgono tra di loro, ma hanno in comune il fatto di segnalare un tentativo di contestare il primato filosofico della storia,(proprio al XIX° secolo) o di riformularlo fortemente, tentativo che è proprio a correnti di pensiero assai diverse tra di loro (da Walter Benjamin al surrealismo, dallo strutturalismo al postmodernismo, ivi compreso il marxismo contemporaneo, in cui per esempio un autore influente come David Harvey ha formulato la nozione,  assai interessante, di “materialismo storico-geografico” per suggerire appunto una rivalutazione dell’aspetto spaziale (“spatial fix” del capitale) e l’idea che occorra interessarsi ai modi spazializzazione del capitale nel mondo contemporaneo, in contesti geopolitici che sembrano assai diversi, ma che sono sorretti da logiche simili (per esempio l’urbanizzazione, la valorizzazione immobiliare e la gentrificazione sono fenomeni globali, che interessano i Cinque continenti, travalicando differenza storiche e culturali).

 

La psicoanalisi è senz’altro fondamentalmente implicata in questa vasta contestazione e riforma delle filosofie della storia centrate sull’idea dell’intelligibilità di un processo storico più o meno totalizzante e coerente). Accenno a questo contesto generale, per indicare che, se dovessi designare l’intento più generale e astratto de L’inconscio post-coloniale direi che esso consiste, ancor prima che nel nel mostrare una storia altra, o minore, della psicoanalisi, fuori o ai margini del mondo europeo, innanzitutto nel rompere, anche solo parzialmente, con la rappresentazione dominante della storia della psicoanalisi stessa come, per l’appunto, processo grosso modo univoco di occidentalizzazione. E’ in effetti abbastanza indubbio che come tale ci si rappresenta abitualmente il suo divenire storico. Nata nel cuore della mitteleuropa ebraico-tedesca la psicoanalisi si sarebbe progressivamente spostata verso ovest. L’avvento dello stalinismo e del nazismo nel corso degli anni Trenta avrebbero dato poi un impulso decisivo a questo destino di occidentalizzazione del freudismo che tuttavia era già in corso, e in cui la diaspora dell’intellighenzia ebraica dell’Europa centrale verso La Gran Bretagna e Gli Stati Uniti tende a sovrapporsi con un certo immaginario coloniale, tradito per l’appunto dall’identificazione di Freud con Cristoforo Colombo, dalla metafora della conquista di un Continente sconosciuto, o da quella, ricorrente, dei “pionieri” della psicoanalisi, per designare le prime generazioni di analisti.

Nemmeno l’ampia e profonda penetrazione della psicoanalisi in America Latina sfugge a questa rappresentazione geopolitica occidentalista. Molti sono i lacaniani in Argentina o in Messico, per esempio, che concepiscono il lacanismo come una forma di resistenza culturale all’imperialismo americano… E perché no ! Salvo che, cosi’ facendo, si iscrive comunque la psicoanalisi in una storia centrata sulla sua occidentalizzazione, sulla sua americanizzazione, foss’anche  per resistervi, senza porsi la questione di sue eventuali “eterotopie”, né di che cosa accada, ad esempio, quando essa transita dal mondo europeo al mondo post-coloniale.

Questo libro vorrebbe essere un contributo al tentativo di scartarsi da questa narrazione quasi “spontanea”, cercando di aprire una prospettiva verso Sud e verso Est, invece che sempre più all’Ovest ! E’ stato davvero un po’ in questi termini che mi sono figurato le cose, dandomi come filo rosso metodologico quello di rivolgermi ai casi, non numerosissimi ma significativi, in cui la psicoanalisi aveva intrapreso altre rotte, fuori dal mondo europeo, verso il Sud et l’Est, per l’appunto:  l’India, Madagascar e l’Algeria…

 

Scommettere su un tropismo geografico meridionale-orientale contro la grande narrazione della psicoanalisi come conquista del West, questo sarebbe in effetti un modo di presentare il mio approccio. Ma si potrebbero dire le cose altrimenti, forse più semplicemente e concretamente: interessarsi alle incursioni e agli innesti critici della psicoanalisi nel mondo coloniale e al suo contributo alla questione della decolonizzazione. In fondo la psicoanalisi nascente non si trova direttamente  confrontata ad una simile questione. Occorrerà in effetti attendere che essa attecchisca in Francia e in Gran Bretagna, le grandi nazioni del colonialismo moderno, per veder se in quale misura sia suscettibile di intercettare la questione coloniale, e in quali termini. Detto questo, non è mia intenzione riassumere il contenuto del mio saggio, il che sarebbe noioso tanto per me quanto per chi l’abbia già letto.

