La Cura

Identificazioni-Trasformazioni. Costruzione e riparazione del Sé in analisi. Cinzia Carnevali

9/12/25
Identificazioni-Trasformazioni. Costruzione e riparazione del Sé in analisi. Cinzia Carnevali

Mary Cassat (1899)

Parole chiave: identificazioni, intropressione, trasformazioni, costruzioni, riparazioni, sè

Identificazioni-Trasformazioni. Costruzione e riparazione del Sé in analisi
di Cinzia Carnevali

Abstract

L’articolo affronta il tema dell’identificazione come processo articolato e in continua evoluzione nella costruzione e nel recupero del Sé. L’autrice esamina l’influenza delle relazioni oggettuali e delle dinamiche identificatorie nella formazione dell’identità. Viene approfondito il concetto di “intropressione” e “identificazione con l’aggressore” di Ferenczi, che evidenzia il legame tra trauma e dinamiche psichiche. ​ Un caso clinico illustra il percorso di una paziente traumatizzata verso la ricostruzione del Sé, attraverso il lavoro analitico che include rêverie, contenimento e trasformazione delle angosce. ​ Conclude che il lavoro analitico può aiutare i pazienti a riconoscere e trasformare la sofferenza, favorendo la costruzione di un Sé più autentico e vitale. ​
Fausta Cuneo

Il presente lavoro prende in considerazione il tema dell’identificazione intesa come un processo, un percorso complesso e continuo della propria identità e capacità di sentire di esistere, di pensare al proprio Io, al proprio divenire. La costituzione del soggetto dalla costruzione del proprio senso di Sé, si configura come storia delle sue relazioni oggettuali e delle identificazioni. Il processo identificatorio primario «è la più primitiva e originaria forma di “legame emotivo” prima espressione di un legame con un’altra persona» (Freud, 1921, p. 293).

È dall’incontro con l’altro sin dalla vita intrauterina che inizia la percezione di sé con tutte le ansie e turbolenze emotive e i traumi che lo possono bloccare. L’esperienza analitica può riattivare il processo e consentire le trasformazioni possibili da inconscio a conscio, dai livelli immaginari a quelli simbolici della psiche. Per generare trasformazioni occorre accogliere e conoscere le identificazioni più arcaiche, interiorizzarle e svilupparne di nuove più evolute. Il nuovo materiale identificatorio interiorizzato rivitalizza il Sé e ripristina i movimenti evolutivi.

Grazie alla disponibilità di un adulto capace di rêverie si acquisisce la capacità di assimilare modelli identificatori adeguati, di passare dall’angoscia di separazione e perdita del Sé a una capacità di tollerare la separazione e di pensare.

Il lavoro psichico, talvolta molto difficile, si gioca su registri simbiotici. Ad esempio, nel caso della paziente che presenterò nella parte clinica, si presenta una dinamica fusionale continua dalla quale è difficile emergere, proprio per rispettare la sua esperienza e il significato vitale che essa rappresenta. Ritengo che possano avvenire trasformazioni identitarie trovando un punto di accesso alle memorie somatiche depositate nella psiche in modo che ritrovino la via dell’imitazione-identificazione, forma e significato diventando in questo modo mentalizzabili. La rêverie materna favorisce il funzionamento psichico e rispetta l’ineffabilità dell’inconscio originario,promuovendone la potenziale creatività, favorendo la formazione del già menzionato «impensabile che fa il pensato» (Pontalis, 1977/1988). Quello che ognuno nel suo intimo tiene maggiormente di profondo e duraturo, nonostante la perdita, è il proprio Sé, la figura identitaria più autentica.

La mia tesi esplorativa si affida al pensiero che, nei pazienti fortemente traumatizzati, l’angoscia traumatica di separazione, in seguito alla perdita della fusione-idealizzazione, con conseguente perdita del proprio senso di esistere (senso di Sé) possa evolvere in una capacità di superare la confusione e ricostruire un’unità del Sé dopo la frammentazione.

