
Radosveta Zhelyazkova Don Quixote de La Mancha and Sancho Panza (olio su tela)
Parole chiave: Cyberspazio, Infosfera, Giocare Digitale, Corpo Informatico, Claustrum, Soggetivazione
La costruzione del sé e la relazione con l’altro nel virtuale
Il Cyberspazio: opportunità o intralcio?
Di Maria Paola Ferrigno
Immagino che tutto quello che dico sia vero,
né più né meno,
e nella mia immaginazione
lo descrivo come se ce l’avessi
(Don Chisciotte)
Internet ed altre forme di comunicazione virtuale sono ormai operative da più di 30 anni e nella letteratura psicologica, psicoanalitica e pedagogica c’è un interesse sempre maggiore per il loro impatto sulla struttura psichica dei pazienti che ne fanno un uso sempre più diffuso.
Le tecnologie digitali e i mondi virtuali hanno pervaso, sempre più diffusamente, le nostre vite offrendoci nuove e più ampie possibilità di informazione, espandendo i nostri territori di conoscenza e consentendo un’apertura pressoché illimitata a scambi individuali e collettivi. Nella realtà virtuale vive una comunità sempre più ampia e variegata in cui si stemperano, sempre più, le differenze di etnie, di età, di sesso, di religione e di cultura, una comunità libera, emancipata e indipendente.
Siamo consapevoli di quanto gli sviluppi tecnologici possano essere usati anche per sostenere lo sviluppo psichico dei soggetti ma sperimentiamo costantemente, nella nostra funzione di terapeuti, quanto possono essere impiegati dannosamente per forcludere l’esperienza.
Il telefono, ad esempio, con le sue innumerevoli funzioni, ci concede, con un solo clic, la semplificazione e l’immediatezza di molte operazioni restituendo, teoricamente, una grande quantità di tempo alle nostre vite. Il paradosso è che gran parte di noi utilizza il tempo guadagnato proprio sullo smartphone.
In questo scritto cercherò di riferirmi, in particolare, a cosa osserviamo, come agenti della cura, nella vita all’interno dell’infosfera degli adolescenti nei quali l’uso del cyberspazio può avere ricadute particolarmente critiche.[1]
Recentemente Jonathan Haidt[2] ha pubblicato un saggio di indubbio interesse:
“La generazione ansiosa: Come i social hanno rovinato i nostri figli” (2024).
Haidt, la cui ricerca riguarda i giovani americani, sostiene che, con l’arrivo dei social, si sia progressivamente passati, nei bambini e nei ragazzi, dalla «generazione del gioco a quella del telefono».
L’Autore parla di una «grande riconfigurazione dell’infanzia» come «unica e sostanziale ragione alla base dell’ondata di malattie mentali tra gli adolescenti iniziata nei primi anni Dieci del Duemila». E aggiunge: «La prima generazione di americani che ha attraversato la pubertà con in mano lo smartphone (e internet) è diventata sempre più ansiosa, depressa, soggetta a episodi di autolesionismo e suicidari…».
Secondo i dati pubblicati nel saggio, la depressione tra i ragazzi americani, in questo periodo, è cresciuta del 161% per i maschi e del 145% per le femmine; l’ansia è incrementata del 139% e il tasso di suicidi del 91% tra i maschi e del 167% tra le femmine.
È chiaro che altri fattori — storici, sociali, ambientali — hanno inciso nel profondo sul grado di fiducia nella vita e nel futuro delle giovani generazioni (la pandemia, le guerre, i cambiamenti climatici) ma la dimensione onlife ha indubbiamente un considerevole peso.
Scrive Haidt: «Il cervello umano contiene due sottosistemi che lo mettono in due modalità: la modalità di scoperta (per approcciare le opportunità) e la modalità di difesa (per difendersi dalle minacce). I giovani nati dopo il 1995 hanno maggiori probabilità di attenersi alla modalità di difesa, rispetto a quelli nati negli anni precedenti. Sono costantemente in allerta in previsione di pericoli, invece che in cerca di nuove esperienze. Soffrono di ansia».