Vorrei invece tentare qualche variazione sul tema e prolungare un po’ altrimenti quanto già elaborato.

 

Prima di tutto occorre osservare che tutti e tre gli autori principali che ho preso in esame, – l’indiano Girindrasekhar Bose, il francese Octave Mannoni e il franco-martinicano Frantz Fanon – antesignani della psicoanalisi post-coloniale, hanno vissuto, intellettualmente e soggettivamente, in una condizione di co-appartenenza, e talora di scissione intima, tra almeno due mondi, il mondo del colonizzatore e il mondo colonizzato.  Ciò è evidente par Fanon, che ne farà un tema esplicito, sopratutto in Pelle nera, maschere bianche, ma vale anche per Octave Mannoni, il quale aveva trascorso, al momento in cui comincia a scrivere Psicologia della colonizzazione, nel secondo dopoguerra, più di vent’anni nel mondo coloniale, tra la Martinica, la Réunion e Madagascar, in qualità di professore di filosofia, e che era profondamente marcato da un certo tipo di mentalità coloniale progressista, la cui traccia è ancora forte nel suo primo libro, Psicologia della colonizzazione, che, lo ricordo en passant, rappresenta una vera e propria transizione, personale, intellettuale e politica, dal mondo coloniale al mondo post-coloniale, ma che, malgrado le sue intuizioni geniali e innovative, è ancora appesantito da un certo “etnografismo” (Fanon), dalla letteratura gesuitica, e persino da una certa tradizione di “psicologia dei popoli”, e, più in generale, da una posizione di surplomp e di osservazione oggettivante della “psicologia malgascia”. Accanto a queste incrostazioni della scienza positivistica e coloniale, tuttavia, il libro si distingue per il suo essere in situazione… Non solo perché la nozione di “situazione coloniale” vi è esplicitamente tematizzata (e in parte depotenziata dalla lettura, per l’appunto un po’ troppo etnografica,  dell’incontro tra il complesso di inferiorità europeo e il complesso di dipendenza malgascio, ma in quanto transita progressivamente verso il problema della psicologia del colonizzatore. La decolonizzazione diventa un problema comune, e, anzi, un problema da trattare innanzitutto sul versante del colonizzatore.

Scrive infatti Mannoni alla fine dell’introduzione al suo libro del 1950 (ma si tratta di un paragrafo aggiunto alla prima edizione inglese, del 1956):

Ma, in realtà, quando scrivevo questo libro, l’analisi psicologica era situata altrimenti: non si trattava tanto di approfondire la psicologia dei soggetti osservati, che in fondo non era poi cosi’ oscura, quanto quella dell’osservatore medesimo. Avevo spesso avuto occasione di constatare, ad esempio, la penetrazione e la giustezza con la quale alcuni vecchi coloni mi spiegavano il comportamento degli indigeni. Ma, quando mi capitava di mostrarmene sorpreso, mi rispondevano immediatamente che gli indigeni erano impenetrabili e tali sarebbero rimasti per sempre. Mi sono dunque progressivamente reso conto che i coloni non accettavano volentieri la comprensione che pure avevano dell’indigeno, e che, in realtà, la cosa più difficile non è tanto che gli uomini si comprendano tra loro, per quanto profonde siano le loro differenze, ma che vogliano comprendersi, intendendo “volere” in un certo qual senso, quasi che la difficoltà a riconoscersi in tutti gli uomini non fosse differente da quella di accettare interamente se stessi. E’ per questa ragione che l’auto-comprensione dell’osservatore finiva per preoccuparmi, quasi fosse una precondizione necessaria ad ogni ricerca possibile in questo campo”.

 

Passaggio alquanto straordinario, che sintetizza le grandi linee della concezione mannoniana della situazione coloniale:

1)       Essa non va ridotta ad una dominazione politica, militare o economica, per quanto questi aspetti siano reali e pregnanti, ma comporta un tipo di economia libidinale sui generis.

2)       In che cosa consiste questo tipo di “soddisfacimento psicologico estremamente pericoloso” (p. 69), che non si riduce al “profitto” coloniale, e che anzi a volte può avvenire anche a discapito di quest’ultimo ? La risposta di Mannoni è duplice: la un lato, l’uomo coloniale compensa il suo sentimento di inferiorità, cui è esposto in madrepatria, trasvalutandolo in saldo e duraturo sentimento di superiorità (l’operatore collettivo di un tale sentimento, indiscutibile per il Bianco che nasce e cresce nel mondo coloniale, sarà “la razza”), dall’altro egli proietta sul colonizzato tutto quello che gli appare incompatibile con un tale sentimento di superiorità. Il colonizzato deve dunque essere primitivo, selvaggio, pulsionale, sensuale, infantile, più o meno perverso, superstizioso, inaffidabile, ecc. ecc.