Per questo occorre un contenitore, un “apparato”, che permetta loro di assumere una forma e un significato, come scrive la Heimann (1958): «… un’analogia: talvolta compriamo minuscoli pezzetti di carta apparentemente privi di colore e di forma. Messi in acqua, essi si aprono assumendo forme definite, affascinanti e vivacemente colorate: si chiamano Fiori Cinesi» (p. 183).

In analisi è fondamentale rendere possibile l’esperienza di affetti. Questi non devono solo rintracciare parole per illustrare un processo primario — magari descrivendolo secondo i tipi del processo secondario — ma soprattutto devono essere in grado di riprenderlo nel suo “respiro” preconscio.

Il senso originario dell’esperienza è prioritario alle connessioni di pensiero e non è necessariamente associato alla parola, ma ad altre categorie di vissuti, come quelle legate ai toni, ai ritmi, alle cadenze sensoriali, alle caratteristiche emotive.

La comunicazione inconscia rappresenta un’importante via di comprensione agli affetti dei pazienti con patologia narcisistica e psicosomatica, i quali si difendono in particolar modo con l’inibizione, difese rigide o mostrando resistenze alle libere associazioni. Le loro capacità rappresentazionali ancora immature fanno sì che essi comunichino maggiormente attraverso quello che “fanno” e “fanno sentire” piuttosto che attraverso le parole.

Questo rende di importanza cruciale la capacità e la disponibilità dell’analista a utilizzare il proprio inconscio per risuonare con quello del paziente, un ruolo essenziale svolto nel processo analitico dalla personalità dell’analista con le sue specifiche caratteristiche.

Si apre in questo modo, attraversando il vuoto all’interno di un autentico cantiere del sentire e del pensare insieme, il passaggio da un mondo fatto di rumori, di colori, di stimolazioni e sensazioni “corporee”, prive di senso immediato, a un mondo dove il senso delle “cose” viene reperito e rappresentato.

Mi piace pensare che noi analisti possiamo curare la nostra capacità di insight, sviluppando nuove prospettive sul fatto che tali pazienti presentino gravi disturbi sia nella capacità sia nel diritto a esistere, minacciati da contrapposte ansie fusionali e di dipendenza, nonché da ansie di separazione-persecuzione e che possa essere possibile per loro raggiungere tale diritto. Occorre creare le condizioni che permettano al paziente di passare da una fase iniziale, nella quale possa compiere i primi passi “in un ambiente caratterizzato da oggetti con qualità preumane”, al fine di soddisfare la “primaria necessità di recuperare un minimo di sovranità narcisistica” (ibid.). Sempre più spesso ci si trova ad avere a che fare con “pazienti eterogenei” (Quinodoz, 2004), che presentano disturbi gravi come quelli narcisistici, borderline o psicotici. I pazienti con disturbi narcisistici-identitari gravi, che presentano contrapposte ansie fusionali, di dipendenza e angosce di separazione, necessitano di ristabilire livelli adeguati di autostima e richiedono che l’analista funzioni come sostituto “di una funzione che la struttura psichica è incapace de svolgere” (Kohut, 1976). Per questo considero utile riflettere su «il corpo e l’oggetto del bisogno e il fantasma sessuale» (Carnevali, 2020) e sui principali aspetti che si presentano nella relazione analitica con questi pazienti: la relazione corpo-mente, la relazione oggetto del bisogno/sessualità, la persona dell’analista e il controtransfert corporeo nello scambio soggetto-Altro. Nei casi clinicamente complessi, penso sia indicato adottare una precisa scelta tecnica fondata sulla convinzione che, in determinate circostanze, sia più opportuno mantenere un assetto di accoglimento, contenimento, condivisione anche corporea e rêverie.

