
PAOLO BERNASCONI – Camminando
Parole chiave: Gruppo PER, migranti, rifugiati, rete, integrazione, Servizi Salute Mentale
Il lavoro prende in esame l’uso del concetto di rete nel contesto dei servizi di salute mentale mettendone in luce tanto gli aspetti protettivi quanto quelli costrittivi;il contributo evidenzia come la rete sia spesso del tutto assente per migranti e rifugiati e come nel contatto clinico si possono riscontrare veri e propri momenti di ‘inesistenza’ psichica in cui emerge che migranti e rifugiati hanno sperimentato cosa significa diventare una mente sopravvivente.
L’Autrice sottolinea come il migrante psichiatrico sia spesso un soggetto doppiamente ‘espulso’ con il rischio che si crei una sorta di luogo di confinamento permanente per i ‘vulnerabili psichici’
Con una pennellata clinica, dalle caratteristiche impressionistiche, conduce il lettore a vivere il dramma di un padre che si confronta con il dramma di non avere punti di riferimento a cui chiedere aiuto quando la figlioletta ha la febbre ed è necessario fare qualcosa.
SENZA RETE…migranti e rifugiati di fronte alla sofferenza psichica
Virginia De Micco
La ‘rete’ è diventata forse la metafora più abusata della nostra contemporaneità, rete digitale, tanto immateriale quanto onnipresente, tanto evanescente quanto costrittiva, al punto tale che tutto ciò che non è presente in ‘rete’ sembra quasi scomparire dalla nostra percezione, così come avere accesso alla ‘rete’, vera e propria parola magica, parola passe-partout, sembra consentire di avere accesso ad ogni informazione e ad ogni risposta.
‘Rete’ è parola carica di ambivalenze, del resto, dal momento che tanto sostiene quanto ‘irretisce’, per molti decenni inoltre è stata un’immagine chiave anche nel lavoro psicosociale e specificamente nell’assistenza psichiatrica territoriale. Fare rete, avere una rete, è stato a lungo sinonimo di un tessuto di relazioni, personali, professionali ma anche economiche, amministrative etc., di una dimensione di familiarità tale da potersi in qualche modo orientare in un territorio anche per chi aveva smarrito le coordinate psichiche della propria esistenza. Del resto l’intero impianto della filiera istituzionale volto alla tutela della salute mentale dopo la rivoluzione basagliana si è basato implicitamente sulla possibilità di poter contare sulla risorsa ‘territoriale’. Territorio inteso come realtà antropologica, piuttosto che ‘geografica’ naturalmente, in cui dinamiche sociali e attitudini culturali si fondono in maniera inestricabile, e in cui anche i soggetti più esclusi come i pazienti psichiatrici possono ritrovare indizi di appartenenza comunitaria, tracce di legami e di relazioni, appigli per un lavoro di ricostruzione psichica: la rete territoriale dunque diventa una variabile strategica per il funzionamento stesso di un’idea di salute mentale comunitaria, il cui valore, anche quando sembra deficitaria e insufficiente, risalta con particolare evidenza quando invece si tratta di rispondere ai bisogni di salute mentale o semplicemente al disagio psichico di migranti e rifugiati, i quali in queste circostanze si rivelano autenticamente e profondamente come soggetti ‘senza rete’.
E questo in molteplici sensi: sia nel senso che nel momento della frattura psichica si ha la percezione della lacerazione della propria ‘rete’ di affetti e di relazioni, sia nel senso che in situazioni di scompenso psichico o di manifestazioni psicopatologiche quella rete già esile viene attivamente attaccata, sia quella presente nel territorio di accoglienza sia quella eventualmente mantenuta col territorio d’origine tramite una variegata congerie di contatti a distanza e di canali comunicativi informali.
Va da sé che i servizi di salute mentale si trovano particolarmente sguarniti di strumenti operativi ed interpretativi quando si tratta di affrontare il disagio di questi ‘soggetti senza rete’ come vorrei indicarli appunto, dal momento che quell’implicito riferimento ad un tessuto che seppur a maglie larghe o larghissime in qualche modo circonda il paziente nativo è invece spesso del tutto assente per migranti e rifugiati, i quali quando arrivano all’osservazione sembrano ‘emergere’ letteralmente da un indistinto che si fatica, o ci si rifiuta, di ripercorrere e ricostruire.