3)       Ma attenzione a non confondere il ragionamento mannoniano con una sorta di ripresa dell’idea junghiana dell’Io-ombra. Non di questo si tratta. Non esiste in realtà nessuna complementarità tra la psicologia del coloniale e quella del colonizzato, ma una sorta di Verleugnung, (“diniego” o “smentita”), poiché, come illustrato dalla citazione, il colono ha accesso alla conoscenza dell’indigeno, ma deve credere che quest’ultimo sia radicalmente eterogeneo, imperscrutabile, di una natura del tutto altra dalla propria e da quella della propria razza, altrimenti la situazione coloniale si troverebbe minata, insostenibile, e il superamento della castrazione attraverso il sentimento di superiorità razziale sarebbe definitivamente compromesso. Per questo Mannoni compara il rifiuto di riconoscere il colonizzato al misconoscimento di una parte di sé.

4)       Infine, la situazione coloniale appare a Mannoni come un enorme “malinteso”. Il malinteso è in qualche modo reciproco, seppure asimmetrico, in quanto il colonizzatore crede nell’inferiorità dell’indigeno, anche quando sa, o sospetta fortemente, che le cose stiano altrimenti, e questo al fine di sostenere il proprio godimento, godimento che in qualche modo è dunque esentato dalla castrazione; allorché il “primitivo” deve credere a propria volta alla superiorità, pressoché sovrumana, del colonizzatore, cui è assegnata una posizione simbolicamente trascendente (di antenato, di semi-dio, di protettore), perché solo cosi’ la sua irruzione può essere trascritta all’interno del proprio sistema  simbolico, senza che quest’ultimo venga annientato. Il che significa che, per Mannoni, la sopravalutazione del colonizzatore da parte del colonizzato conserva un carattere paradossalmente difensivo.

5)       Questa tragi-commedia degli equivoci, in cui Robinson prende Venerdi’ per primitivo, per far fronte alla propria angoscia, mentre Venerdi’ prende Robinson per padrone per meglio preservare il proprio Io profondo, è destinata a risolversi traumaticamente, quando ad esempio il padrone coloniale rivela la propria impotenza (un fattore determinante della rivolta malgascia del 1947, che Mannoni analizza verso la fine del suo libro, e sulla quale mi attardo nel mio saggio, sarà infatti il conflitto tra gaullisti e collaborazionisti a Madagascar, durante la guerra, e la breve ma decisiva occupazione inglese della grande Isola durante la guerra; e/o quando il colonizzato si rivolta inaspettatamente, ristabilendo cosi’ una relazione orizzontale con il padrone coloniale. Quando ciò accade occorre allora una dose supplementare di Verleugnung, il colonizzatore deve considerare la rivolta come irrazionale, selvaggia, folle e patologica, altrimenti si vedrebbe costretto a riconoscere nel colonizzato un avversario, e dunque un simile, foss’anche nella figura del nemico. E deve dunque reagire con un eccesso di sadismo, anche solo immaginario (quello che Mannoni chiama il “sadismo fabulatorio” di una parte del personale coloniale francese a Madagascar, che si spinse fino ad auto-imputarsi una serie di atti repressivi immaginari, ivi compreso durante i processi ufficiali avvenuti dopo la rivolta per sanzionare alcuni abusi degli apparati repressivi coloniali. Questa mitomania sadica è interpretata allora da Mannoni come sintomatica del tentativo, da parte dell’uomo coloniale, di salvaguardare il proprio sentimento di superiorità, messo in discussione della rivolta, e di respingere ogni angoscia di castrazione riattivata dalla rivolta indigena.