L’originario

Visitare l’«originario» (Racalbuto, 1994) di un apparato psichico, significa esplorare aree differenziate dove gli affetti sono latitanti. Questi affetti sono intesi come stati d’animo che permettono una consapevole attribuzione di senso agli oggetti e alle esperienze della relazione. In queste aree permangono tuttavia “stati affettivi” arcaici (ibid.), impregnati di connotazioni percettivo-sensoriali (affetti-sensazioni) che rimandano a quelle condizioni in cui l’oggetto, prima di essere riconosciuto come altro-da-Sé, costituisce essenzialmente un punto del corpo, un vissuto emozionale viscerale, un’esperienza senso-motoria, oggetto la cui assenza o distanza rende impossibile sentire di esistere. Con la paziente che mi ha spinto a queste riflessioni è stato indispensabile immergersi nel suo mondo di identificazioni con oggetti arcaici introiettati a livello corporeo. È stato necessario recuperare tali oggetti interni, caratterizzati da una particolare rigidità, al fine di favorire un processo di distanziamento, osservarli come elementi separati dal Sé e rivivificarli trasformativamente nel transfert con me. Visitare queste zone comporta un profondo lavoro controtransferale. La disponibilità dell’analista consente di creare temporaneamente il vuoto di pensiero dentro di sé, sospendendo e accettando l’assenza di significato. Questo permette l’attivazione del controtransfert sensoriale corporeo, ovvero dei sensi e degli affetti-sensazioni e permette di attivare «rêverie sensoriali e sonore» (Carnevali, 2015, 2019) che rielaborano e riattivano l’aspetto libidico emotivo e affettivo come autentico processo generativo.

Una memoria affettivizzata si amalgama con le pulsioni sessuali e i fantasmi, avvicinando il processo di proiezione a quello del transfert.

La speranza di mantenere la capacità di pensare analiticamente nei casi di grande sofferenza e in presenza di aree psichiche narcisistiche compromesse caratterizzate da reazioni di rifiuto, rigetto e

chiusura, è sostenuta dall’ascolto controtransferale e dai contributi teorici di diversi colleghi e autori che hanno precedentemente esaminato fenomen identificatori dell’area percettiva-imitativa sensoriale, così come le forme più primitive di incorporazione.

Già nel 1909 Ferenczi discute il rapporto tra introiezione e transfert, collocandolo al di là del linguaggio. Introduce per la prima volta il termine “introiezione” per sottolineare la natura duale delle dinamiche introiettive e proiettive.

Secondo Ferenczi, le attività introiettive favoriscono le espansioni evolutive dell’Io verso l’investimento oggettuale e il transfert, tipici della nevrosi, al contrario, quelle proiettive comportano una regressione egoica e un ritiro libidico, caratteristici della psicosi.

Freud nel 1921, in Psicologia delle masse e analisi dell’Io, descrive le forme dell’identificazione primaria, basata sull’acquisizione delle caratteristiche dell’oggetto amato, attraverso un processo di introiezione, sul modello degli istinti cannibalici originari del neonato. Freud sottolinea l’importanza del legame emotivo precoce che assicura la vita psichica e precede l’insorgenza della relazione anaclitica.

M. Klein (1946) svilupperà il concetto di “identificazione proiettiva” che descrive come una particolare fantasia attraverso la quale il neonato, per difendersi dall’angoscia, scinde e proietta parti di sé intollerabili all’interno della madre, con il fine di prenderne possesso e controllarle/la.

Bion (1962) fu il primo a distinguere tra una modalità di identificazione proiettiva una quota normale e una quota patologica evidenziando, oltre alla funzione evacuativa primitiva delineata da M. Klein, anche l’aspetto interpersonale e comunicativo che l’identificazione proiettiva contiene. Bion tratta di pazienti che usano troppo l’identificazione proiettiva e che non possono fare altrimenti. Questo meccanismo diventa per loro una modalità di comunicazione, di difesa o di relazione oggettuale. Spesso segnalano la loro inabilità a usare un linguaggio simbolico sia nel rapporto con altre persone che intrapsichicamente come parte di un loro dialogo interno e come segnale del loro rapporto con i propri oggetti interni. Tale meccanismo può essere pensato come un mettere dentro aspetti di sé nell’altro ma anche un evocare, promuovere, suscitare per risonanza nell’analista aree o nuclei propri di quest’ultimo, presenti allo stesso tempo in forma analoga nel paziente. In questi casi non basta restituire al paziente ciò che si rifletterebbe alla lettera sull’analista. Occorre piuttosto elaborare, trasformare beta in alfa, direbbe Bion. Si tratta di far vivere l’esperienza di contenimento come un’autentica testimonianza di segnale d’identità e di funzionamento relazionale che attivi il passaggio dai pensieri al pensare.