Le storie di migrazione del resto, come ben sappiamo, nonostante tutti gli sforzi di attento ascolto da parte dei diversi interlocutori istituzionali coinvolti, spesso mantengono una sorta di aleatorietà e danno la sensazione di una frammentarietà talvolta ‘disturbante’ per chi ascolta ma necessaria per chi, al contrario, ha spesso bisogno di ‘opacizzare’ una parte della sua stessa storia per mantenere una sostenibile percezione di sé.
Dimenticare infatti può essere altrettanto necessario che ricordare, tenere insieme passato e presente può essere troppo per chi ha bisogno di ‘ignorare’, o passare sotto silenzio, veri e propri momenti di ‘inesistenza’ psichica in cui ha sperimentato cosa significa diventare una mente sopravvivente, come spesso l’ho indicata, in cui nuclei psichici indifferenziati, assimilabili ai nuclei ambigui di cui parla Bleger (1967) assieme alla posizione contiguo-autistica, vengono intensamente sollecitati , fino a vicariare completamente funzioni psichiche più differenziate e stratificazioni identificative dell’Io più definite.
Abdelmalek Sayad (2002)e Edouard Glissant (1998) insistono infatti sulla ‘opacità’ delle storie di migrazione come una ricchezza da custodire piuttosto che da svelare o da cercare di rendere ‘trasparente’.
Si tratta allora per il clinico occidentale di tollerare e familiarizzarsi innanzi tutto con questo senso di incertezza e di precarietà che però è lo stesso “terreno vacillante della storia”, evocato da Ernesto De Martino (1977), su cui incontrare i migranti. Piuttosto che cercare di ricostruire terreni solidi spesso fittizi, in cui si corre il rischio di alimentare un’aspettativa eccessiva nei confronti della mediazione culturale ad esempio, quasi come se si trattasse unicamente di risolvere ‘enigmi’ culturali di stampo magico-religioso e non soprattutto di intendere le ‘forme’ di una frattura psichica radicale e dei tentativi di ricomposizione soggettiva che ne possono seguire, si tratterà invece di dare spazio a un lavoro terapeutico transculturale, che intenda appunto lavorare attraverso le differenze culturali, dal momento che ogni crollo psichico e sempre anche un crollo del proprio universo culturale, come ci ricorda sempre De Martino (1977).
E’ stato spesso evidenziato in letteratura come nei confronti di una popolazione culturalmente ‘eterogenea’, infatti, si corra il duplice rischio, opposto ma compresente, o di sotto-diagnosticare o di sovra-diagnosticare il disturbo psichico: etichettando immediatamente come ‘patologico’ ogni comportamento o vissuto o modo di intendere le relazioni e le emozioni non culturalmente conforme ai pattern dei nativi, oppure, al contrario, minimizzando le manifestazioni di disagio o proprio disadattive attribuendole immancabilmente a specificità culturali non riconosciute.
Si capisce come ci si muova tra Scilla e Cariddi, soprattutto nel momento in cui a questa difficoltà si sovrappone la tendenza delle istituzioni cliniche del territorio di accoglienza a ‘piegare’ tali manifestazioni a scopi spesso divergenti: minimizzare se non si intende farsi carico di soggetti sempre difficili e ‘rifiutati’, di cui cioè si fatica molto a sentire che la tutela della loro salute mentale riguarda comunque, volente o nolente, le nostre comunità, oppure al contrario leggere sempre come patologia o quantomeno ‘vulnerabilità’ psichica ogni manifestazione della soggettività dell’altro, spesso schiacciato su una dimensione di traumaticità bisognosa e relegato nel ruolo della vittima da tutelare o emancipare.
Sarà risultato evidente quanto in atteggiamenti apparentemente opposti possano celarsi i rischi di una sorta di ‘violenza identificativa’ paralleli.