 

Ecco, per tutte queste ragioni, che ho riassunto qui succintamente, Mannoni è senz’altro, insieme a Fanon, il più fine analista dei risvolti inconsci della situazione coloniale. Colpisce, rispetto alle analisi fanoniane, che seguiranno quasi immediatamente (Pelle nera, maschere bianche esce nel 1952, a ridosso dunque di Psicologia della colonizzazione), l’assenza totale del corpo nelle sue analisi, e la parte estremamente ristretta che vi occupa la questione della differenza sessuale. Mannoni riconoscerà d’altronde questi e altri limiti della propria analisi nell’appendice alla seconda edizione inglese del suo libro (1964), in un testo famoso, spesso citato negli studi post-coloniali, intitolato The Decolonization of myself, in cui ammette ad esempio di aver peccato ancora, all’epoca di Psicologia della colonizzazione, di un universalismo astratto, e di aver forse avuto torto a distinguere tra razzismo coloniale e razzismo tout court. Insomma, Mannoni recepisce l’essenziale delle critiche rivoltegli da Fanon – scomparso nel 1962 – da Aimé Césaire e da altri esponenti del movimento della Negritudine. Ma, sopratutto, accetta di cedere la parola ad esponenti del mondo colonizzato. La tesi che difendo quindi nel mio libro è che occorra leggere la coppia Mannoni-Fanon, e quindi il dittico Psicologia della colonizzazione/Pelle nera, maschere bianche, come un tandem analitico, un chiasmo più che una contrapposizione. L’intervento di Mannoni contribuirà infatti alla presa di parola di Fanon, ivi compreso in senso polemico, e, contemporaneamente, libererà in qualche sorta Mannoni dal fardello di un’auto-analisi interminabile della propria esperienza del mondo coloniale. Fanon decolonizza dunque Mannoni, mentre Mannoni sostiene trasferenzialmente la presa di parola, ancora più ardua e rischiosa in quanto avviene alla prima persona, da parte di Fanon, nel suo primo libro del ’52, Pelle nera, maschere bianche.

 

L’intervento di Fanon, tuttavia, pur essendo cronologicamente a ridosso di quello di Mannoni, sposta sensibilmente le coordinate della questione del contributo possibile della psicoanalisi alla decolonizzazione come processo che eccede la sua dimensione oggettiva, politico-economica.  Non solo per l’irruzione di una quantità di temi antropologici inediti – il corpo colonizzato, il ruolo della differenza sessuale nella colonizzazione e nella decolonizzazione, la critica della psichiatria coloniale, ecc. – ma anche e sopratutto in quanto Fanon iscrive la questione coloniale in un orizzonte che potremmo dire esistenziale, o post-esistenziale.

Vero è che l’idea di una sopravvivenza del coloniale al colonialismo in quanto fatto storico  è già presente in Mannoni, per il quale la condizione coloniale è destinata a sopravvivere, dal punto di vista psicologico, alla fine del colonialismo, e ad essere in qualche modo introiettata tanto nel mondo sociale dell’ex-colonizzatore che del decolonizzato. Ma è con Fanon che il coloniale si iscrive in un Erlebnis, in una “vita vissuta”, che eccede l’imperativo della decolonizzazione politica. Per questo si assiste, in questi ultimi anni, ad un ritorno spettacolare di Fanon sulla scena del pensiero critico, non più solo o tanto come pensatore della lotta anti-coloniale, ma anche e sopratutto del post-coloniale.

Non mi attarderò pero’ su Fanon, in quanto mi pare che questo mio lavoro non apporti nulla di particolarmente inedito in merito, eccetto il fatto di mostrare, per l’appunto, il chiasmo analitico con Mannoni. Mi contenterò di una sola osservazione, per tornare alla questione iniziale della posizione soggettiva, o della posizione di enunciazione, propria a ciascuno dei tre iniziatori  della psicoanalisi post-coloniale. La posizione di Fanon è ovviamente diversa da quella di Mannoni in quanto Nero, vale a dire in quanto esponente del mondo coloniale, dell’eredità dello schiavismo e di oppositore strenuo alla logica assimilazionista messa in atto dalla Francia nelle sue colonie più antiche, quelle risalenti all’Ancien Régime, come le Antille, nel secondo dopoguerra (politica che sarà invece sostenuta da Aimé Césaire). Ma la posizione di Fanon è differente anche e sopratutto per la logica d’identificazione e di disidentificazione che la sottende. Per dire le cose in maniera un po’ schematica, se Pelle nera, maschere bianche si presenta come un’analisi presa nella dimensione, essenzialmente duale, tra il Nero e il Bianco, entrambe assegnazioni in qualche modo impossibili, in particolare per l’antillano, che ha le proprie radici nella storia dello schiavismo, ma che non si pensa come Nero, né come afrodiscendente, ma come culturalmente Bianco, o come creolo; le cose cambieranno sensibilmente quando Fanon si identificherà alla causa algerina, diventando una figura di prua della lotta di liberazione nazionale durante la guerra d’Algeria. L’identificazione alla causa algerina, e l’implicazione totale di Fanon a quest’ultima, funziona allora come un potente  operatore metonimico: la causa algerina equivale alla causa araba, berbera, africana, panafricanista e terzomondista in generale. Detto in altri termini, l’incorporazione di Fanon alla causa algerina permette al contempo una desidentificazione momentanea rispetto al suo essere Nero, costituendo una linea di fuga rispetto al gioco di specchi infinito Nero-Bianco analizzato in Pelle nera, maschere bianche.