Siamo d’accordo con McDougall (1976) allorché sostiene che Narciso rispecchiandosi in una fonte non ricerca sé stesso, ma sé stesso arricchito dallo sguardo della madre.

Lacan (1949) ha descritto il ruolo dello specchio nella costituzione dell’Io. Secondo la sua teoria, l’identificazione primaria caratterizza il bambino di fronte alla propria immagine riflessa in una fase significativa dello sviluppo costituisce la base per le successive identificazioni che l’individuo può sperimentare nel corso della vita.  Ciò che si verifica davanti allo specchio vicino alla madre che lo sostiene, riconoscendosi separato, è la costituzione del proprio Io.

In Italia Gaddini riprende la riflessione sull’imitazione, ritiene che l’imitazione sia un fenomeno costitutivo dell’acquisizione del sentimento di sé: «imitare per essere». Si ricerca come possano attivarsi e integrarsi nell’analisi gli aspetti affettivi con quelli dell’area incorporante-introiettiva orale e produrre trasformazioni nel Sé e nella consapevolezza del rapporto con il mondo reale (Gaddini, 1980/1989, pag. 170).

Ferenczi per primo affronta la questione essenziale dell’analisi: fino a che punto la parte inconscia del Super-io è suscettibile di modificazioni e in che termini dopo il crollo e il blocco, sia possibile una uscita dalla confusione, differenziazione e la rinascita di parti vitali del Sé. Quando il trauma ha determinato una rottura della tessitura identitaria, ostacolando o bloccando lo sviluppo sessuale vitale e generativo, inibendo e impedendo al soggetto di esistere e crescere, l’intervento analitico, grazie a una viva relazione analitica, può favorire la riattivazione del processo di soggettivazione e di esplorazione del desiderio, contribuendo a reintegrare e riparare le parti del Sé che risultano ingabbiate e agoniche.

Intropressione-introiezione-identificazione con l’aggressore

Durante l’analisi, si attraversano momenti transferali e controtransferali drammatici caratterizzati da ripetizioni di fenomeni invasivi, di impossessamento, nonché di personificazioni e presenze assimilabili all’«identificazione intropressiva» descritta da Ferenczi (1932/2002) e approfondita da Martín Cabré (2011). Le reazioni dell’analizzato provocate dal senso di impotenza e paura si manifestano talvolta tramite rifiuto e chiusura. Cabré illustra l’evoluzione del concetto di intropressione, evidenziandone lo sviluppo verso la nozione di introiezione e successivamente verso l’identificazione con l’aggressore.

Il concetto di intropressione, elaborato da Ferenczi successivamente al suo incontro con Freud, ha acquisito nel corso degli anni una rilevanza particolare in relazione alla dimensione traumatica. Ferenczi (1932/2002) si è impegnato nell’integrare la nozione di introiezione con gli effetti distruttivi della violenza e della repressione familiare, la maleducazione infantile e una determinata maniera di concepire la pratica analitica.