Ulteriore versione di quella violenza simbolica di cui parla Pierre Bordieu (2003), il quale sottolinea anche la partecipazione del dominato alle strutture simboliche che lo dominano: non ci sarà da meravigliarsi allora se il migrante cercherà di uniformarsi pienamente all’aspettativa e al ‘posto’ antropologico del traumatizzato o del vulnerabile che gli è stato preventivamente assegnato, salvo poi scoprirne la ‘scomodità’ e la precarietà non appena le ‘narrazioni’ politico-antropologiche del territorio di accoglienza cambiassero.
Quali ‘reti’ per quali disagi?
Si tratterà allora di ripensare anche la dimensione della ‘rete’, come una dimensione compiutamente ‘antropologica’, piuttosto che univocamente istituzionale. Anche nelle migliori condizioni possibili di funzionamento e collaborazione tra istituzioni, anche tra istituzioni pubbliche e private, persiste infatti quel senso pervasivo di dipendenza e di abbandono contemporaneamente che spesso i migranti avvertono, che potrà tradursi in modalità di reazione opposte, andando da una sempre maggiore marginalizzazione e rifiuto degli spazi istituzionali, sofferti nel loro aspetto di ‘controllo’ e tutela, oppure, al contrario, in una rivendicazione infinita di cure e diritti che logora il rapporto con gli interlocutori istituzionali.
Da un lato vorrei sottolineare come, contrariamente a quanto un “irenismo sottilmente etnocentrico” con le parole di Marc Augé (1995) spingerebbe a credere, spesso i migranti che cadono preda di una chiara patologia psichiatrica vengono in un modo o nell’altro ‘espulsi’ dalle loro stesse comunità di riferimento, così quando arrivano all’osservazione dei servizi di salute mentale di fatto hanno spesso già ‘esaurito’ le risorse terapeutiche interne alle comunità presenti sul territorio di arrivo; oppure tali manifestazioni possono indurre violenti vissuti di vergogna nei parenti e familiari, con le conseguenti forme di occultamento e negazione.
Il migrante psichiatrico è spesso un soggetto doppiamente ‘espulso’ ed il rischio che si crei una sorta di luogo di confinamento permanente per i ‘vulnerabili psichici’, magari con una sigla istituzionale ad hoc, è davvero molto alto. Del resto come non ricordare i lavori di Sergio Mellina (1987), decano degli psichiatri italiani che si sono occupati della nostra migrazione interna, che giunse a definire i manicomi della Sardegna, come “i terminal della migrazione fallita” italiana?
Dall’altro, ed è questo il focus del mio intervento, questa sensazione di essere ‘senza rete’ è pervasiva per il migrante, molto più profonda emotivamente ed ‘esistenzialmente’ oserei dire di quanto i nativi possano immaginare. Pervade la quotidianità, ed è la base stessa di quel “microtraumatismo quotidiano” così acutamente evidenziato da Michele Risso (Frigessi e Risso, 1982), il quale descriveva così la caratteristica distintiva del trauma migratorio, fino a vedervi la base stessa del processo di integrazione, o di assimilazione come si preferiva indicarlo negli anni ‘70. Un processo di cui non sfuggiva allo studioso italiano -pioniere e antesignano di tutti gli studi nel campo della psicopatologia della migrazione- l’incessante lavoro di lutto che richiedeva e il continuo confronto con la perdita del “doppio culturale”, come lo indicherà Tobie Nathan (1993) in seguito. Questo vero e proprio lavoro dell’integrazione, come l’ho definito altrove, infatti, lungi dall’essere una specie di giubilante progressione richiede invece da entrambe le parti, sia per chi arriva che per chi accoglie, una disponibilità a mettere in discussione i propri perimetri di sicurezza oltre che le proiezioni reciproche e le aspettative più o meno implicite non solo sull’altro culturale ma anche su di sé e sul proprio stesso mondo culturale: si tratterà allora di lavorare sull’area della dis-illusione, affinché non prevalgono moti distruttivi ed espulsivi rispetto al doloroso lutto delle illusioni e delle idealizzazioni che da entrambe le parti sarà necessario (De Micco 2024).