L’introduzione di un termine terzo – l’Algeria – permette insomma di fuoriuscire dal dualismo servo-padrone, di superare il complesso d’assimilazione antillese, e di identificarsi ad una causa al tempo stesso terza e universalizzabile, quella appunto panafricana, e dei “dannati della terra” più in generale.

In questo senso penso si possa concordare con quanto scrive Albert Memmi alla fine di un bell’omaggio a Fanon del 1971, intitolato “La vie impossible de Frantz Fanon”:

 

“In ogni caso il cerchio si chiude: ecco Fanon tornato al punto di partenza: egli aveva rifiutato la propria appartenenza antillese in nome di un’umanità che aveva all’epoca il volto della Francia ; il fallimento di un tale sforzo lo induce a scegliere un’altra incarnazione, diventando allora patriota algerino; si tratta ancora di un universalismo, ma questa volta il suo volto è africano. Ma è pur sempre ancora una mediazione. Quando poi, nei Dannati della terra, se la prende con l’Europa, lo fa in nome del “sudore e (del) cadavere dei negri, degli Arabi, degli Indiani e dei Gialli”. Ma ben presto non si accontenterà più di attaccare l’Europa, ma vorrà anche salvarla: vuole salvare l’umanità intera. Non si tratta più dell’Algeria e nemmeno dell’Africa, ma dell’Uomo e del mondo intero. Per questo vorrei ricordare ancora una volta quali furono le ultime righe del suo ultimo scritto: “Pour l’Europe, pour nous-mêmes et pour l’humanité, camarades, il faut faire peau neuve, développer une pensée neuve, tenter de mettre sur pied un homme neuf

 

Comunque stiano le cose questa funzione  di un termine terzo come operatore di desidentificazione e di riconfigurazione del dualismo simbolico e immaginario ereditato dalla situazione coloniale mi pare un punto essenziale.