In conclusione, secondo Ferenczi (1909), l’introiezione si configura come un processo che implica contestualmente sia l’investimento oggettuale sia un’identificazione intesa quale correlato narcisistico. — «… io descrivo l’introiezione come l’estensione verso il mondo esteriore dell’interesse autoerotico iniziale attraverso l’inclusione degli oggetti esterni nell’Io… In fondo l’uomo non può far altro che amare sé stesso. Se ama un oggetto, immediatamente lo assorbe…» — e che si configura come un processo primario organizzatore, un movimento psichico costitutivo e difensivo, fondamentale durante le prime tappe dello sviluppo psichico del bambino, e nella costituzione della dinamica della vita amorosa e del transfert, e che possiede, inoltre, la virtù di alleviare il dolore prodotto dalle aspirazioni irrealizzabili e di garantire il maggior possesso possibile dell’oggetto. Inoltre, Ferenczi coglie l’aspetto regressivo che si lega a questa specie di «…avidità, di immenso desiderio, presente nel transfert dal principio della cura…» (ibid.), possesso e avidità possono generare angosce di frantumazione, come ho osservato nel caso della mia paziente; queste angosce attivano difese arcaiche di ritiro dalla relazione affettiva. Per Ferenczi l’analisi non poteva essere scissa dalla persona dello psicoanalista considerando l’impatto che la sua presenza attiva nel disegnare e costruire insieme la cornice e il percorso analitico avendo cura di creare un apparato per produrre riflessibilità e alfabetizzazione dell’esperienza.

Questo si ricrea nell’analisi e ci porta a riflettere sull’importanza del trauma e degli effetti dei “traumi primari” (ibid.) che possono ostacolare la formazione dei legami libidici e portare a fallimenti della costruzione e sviluppo del Sé.

Non bisogna tralasciare l’identificazione narcisistica come la incontriamo nella malinconia. Bisogna chiedersi se l’identificazione dell’Io con l’oggetto abbandonato implichi anche l’esistenza di una “istanza critica” separata dall’Io. Più tardi Freud denominerà questa istanza “Super-io”, che applica all’Io lo stesso odio e desiderio di distruzione che l’Io sentiva per l’oggetto. In modo analogo a quanto avviene nel trauma (Green, 1973), l’ombra di questo oggetto cade allora sull’Io, un Io ferito, consumato e divorato da un eccesso e allo stesso tempo da uno spreco di energia psichica che si perde inesorabilmente, a volte, fino alla disfatta finale. Non si percepisce dietro la nozione di “identificazione narcisistica” o “melanconica” di Freud, il concetto di “identificazione con l’aggressore” che Ferenczi (1932a) definirà nella sua famosa Confusione delle lingue (Martín Cabré, 2011)

Ferenczi arriva così al concetto di introiezione del sentimento di colpa fino a quello di identificazione con l’aggressore, successivamente ripreso da Anna Freud (1946) e da Laplanche-Pontalis (1998).

Martín Cabré (2011) ci riporta l’interrogativo: «Che relazione si poteva stabilire tra l’idea ferencziana dell’“identificazione o introiezione con l’aggressore” e il concetto di “identificazione narcisistica” descritto da Freud in Lutto e melanconia, e con quello di “identificazione melanconica”?».

Secondo Ferenczi (1932) il carattere insopportabile di una situazione traumatica conduce a uno stato psichico simile al sonno (morte) dove ogni eventualità può essere trasfigurata come nel sogno, ma se il dispiacere persiste allora si regredisce a stadi ancora più lontani.

Di fronte all’impossibilità di difendersi dall’adulto, quando la paura supera la soglia del sopportabile, il bambino si sente paralizzato, si sottomette ai suoi desideri, alla sua volontà, finendo per identificarsi totalmente con lui. Per proteggersi dalla perdita tanto dell’oggetto come del vincolo con l’oggetto, il bambino introietta forzatamente il desiderio e la colpa dell’adulto come ultima risorsa per recuperare qualcosa della sua identità narcisistica.

Penso a Maura una mia paziente adolescente [1]che si sente estraniata e imprigionata dal senso di inutilità nei confronti della vita. In analisi riesce a riconoscere di soffrire di un malessere depressivo.