Una piccola tranche ‘quotidiana’ appunto per descriverla. Omar, da qualche mese uscito da un progetto di accoglienza per famiglie, ha trovato un lavoro come manovale e anche una casa in un paesino dell’avellinese, una sera la figlia ha la febbre alta e lui è molto spaventato, non sapendo come fare si risolve a chiamare il responsabile del progetto di accoglienza con cui comunque manteneva un contatto, come spesso accade in queste circostanze. Racconta: “mi sono sentito perduto, non sapevo proprio come fare, non ho la macchina ma non me ne preoccupavo, al mio paese avrei saputo come fare, avrei chiesto aiuto a un vicino e avrei risolto subito”. Ecco questa è la base più autentica del vissuto migratorio, in cui un incidente relativamente banale, quotidiano appunto, nella sua ordinaria ‘drammaticità’ può invece svelare d’un colpo la strutturale precarietà di ogni riuscita ‘integrazione’, anche i migliori progetti di accoglienza, portati avanti con generosità e competenza, si scontrano poi con una dolorosa realtà di cui occorre prendere dolorosamente atto. Costruire quel tessuto antropologico informale fatto di relazioni di vicinato, di riferimenti di prossimità, di paziente e tenace lavoro di convivenza, è la sfida sotterranea ma incessante connessa all’esperienza migratoria che, come si intuisce, coinvolge qualcosa di ben più potente e capillare della sola capacità organizzativa istituzionale, riguarda cioè una capacità di accettazione e di metabolizzazione del ‘diverso’, di ciò che ci è straniero seppur simile a cui occorre ‘fare posto’, non solo nelle politiche e nelle burocrazie, condizione certo necessaria ma non sufficiente, ma soprattutto nelle proprie (auto)rappresentazioni e nella propria mente.
E’ la mente, la mente dell’altro, la certezza di avere un posto nella mente dell’altro allora, e di avere diritto a quel posto, la prima e fondamentale ‘rete’ cui fare riferimento: nelle parole di Omar risulta molto evidente il vero e proprio ‘rischio del crollo’ (ri)vissuto nel momento in cui si è sentito cadere fuori dalla immediatezza dell’appello al Nebenmensh, al vicino. Si tratta di un’intera dimensione psichico-antropologica che viene ‘convocata’ in un gesto così immediato nella quotidianità, immediato perché può essere vissuto senza mediazione appunto, come portato di quella ‘ovvietà’ del quotidiano che invece viene messa radicalmente in tensione nell’esperienza migratoria. Secondo Nathan è questo uno degli effetti specifici della perdita del “doppio culturale”, ovverosia di quel rispecchiamento ’immediato’ tra strutturazione interna e strutturazione esterna che stabilizza il senso di sé e del proprio mondo, si intuisce come siano le basi stesse della costituzione psichica individuale che vengono rimesse in gioco, e spesso in maniera sorprendente per coloro stessi che la provano come abbiamo visto nelle parole di Omar: l’Io si sente letteralmente ‘preso alle spalle’ dalla percezione della sua stessa precarietà, sperimenta nella realtà storica quell’amara verità psichica per cui “l’Io non è padrone in casa propria”. Sperimentare la fragilità dell’Io, la precarietà della stessa funzione-ambiente del proprio involucro psichico, l’inquietudine rispetto alla risposta originaria dell’altro soccorritore, come si intuisce, può riaprire ferite antichissime o voragini mai sanate, quei ‘buchi’ che tutti quanti ci portiamo dietro e che potrebbero essere ignorati per sempre se il ‘salto’ migratorio non costringesse a rimettere in discussione tutti gli adattamenti riusciti, le autopercezioni e autorappresentazioni, in una parola le identificazioni sedimentate, ripresentandole invece come ‘enigmi’ da risolvere nuovamente. Inoltre vorrei sottolineare come tale percezione si rinnoverà, e dovrà essere intensamente ri-elaborata, paradossalmente proprio ad ogni passaggio riuscito ed evolutivo del processo di integrazione: ciò sia perché richiederà di nuovo un intenso lavoro di lutto delle appartenenze originarie, rispetto alle quali il senso di tradimento potrà diventare sempre più lacerante e potenzialmente persecutorio, sia perché ad ogni cambiamento significativo corrisponde la necessità di sentire particolarmente la solidità del terreno su cui si è radicati. Quando il migrante cercherà migliori condizioni abitative o una compiuta realizzazione sul piano erotico-affettivo, ad esempio, o una piena accettazione per i suoi discendenti, proprio in quelle circostanze potrà sperimentare al contrario quanto è sottile e incerto il suo ‘posto’ nel nuovo paese, quanto resta sempre ‘sul margine’ di una piena appartenenza che gli sfugge.