Non va dimenticato, in questo senso, che Gandhi stesso farà le proprie prime armi di militante non in India, e nemmeno in Gran-Bretagna, ma in Africa del Sud, dove trascorre  una ventina d’anni anni fondamentali per la sua formazione, tra il 1893 e il 1914. Se ne ricordano solitamente le lotte per i diritti civili della numerosa comunità indiana presente all’epoca in Africa del Sud, ma l’esperienza sudafricana di Gandhi va ben al di là del suo lavoro di giovane avvocato impegnato contro le discriminazioni di cui sono oggetto gli indiani in quello che all’epoca è ancora, in gran parte, uno spazio conteso tra l’Impero britannico e gli Afrikaner. Gandhi assiste infatti, nel corso del suo lungo periodo sudafricano,  a ben due guerre: la seconda guerra detta dei Boeri (1899-1900), per l’appunto tra inglesi e Afrikaner, et la guerra degli Zulù (contro gli Inglesi,1906). Entrambe saranno ricche di insegnamenti per l’invenzione progressiva di quello che diventerà più tardi il gandhismo come invenzione e pratica militante. Per esempio, l’esodo di massa dei Boeri, dopo la guerra perduta contro gli Inglesi, verso la Namibia, il Borswana e lo Zimbawe, riattiverà il mito fondatore della presenza olandese in Sudafrica, quello del Grand Trek che permise alle prime generazioni di coloni olandesi e di ugonotti cacciati dalla Francia dopo l’editto di Nantes, di penetrare dalla colonia del Capo verso l’interno, esodo che, nell’immaginario afrikaner, era paragonato all’Esodo del popolo ebraico. Gandhi si rifarà ad un tale esempio, trasponendolo liberamente, quando concepirà le grandi marce collettive di disobbedienza civile, come la celebre Marcia del sale (1930). Eppure Gandhi, all’epoca della Seconda guerra boera, aveva preso, abbastanza naturalmente, il partito degli Inglesi, adoperandosi per formare un servizio di ambulanzieri indiani, sperando cosi’ di poter meglio negoziare, alla fine della guerra, lo statuto della comunità indiana in Sudafrica.  Ma ciò non gli impedirà di rimanere profondamente colpito dall’attitudine dei civili afrikaner i quali, pur sconfitti, e rinchiusi provvisoriamente in concentration camps dai Britannici, ripresero, a gurra conclusa, l’esodo verso l’interno del continente africano con armi e bagagli . Per quanto riguarda il rapporto di Gandhi con gli Zulù, la questione è complessa e resta assai dibattuta dalla storiografia contemporanea. Da una parte, Gandhi ha influenzato alcuni leader zulù, come John L. Dube, fondatore di quello che diventerà poi l’African Nantional Congress, dall’altro i suoi contatti con i militanti africani restarono sporadici ed estremamente cauti, ed egli rifiuterà sempre l’ipotesi, sostenuta ad esempio dai comunisti sudafricani, di un fronte comune tra africani ed indiani (kafirs e coolies, nel gergo razzista dell’epoca). Se sembro perdermi un po’ in questa digressione storica sul periodo  di “incubazione” del gandhismo, attraverso nell’Africa del Sud contesa tra  Boeri, Inglesi e gli  Zulù  è più un aspetto metapolitico che non propriamente politico che vorrei mettere in rilievo. Si ha infatti la netta impressione che questo spazio terzo sudafricano, tra la Gran-Bretagna imperiale e l’India coloniale, consenta a Gandhi di elaborare una posizione propria, di produrre una serie di identificazioni parziali, talora con l’uno talora con l’altro protagonista della competizione, di modulare delle alleanze contraddittorie, scommettendo su questa terzietà propria alla presenza indiana nel dominion sudafricano.  Quasi tutte le grandi invenzioni dell’ascetismo militante saranno sperimentate prima in Africa del Sud, e solo più tardi in India (dalla fondazione del primo ashram, à Phoenix (1904), al Satyagraha (“perseveranza nella verità”, 1908), passando per il voto di castità integrale (brahmacharya) che interviene proprio durante la rivolta degli Zulù (1906), e che diversi interpreti considerano una reazione di Gandhi alla violenza di quest’ultima. Del resto la comunità indiana in Africa del Sud occupava proprio questa sorta di posizione terza, e comunque irriconducibile al dualismo Bianco/Nero, Europei/Africani, o cristiani/animisti, ecc. che strutturava lo spazio politico e simbolico sudafricano.  Formalmente composta da sudditi dell’Impero britannico, la comunità indiana locale (in senso alla quale la presenza musulmana era preponderante, al punto che il primo discorso pubblico ufficiale di Gandhi avvenne in una moschea!) era tuttavia oggetto di misure di discriminazione che la approssimavano a quella africana, alla quale tuttavia rifiutava di legarsi e di solidarizzare pienamente. Insomma – e per fare la transizione con la psicoanalisi indiana – la posizione di Gandhi e dei suoi seguaci in Sudafrica ha qualcosa di stranamente analogo a quella descritta da Girindrasekhar Bose attraverso la sua teoria dell’opposite wish e la sua tecnica del see-saw (dell’altalena).

 

Vorrei tentare di giustificare brevemente quest’affermazione un po’ azzardata. Quello che mi è apparso progressivamente interessandomi alla ricezione singolarmente inventiva del freudismo in India, e in particolare all’opera di Bose, negli ultimi decenni dell’India coloniale (anni Venti-Quaranta) è la valenza antropologico-politica della sua appropriazione della psicoanalisi.