Durante l’analisi incontriamo diverse volte questa sensazione di vuoto e di stagnazione ma cerchiamo entrambe di mantenere la speranza che una lieve brezza possa far ripartire la vela. Sogna di poter mettere la barca a vela in mare, in una seduta la disegna.

Scrive Conrad (1916/1947): «E ad un tratto lasciai tutto questo. Lo lasciai in quel modo, per noi irragionevole, con cui un uccello vola via da un ramo dove sta bene». Il giovane, all’insaputa di sé, incapace di costruire la propria soggettività e di affrontare il percorso identitario dall’adolescenza all’età adulta, sembra aver percepito un segnale inquietante.

Talvolta, l’analista può sperimentare una rêverie sensoriale correlata a esperienze vissute precedentemente. Spento l’impulso analogamente immotivato di imbarcarsi sulla barca a vela, da subito bloccata in mare da una paralizzante bonaccia. Nel racconto di Conrad il giovane ufficiale sfrutterà il minimo alito di vento, rimetterà in movimento la nave, oltrepasserà la “linea d’ombra”: la linea che separa l’uomo dalla sua strada, dall’azione che la vita gli chiede ed esige, e che un fantasma giovanile aveva oscurato. Conrad rappresenta con un romanzo straordinario un’età dell’uomo in cui all’improvviso tutto appare insensato, l’età dei rifiuti, una fase di passaggio attraverso il vuoto. L’analisi è necessaria perché  riflette lo stato di crisi di Maura, segnata dall’insofferenza e dal senso di vuoto, da uno stato di pressione sofferto per il vivere “imprigionata” accanto ad una madre psichicamente fragile che aveva messo in atto un drammatico tentato suicidio, un padre svalutante, una sorella prepotente che è andata via di casa in giovane età, lasciandola sola e sempre meno in grado di muoversi nel mondo vitale dei desideri e nella realtà esterna dove cade in preda a crisi di panico.    

Mentre cammina per strada precipita in una fantasia catastrofica: un boato frammentante, un nubifragio che apre una crepa nell’asfalto e la risucchia nel buco con acqua e detriti.

Per un lungo periodo mi sento risucchiata anch’io nel buco con un senso angoscioso di morire e di stare morendo (Ferenczi, 1932; Winnicott, 1974/1995). Cercavo di ascoltare e accogliere in me il mio sentirmi “pietrificata”, in uno stato vertiginoso. Allo stesso tempo provavo a recuperare pensieri differenziati che permettessero, attraverso la mia vitalità separata, un’immagine di me sopravvissuta al progetto distruttivo indifferenziante, cercando di restituirle la sua necessità difensiva di annullare ogni riconoscimento della separatezza per sfuggire all’angoscia di morte. Come esperito anche da Ferenczi a volte nel mio controtransfert prevaleva un senso di pressione, “intropressione” e, come ripreso da Martín Cabré, una sorta di impazzimento, anche dopo le sedute rimanevo frastornata e disperata. Penso che un fattore che influenza l’insorgere degli attacchi d’ansia, l’“andare fuori di testa”, possa derivare dal tentativo prolungato e inconscio «di far impazzire l’altro, da parte di una o più persone significative nel corso dello sviluppo», come scrive Searles (1959/2004, pag. 244), cosa che si ripresenta anche nel controtransfert e nella risposta del paziente in analisi (Little, 1951), come illustrato dal caso clinico dalla mia giovane paziente.

Quando sentivo il prevalere del senso di incatenamento-impossessamento cominciavo a pensare che questo la proteggesse dal vissuto di un Sé molto vulnerabile, terrorizzata da una domanda pulsionale non significata e disattesa, dove vita e morte si confondevano senza distinzione. A questo livello l’Io corporeo, che penso equiparato all’apparato proto-mentale, non è in grado di creare rappresentazioni mentali dell’esperienza, ma genera fantasmi, irrappresentabili.