Per Haidt ciò che sta accadendo è collegato, in particolar modo, con l’abbandono del giocare -e noi potremmo aggiungere ‘del sognare’ (Ogden, 2008)- esperienza individuale e collettiva necessaria ad un sano sviluppo (Winnicott, 1974).
Ancora Haidt: «Proprio come il sistema immunitario deve essere esposto ai germi e gli alberi devono essere esposti al vento, i bambini devono essere esposti a ostacoli, insuccessi, shock e inciampi per poter sviluppare forza e autosufficienza. L’iperprotezione interferisce con questo sviluppo e rende più probabile che questi giovani diventino adulti fragili e apprensivi». Infine l’Autore sottolinea l’affermarsi di una sollecitazione a un pensiero puramente binario, alla rimozione della complessità e, ancora di più, dell’accoglienza del pensiero e dell’identità altrui.
Sappiamo che “la tecnologia non è né buona né cattiva, ma sappiamo anche che non è neppure neutrale” (Kranzberg, 1986). Il cyberspazio può essere considerato anche come uno spazio potenziale che può facilitare l’elaborazione psichica: in tale accezione non è né giusto né sbagliato, o positivo e negativo.
Ciò che ci interessa e ci riguarda è se l’individuo, in particolar modo in età evolutiva, possa psichicamente -e in che modo- far fronte a ciò che viene presentato o messo in atto in un dato spazio virtuale. Ciò che ci sembra interessante, ad uno sguardo psicoanalitico, è in che modo la tecnologia possa interagire, nel bene o nel male, con determinate economie psichiche in particolar modo nelle fasi in cui si svolge il delicato processo di costruzione identitaria. La maturazione dell’identità di ciascun soggetto è il risultato di un lungo e complesso percorso e il diventare reali, conquistando la propria autenticità e la propria pienezza identitaria, si realizza attraverso l’esperienza di relazioni vive, interne ed esterne, che possano assegnare un significato profondo al proprio essere nel mondo.
Come interviene in tale delicato processo l’impatto con un mondo iper-connesso, dove non si distingue più tra vita online o vita offline, tra analogico e digitale, tra umano e macchina? Nello scenario virtuale ogni soggetto si muove in una iper-realtà infinita superando i limiti fisici, spaziali, sensoriali e temporali che il mondo reale impone, con una immediatezza al tempo stesso straordinaria e perturbante.
Proprio per tali caratteristiche, le tecnologie digitali e i mondi virtuali hanno dato spazio alla nascita di ‘nuove patologie’ quando gli utilizzatori si immergono in modo eccessivo o compulsivo nella ‘pseudo-realtà’ che la realtà virtuale propone e restano catturati nella tessitura infinita della Rete.
Ciò a cui assistiamo, quando bambini e adolescenti affrontano il delicato processo di separazione/individuazione e procedono verso l’avvio della definizione identitaria, è che la fascinazione operata dalle tecnologie digitali può offrire un’illusoria via d’uscita dai conflitti psichici intrinseci al processo evolutivo e collegati, ineludibilmente, al contatto con la realtà.
Sempre più frequentemente osserviamo bambini, adolescenti e giovani adulti che, attraverso una immersione eccessiva nei mondi virtuali, hanno arrestato il loro sviluppo, si sono ritirati in uno stato di isolamento o hanno sviluppato vere e proprie patologie da addiction che interferiscono, anche gravemente, con la loro vita di relazione e con i loro rapporti sociali diventando vere e proprie prigioni.
A fronte di tali cambiamenti culturali e sociali, anche noi terapeuti abbiamo dovuto conquistare una crescente dimestichezza con le tecnologie digitali e le realtà virtuali perché i nostri pazienti ci chiedono di comprendere e saper parlare i nuovi linguaggi che, nel loro essere assidui frequentatori delle tecnologie digitali e della rete, essi usano quotidianamente e sempre più pervasivamente.
L’utilizzo di Internet, dei videogiochi e della multimedialità- e più in generale dell’infosfera- da parte dei nostri pazienti porta, anche sulla scena analitica e nel setting, nuovi personaggi e nuovi modi di comunicare. In parallelo, anche i terapeuti, devono confrontarsi con tali nuovi ‘oggetti’, dialogare con loro e, talvolta, anche utilizzarli come mediatori per raggiungere il paziente.