Per Bose, la cui clientela era essenzialmente composta di membri maschili della borghesia di Calcutta, al tempo stesso fortemente integrata al mondo coloniale e radicata nella propria cultura, la mascolinità indiana soffriva di un forte complesso di castrazione, ingenerato dalla sottomissione coloniale. Dal punto di vista sintomale la maggior parte dei casi clinici illustrati da Bose riguarda infatti delle crisi dell’identificazione virile. Si tratta spesso di casi di impotenza, di omosessualità o di nevrosi ossessive associate ad una forte crisi dell’auto-identificazione maschile. Ora, in luogo di cercare di rinforzare quest’ultima, di consolidarla o di piegare la psicoanalisi ad una versione paternalista, tesa a rinforzare l’Ideale paterno – come tenterà invece di suggerire caparbiamente Owen Berkeley-Hill, l’altro protagonista della storia degli esordi della psicoanalisi In India – Bose ha un’intuizione alquanto geniale: scommettere sull’identificazione femminile della soggettività maschile umiliata. Dare libero corso a un certo fantasma di divenire-donna del maschio indù colonizzato presenta infatti diversi vantaggi: prima di tutto permette di sottrarsi al corpo a corpo con l’imago maschile del colonizzatore, disfacendo, ancora una volta, il dualismo coloniale servo-padrone; in secondo luogo scongiura l’ipotesi di una rivilirizzazione violenta, di una “protesta virile” che si tradurrebbe nel passaggio all’atto violento e terroristico contro la presenza coloniale; in terzo luogo permette, paradossalmente, di mettere a distanza il fantasma della Madre fallica, onnipotente. Nella misura in cui il soggetto indiano castrato dalla dominazione coloniale accetta una dis-identificazione parziale rispetto alla sua propria posizione fallica, e si identifica parzialmente alla posizione femminile, il fantasma stesso della madre originaria, sublimazione della madre edipica, perde della sua pregnanza inconscia (E’ questa la tesi centrale di un articolo importante di Bose, “Genesis and Resolution of the Oedipus wish”, che Bose invierà a Freud nel 1929…) Detto in altri termini il libero gioco tra disidentificazione (rispetto al maschile), identificazione parziale (al femminile) e quindi reidentificazione in una sorta di posizione maschile allargata, inclusiva e non esclusiva rispetto al Femminile, movimento espresso dalla teoria dell’opposite wish e dalla tecnica del see-saw (dell’altalena), che e incoraggia un tale movimento oscillatorio tra identificazioni opposte,  mette in scacco il dualismo immaginario instaurato dalla situazione coloniale.

In questo caso, dunque, lo spazio terzo tra il colonizzato e il colonizzatore non è altro che quello del Femminile. E non è certo un caso. La soluzione di Bose non è il puro frutto di un’idiosincrasia personale o culturale. Da una parte, infatti come è stato spesso osservato, per esempio da Partha Chatterjee, in un testo famoso, il femminile rinvia, per le prime generazioni di pensatori dell’emancipazione indiana, ad un inner world, ad una sfera intima fantasmaticamente rimasta al riparo dalla contaminazione e dall’umiliazione coloniale. Affidarsi a questa sorta di riserva simbolico-immaginaria riposta nel Femminile rappresenta dunque una strategia semicosciente di sottrazione alla morsa del colonizzatore. Un tal gesto si ritrova in diversi grandi rappresentanti della Rinascita indù tra la fine del XIX° e l’inizio del XX° secolo, tra i quali Tagore, e Gandhi stesso, il quale poteva affermare ad esempio, verso la fine della sua esistenza, d’esser “diventato psichicamente una donna”. Ovviamente una simile posizione non va confusa con una posizione femminista. Diciamo che si tratta piuttosto di una rivalutazione squisitamente maschile del Femminile, tesa ad una risoggetivazione non-virilista, non guerriera e non nazionalista, che si affida ad un sentimento, se non di superiorità psicologico-culturale dell’India rispetto all’Occidente, quanto meno alla fiducia nelle sue risorse spirituali e simboliche. Del resto esiste in India, e in particolare nell’India del Nord-Est, da cui provengono sia Bose che Tagore, una lunga tradizione della shakti, cioè del principio femminile dell’universo come principio di mobilità e di trasformazione, allorché il maschile rinvia alla conservazione e all’irrigidimento fallico-identitario. Girindrasekhar Bose è senz’altro impregnato di questa mistica del femminile particolarmente onnipervasiva nella cultura bengalese. Vi è poi l’influenza esplicita dell’advaita vedanta, un’altra corrente filosofica dalle origini estremamente antiche (Sankara, VIII° secolo) ma che si trova potentemente rinvestita in India alla fine dell’epoca coloniale, la quale sostiene l’idea di una “dualità non-dualistica” dell’Universo, e la cui influenza è esplicita in Bose. (non contraddizione, in ultima istanza, tra azione e contemplazione, tra maschile e femminile, tra Occidente e Oriente, ecc.)

Checché ne sia, tutte queste influenze appaiono solo in filigrana nell’opera psicoanalitica di Bose, che non assume mai apertamente una posizione politica. Personalmente, mi ci è voluto molto tempo per comprendere la portata della dimensione politica, e della questione della decolonizzazione di sé, nell’elaborazione della sua teoria clinica. Tanto più che non leggo il bengalese, e che un apprezzamento complessivo della sua opera richiederebbe di poter aver accesso anche alla sua produzione in questa lingua, in cui Bose, a detta degli studiosi indiani che hanno comparato i suoi scritti analitici redatti in inglese a quelli redatti in bengalese, stabilisce più apertamente certe connessioni tra concezioni filosofiche indiane e la sua appropriazione della psicoanalisi.