Del resto si tratta di una dimensione psichica profonda e perturbante che persiste anche nelle migrazioni più riuscite, con le parole di una giovane migrante “ lo sai che sei sulla terra di altri e devi sempre giustificare cosa ci sei venuta a fare”, e questo su due fronti: sia con chi è rimasto a casa sia con chi incontrerai nel nuovo paese. Giustificare costantemente il proprio ‘esserci’, è questo il logorio psichico costante che ‘disfa’ la rete antropologica che regge l’esistenza individuale, come una sorta di tela di Penelope, incessantemente disfatta nel punto stesso in cui viene costantemente intessuta.
Si tratterà allora di immaginare una sottile trama di ricucitura di questa rete, molto più capillare e costante della sola rete ‘istituzionale’ da attivare nelle circostanze di una conclamata crisi psichica, del resto sempre Michele Risso sottolineava come un rigoroso discorso di psicopatologia, e di psicoanalisi aggiungerei, delle migrazioni, dovrebbe piuttosto chiedersi cosa accade nella mente di chi emigra e non si ammala, poiché avrà attraversato e superato fratture psichiche e faglie culturali che avranno bisogno prima o poi di trovare spazi di autentico riconoscimento.
E’ in quest’ottica che ad esempio il gruppo PER (Psicoanalisti Europei per i Rifugiati) della SPI (Società Psicoanalitica Italiana) ha attivato collaborazioni con diverse Associazioni presenti sul territorio nazionale che, facendo leva su dinamiche partecipative di cittadinanza attiva, intendono proprio costruire reti informali, extraistituzionali, di informazione e servizi tra popolazione migrante, rifugiati e autoctoni.
Le primissime esperienze di queste forme di collaborazione sembrano decisamente incoraggianti, l’aspetto informale e poco codificato sollecita intensamente l’investimento reciproco nonché la motivazione personale di migranti e rifugiati, da un lato, nel cercare una forma di supporto psicologico e degli psicoanalisti coinvolti, dall’altro, nel trovare adattamenti di setting idonei per rispondere alle richieste. Una costante attività di confronto e di intervisione è volta poi all’elaborazione delle condizioni tecniche ed emotive di tali attività terapeutiche in cui il lavoro contro-transferale appare cruciale. In queste situazioni si sperimenta una dimensione pressoché inevitabile di ‘fugacità’ , dal momento che spesso è complicato mantenere l’abituale continuità richiesta dai trattamenti di stampo analitico, il che però non ne esclude affatto la profondità e, soprattutto, la capacità di costituire proprio un nodo tenace, a cui sentire di poter sempre ritornare, di quella rete che è tanto più necessario cercare di rintracciare attorno quanto più è stata smarrita dentro.
Bibliografia
Augé M., Il senso degli altri, Bollati Boringhieri, Torino, 1995
Bleger J., Simbiosi e ambiguità, Armando, Roma, 1967
Bourdieu P., Per una teoria della pratica, Cortina, Milano, 2003
De Martino E., La fine del mondo, Einaudi, Torino, 1977
De Micco V., Illusioni, e disillusioni, nel lavoro psicoanalitico con migranti e rifugiati, in L’inquietante intimità. Legami e fratture nei transiti migratori, Alpes, Roma, 2024
Frigessi Castelnuovo D. e Risso M., A mezza parete. Emigrazione, nostalgia, malattia mentale, Einaudi, Torino, 1982
Glissant E., Poetica del diverso, Meltemi, Roma, 1998
Nathan N., La follia degli altri, Ponte alle grazie, Firenze, 1993
Mellina S., La nostalgia nella valigia, Marsilio, Venezia, 1987
Sayad A., La doppia assenza, Cortina, Milano, 2002
Testi da leggere per approfondimento
Freud S.,(1921), Psicologia delle masse e analisi dell’Io, OSF, IX
Freud S., (1922), L’Io e l’Es, OSF, IX