 Ora penso che quel senso di oppressione mi riconducesse a qualcosa simile alla morte. In seguito, ho iniziato a vedermi come analista nel ruolo di «regolatore originario di un ritmo» per la paziente, una immagine ideativo-affettiva. Questo mi ha fatto pensare al «battito ritmico» descritto nel resoconto clinico come «il crogiuolo di un ritmo vitale» (Racalbuto, 1984) un ritmo che nasce dal soma e dai pensieri somatici e si orienta verso il pensare, alternando parole a silenzi.

Ritengo che, al posto dell’identificazione proiettiva di natura comunicativa e dell’assimilazione sana che ne consegue, si fosse instaurata una sorta di incorporazione, dove l’oggetto incorporato non è integrato con rappresentazioni dentro la personalità; un corpo estraneo o un «fatto indigesto» (Bion, 1962) tale oggetto è avvertito somaticamente o proiettato nella realtà esterna.

Maura in una seduta ha  trovato la forza per comunicarmi davvero un suo stato: «Lei può vivere per conto suo, io no!». Il senso di gelo che mi invase mi indirizzò verso l’immagine di una sua componente che separata sarebbe morta, così come l’oggetto perduto prematuramente resta incorporato alla stregua di un corpo estraneo “morto” (Ferenczi, 1932). La concretezza del suo disagio sensoriale, da me percepito nel controtransfert, era il modo di sentirsi viva, la compensazione corporea di un’assenza della capacità di pensare, una difesa contro l’indifferenziazione, l’indifferenza e la morte assoluta. Capii che Maura poteva esistere solo fusa, unita con me, catturandomi al suo interno, catturando un oggetto sensoriale, perché sola sentiva di perdersi. Doveva allora imprigionarmi e distruggere ogni mia autonomia, separazione e distinzione perché questo era funzionale alla sua sopravvivenza.

Nell’esperienza analitica, una ricognizione può avvenire nel tempo attraverso la costruzione e il riconoscimento di un piccolo Sé ridimensionato, meno idealizzato, grazie a un rispecchiamento positivo come descritto da Winnicott (1971).

Questo processo consente la separazione dall’oggetto e l’accettazione della sua distruzione simbolica per poterlo percepire nella sua interezza al di fuori di sé. Un sogno può testimoniare questa evoluzione della paziente, un sogno   caratterizzato da forte angoscia.  Mentre si allontanava dalla casa della madre per avvicinarsi a nuove costruzioni, percepisce una sensazione di distacco dalla vita. Avverte una pesantezza centrale nel corpo, simile a una pietra che affonda, descrivendo tra le lacrime di sentirsi morire, ma ad un tratto ha sentito una mano che la teneva-sosteneva ridandole di speranza di indipendenza. Riconosce di aver interiorizzato la mano analitica, che ora la sostiene e le permette di affrontare una realtà condivisa.

Dopo alcuni mesi, arriva in seduta con una notizia positiva: ha avuto un importante riconoscimento professionale, dopo tante frustrazioni e rifiuti, non ha mollato e mi racconta un ricordo di ragazzina quando le piaceva disegnare e costruire libricini. Aveva costruito un libricino molto piccolo, da una parte era chiuso con una piccola spilla balia, dall’altra si apriva e si poteva srotolare un pezzettino di carta come un piccolo organetto. Il pezzetto di carta, Sé-disidratato, messo in condizioni ambientali idonee si trasforma in un Sé vivo (fiore cinese) che si apre alla vita e all’amore.

Conclusioni

Considerando che i pazienti traumatizzati, borderline e psicosomatici sono fragili, e soffrono di un difetto di soggettivazione, risultando talvolta opachi tanto quanto i loro disturbi, mancanti di immaginazione e di attività onirica, nell’esperienza analitica spesso ci invadono controtrasferalmente con le loro angosce e ci impediscono di andare oltre e di metterci con loro in un rapporto vivificante e rivitalizzante. Tollerando il vuoto di senso e con pazienza e attenta condivisione possiamo ascoltare i micromovimenti di espressione, di trasformazione e mentalizzazione.