Questa funzione metapolitica della psicoanalisi indiana alla fine dell’epoca coloniale, assolutamente non evidente ad un lettore estraneo all’India, e che la lettura di Ashis Nandy mi ha enormemente aiutato a riconoscere, spiega d’altronde come mai la psicoanalisi indiana, dopo inizi tanto promettenti, si sia poi quasi del tutto eclissata dopo l’Indipendenza (1947), per non riemergere se non alla fine degli anni Settanta, attraverso l’opera di Sudhir Kakar e, per l’appunto, di Ashis Nandy. Due figure eccentriche, visto che Kakar si è formato alla psicoanalisi in Germania, negli anni Settanta-Ottanta, prima di tornare in India negli anni Novanta; e che Nandy, pur essendo psicologo clinico e di formazione analitica, si riferisce più alla Scuola di Francoforte prima maniera (Adorno, Horkheimer, Fromm) che non alla metapsicologia o alla teoria psicoanalitica propriamente detta. Per entrambi, decisivo fu l’incontro con Erik Erikson, durante il suo soggiorno in India negli anni Sessanta per concepire il suo libro Gandhi’s Truth: On the Origins of the Militant Non-Violence, un capolavoro nel genere della biografia psicoanalitica che avrà l’effetto di una vera e propria  rivelazione per Kakar e per Nandy. Chi volesse scrivere un giorno la storia della psicoanalisi indiana avrà certo da interrogarsi su questo effetto disinibitorio che ebbe il seminario di Erikson ad Ahmedabad, verso la metà degli anni Sessanta, per la vocazione di una nuova generazione di analisti indiani. Come se fosse stato necessario uno sguardo esterno per poter ripartire dall’analisi del gandhismo, quale sintesi ultima del tentativo di emancipazione politica e spirituale dell’India coloniale, per poter abbordare poi l’India post-coloniale e le nuove forme acquisite dal disagio della cultura dopo l’Indipendenza

 

E vorrei concludere questa mia ricapitolazione di alcune linee fondamentali della mia ricerca, azzardando la previsione che la psicoanalisi post-coloniale, a quasi un secolo esatto dai suoi esordi in India (1921), abbia forse proprio in quel contesto un avvenire assicurato. Per diverse ragioni: l’esistenza di una tradizione psicoanalitica, di cui ho ricordato qualche momento saliente; la sua vitalità attuale nel mondo universitario, in cui ha travalicato da tempo i confini disciplinari della psicologia per estendersi alla letteratura, all’antropologia culturale, ai post-colonial studies; per l’esistenza di una intellighenzia indiana cosmopolita, abituata a circolare tra le lingue vernacolari e l’inglese, in parte legata alla nutrita diaspora indiana in Occidente e in parte più interna al Subcontinente stesso; per il diffondersi in India di un mercato interno dell’igiene mentale e delle psicoterapie, legato al diffondersi di forme di disagio proprie al capitalismo avanzato, e rispetto alle quali la psicoanalisi ha senza dubbio un ruolo da giocare e un posto da occupare; per il riemergere, infine, di un progetto politico nazionalista e religioso, che tenta di imporre un modello dello Stato-Nazione omogeneizzante e calcato, in realtà, sull’imitazione del modello coloniale, e che intende liquidare una gran parte della ricerca, che ha caratterizzato la decolonizzazione indiana, di un modello alternativo di convivenza post-coloniale, per l’emergenza di una nuova generazione di analiste donne. Per tutte queste ragioni, mi sentirei di arrischiarmi a  profetizzare che l’India sarà ancora un campo importante per la psicoanalisi post-coloniale nel corso del XXI° secolo.

Detto questo, è evidente che la condizione post-coloniale non è più ascrivibile, al giorno d’oggi, ad aree geografiche e culturali precise, e si trova in qualche modo generalizzata, investendo tanto l’Europa che l’ex mondo colonizzato, e che una tappa ulteriore, dopo questo mio tentativo di tracciarne un’archeologia storica, o una cartografia critica, consisterebbe nel tentare di stabilire quali forme prenda oggi, nel mondo globalizzato, l’inconscio post-coloniale, attraverso sintomi individuali e trans-individuali come le nuove forme di razzismo, l’identitarismo, il nazionalismo “vittimistico” in Occidente, le forme di populismo post-coloniale in grandi paesi emergenti come il Brasile e l’India, la tentazione dell’integralismo islamico per una parte dei “dannati della terra”.

Locandina

CdPR – L’inconscio post-coloniale. Roma, 8/2/20

 

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