Tale confronto a volte ci apre a scenari nuovi, avvincenti e ricchi di sorprese; altre volte ci impone un faticoso cammino per entrare nel mondo claustrofobico/claustrofilico in cui il nostro paziente si è ritirato, impegnandoci nel tentativo di vitalizzarlo per richiamarlo a relazioni non virtuali; altre volte ancora ci offre un fruttuoso percorso di avvicinamento a zone morte e/o dissociate della vita mentale del nostro paziente.
È di tutta evidenza, infatti, che l’evoluzione tecnologica può essere usata per favorire e sostenere lo sviluppo psichico aprendo il soggetto a mondi più ampi, a nuove e più estese opportunità di apprendimento e di socializzazione, offrendo a chi lo usa in modo creativo una esplorazione, variegata e ricca, di molteplici realtà. Quando però della tecnologia viene fatto un ‘cattivo uso’, diventando un’occasione per ‘agire’ un rapporto disturbato con la realtà esterna e interna, essa può essere impiegata per negare e/o dinegare l’esperienza eludendone gli aspetti frustranti ad essa impliciti.
Attraverso la facile raggiungibilità di ogni informazione e di ogni mondo, anche molto lontano, il cyberspazio si presta ad offrire la sponda per evitareil confronto con la realtà e con i limiti che essa comporta, evocando una illusione onnipotente, rischiosa per la vita psichica. Una esistenza nel mondo virtuale può presentare una realtà illusoria, può divenire scenario in cui trova vita un aspetto del Sé dissociato e può anche essere un tentativo di controllo, anch’esso illusorio, di una realtà, sia esterna che interna, sentita come intollerabile.
L’immersione in un mondo virtuale, rassicurante nel suo essere totalmente prevedibile e sempre uguale, offre il luogo del diniego e dell’evitamento di emozioni dolorose ma comporta, come prezzo da pagare, l’arresto dello sviluppo e la mortificazione della crescita creativa mentre sacrifica, al contempo, anche la vita sociale.
Ogni esperienza che viviamo, come ben sappiamo, è immersa nella dimensione temporale, organizzatore psichico fatto di un prima, un adesso e un dopo, uno scorrere del tempo ineludibile che comporta cambiamenti e contiene separazioni e perdite, unite all’esperienza di vuoto e di mancanza ad esse collegate.
Nel cyberspazio, invece, il mondo diventa un luogo privo di spazio univoco e di tempo lineare, le distanze si annullano, gli spazi si sovrappongono e si moltiplicano ed il tempo si comprime in un eterno presente, essere in un on line che diventa on life.
«Lì non vi sono scuole, lì non vi sono maestri, lì non vi sono libri. In quel paese benedetto non si studia mai. Il giovedì non si fa scuola, e ogni settimana è composta di sei giovedì e di una domenica». Come nel Paese dei Balocchi di Collodi, dove è sempre giovedì e il tempo si ferma evocando una condizione di irrealtà e permettendo di evitare il contatto ineludibile con il reale –non sempre semplice- anche nel cyberspazio tutto è sempre presente e, allo stesso tempo, non è presente, è iper-reale ma non è reale, un mondo dove il reale viene spogliato della sua intrinseca realtà.
Manca quel contatto con la realtà che richiama i fatti importanti della vita (Money Kyrle, 1968) dove le cose cambiano in relazione al tempo, dove l’uso di un giocattolo lo consuma e lo può rompere.
Il cyberspazio diventa un mondo dove è sempre giovedì e un giocattolo non si consuma mai, un mondo che alimenta l’onnipotenza e la conferma, un oggetto senza limiti, un luogo irreale dove sentimenti e idee vengono fissati in una legge di ripetizione infinita e sempre uguale a sé stessa. Vi si realizza una sorta di orgia perpetua atemporale in cui viene a mancare la realtà dove poter fare davvero esperienza. Viene meno quel processo all’interno del quale soggetto ed oggetto cambiano e, in una tessitura relazionale continua che nasce dalla interazione di due menti, si modificano soggiacendo all’inesorabile mutamento che il passare del tempo comporta con i conseguenti, ineludibili lutti.