Penso che proprio in questi casi non sia sufficiente creare un contenitore per sgombrare le vecchie e pesanti identificazioni e per porgere le nuove identificazioni positive, ma che sia necessario un assetto analitico di accoglienza e di contenimento delle angosce, delle difese arcaiche e delle modalità relazionali che non ci appiattiscano in una difesa collusiva nella convinzione che non ci sia un senso da ricostruire. Al contrario, ritengo che la capacità di rêverie dell’analista (Bion, 1967/1970), pur limitata dal clima asfittico e depressivo della seduta, possa risvegliare e attivare un campo di movimento e di transizionalità, favorendo uno spazio libero (spazio psichico) in grado di sbloccare e ampliare la sintonizzazione spesso ostacolata da un’occlusione dello spazio analitico dalle stereotipie mortifere.

Così la «relazione bianca» (La Torre, 2023), priva di contenuti emozionali che tali pazienti propongono, può cambiare di colore, anche di sfumature confusive di colori sino a «un nuovo arcobaleno di emozioni» (Carnevali 2017, 2018, 2020, 2022). Dal pesante senso di estraniazione da sé stessa, di non esistenza, la paziente ha fatto un lungo percorso per riattivare le zone morte o fredde, le aree non simbolizzate, creando e trovando l’oggetto del bisogno.

L’analista è riuscita a mantenere viva la sua capacità intuitiva, andando incontro all’onnipotenza sana di creare e distruggere gli oggetti, per fare circolare gli affetti e le sensazioni e quindi far nascere i pensieri, pensieri nuovi che partono da un corpo vissuto in seduta. Analogamente a quanto accade quando si verificano aree melanconiche inerti e pertanto non funzionanti all’interno dell’organismo, nelle quali si sviluppano progressivamente circoli vascolari collaterali che ristabiliscono una nuova funzionalità in un’altra area, la riparazione fisiologica dispone di numerosi strumenti ed è essenziale per la sopravvivenza. Tuttavia, la riparazione del campo psichico richiede il riconoscimento della propria fragilità, la consapevolezza delle ferite subite e l’elaborazione della sofferenza dovuta a una mancata soggettivazione.

Una difesa dal dolore psichico in questi casi è evidente, ma dovrebbe essere resa cosciente gradualmente nel lavoro analitico, perché possa accompagnare i pazienti a riconoscere la realtà e la legittimità di questa sofferenza, a metterla in scena anche con il corpo, a farla esistere per poterla poi trasformare insieme, paziente e analista, in immagini e in parola. Maura si è identificata nella mano dell’analista-madre che l’ha sostenuta e accompagnata nel suo sviluppo del pensiero della sua esistenza, di costruzione e unità di Sé. La mia paziente ha potuto separarsi e disidentificarsi da un oggetto oppressivo (identificazione con l’aggressore) che non riconosceva i suoi bisogni di relazione e di dipendenza nutritiva e contemporaneamente i suoi bisogni di onnipotenza, di creazione e distruzione dell’oggetto e di crescita.

Inizialmente, infatti, è importante che la paziente sperimenti l’onnipotenza soggettiva, vivendo nell’illusione di essere lei (con i suoi desideri) a creare e a distruggere l’oggetto madre-analista, acquisendo sicurezza e interiorizzando la funzione contenitiva ricevuta dalla esperienza di analisi, fino a renderla una parte integrante di sé.

In questo modo è stato possibile procedere nel percorso analitico con speranza e fiducia, consentendo la ripresa dei processi di separazione e di differenziazione tra il “non me” e il “me” con una membrana contenitiva e limitante di un dentro e un fuori e con una maggiore consapevolezza della realtà psichica differenziata dal rapporto con il mondo reale.

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[1] Conrad J. scrive nel racconto La linea d’ombra (1916, edito in Italia nel 1947): «Un giovane ufficiale su una nave mercantile al servizio dell’impero britannico, all’improvviso, in un porto d’Oriente, lascia il suo incarico. Di colpo. Senza ragione».

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