Anche il ‘giocare digitale’ assume, in frequenti casi, una valenza particolare.
Senza il costante contatto tra realtà, fantasia e immaginazione, aspetti intrinseci al giocare,il giocare si riduce al vincere o perdere una sfida, a ripercorrere territori sempre uguali in una sterile ripetizione che sostituisce l’esperienza del gioco inteso come attività creativa e base del senso del sé, conseguenza e risultato dell’esperienza stessa del gioco.
Di conseguenza, mentre l’atto creativo del giocare, che nasce dal mondo emotivo, quando si esaurisce non lascia il vuoto perché ha avuto una funzione nutritiva ed ha promosso lo sviluppo, il gioco come ritiro in un mondo virtuale ha un carattere eminentemente sensoriale, crea dipendenza e quando decade lascia un vuoto.
Sappiamo che anche i videogiochi possono generare uno spazio potenziale e non comportano necessariamente una esposizione/contagio ad un comportamento violento o essere l’ingresso in un rifugio devitalizzato ma è necessario comprendere come e perché i pazienti giocano e in che modo entrano in relazione con i diversi elementi del gioco.
I videogiochi, infatti, possono anche rappresentare uno spazio protetto, di cui il paziente ha bisogno per portarvi aspetti di sé che non riescono a vivere nella vita reale e, pertanto, anche il mondo dei videogiochi può assumere una valenza trasformativa ed evolutiva, allorché viene animata al suo interno una dimensione creativa che permette al paziente di sperimentare, in un terreno più sicuro della sua vita reale, sentimenti e fantasie prima inaccessibili.
Un altro importante aspetto da considerare nel rapporto con il cyberspazio è la presenza/assenza del corpo. L’esistenza digitale, infatti, ha una natura fondamentalmente incorporea e disincarnata che comporta un’esperienza di sé frammentaria e dispersa. Se il confine corporeo viene a mancare, poiché sia il corpo che lo spazio perdono valore, non vi è possibilità di pensiero, tutto è fuso e confuso, non vi è capacità di riflessione.
Senza confine non vi è distanza, né contraddizione: tramonta l’alterità quale condizione imprescindibile della relazione duale e si realizza una dimensione disincarnata che esclude la corporeità propria e dell’altro e viene evocato ‘un corpo informatico’, dotato di capacità di accoppiamento virtuale.
In assenza del corpo, l’universo reale, imperfetto e contraddittorio, fatto anche di negatività e di morte, viene riprodotto depurato, pulito, senza Ombra.
Anche le sensazioni tattili che la relazione con l’oggetto tecnologico implica sono rilevanti e possono diventare un modo per evitare la consapevolezza della separazione: il web-nauta, mentre si tuffa nello schermo, vive, allo stesso tempo, una costante stimolazione sensoriale data dal contatto con i ‘mediatori’ necessari per l’uso della tecnologia: il mouse, la tastiera e tutto ciò che si rende utile per l’attivazione dei comandi. Tali pratiche corporee collegate al ‘toccare’ possono anche diventare una sorta di ‘allucinazione tattile’ che può dare luogo ad una sorta di incapsulamento in una guaina protettiva che richiama le forme di esperienza autistica descritte da F.Tustin (2013).
Quando l’eccessiva stimolazione sensoriale esaspera le sensazioni tattili e il soggetto stabilisce con i mediatori della Rete un contatto eccitato, anche l’involucro pelle, eccessivamente stimolato, può contribuire all’impoverimento della dimensione creativa dell’esperienza. Il risultato può portare ad un ‘involucro di eccitazione’ che può essere alimentato a spese di un ‘involucro di significazione’, una seconda pelle (Bick, 1968) con il conseguente sacrificio del buon funzionamento dell’Io soprattutto nelle sue capacità creative.
L’osservazione clinica degli adolescenti evidenzia che le declinazioni dell’uso dell’infosfera danno vita a forme cliniche alquanto diverse: possono comportare una dipendenza tossica, possono animare un’illusione narcisistica vicariante una fragile identità o essere usate a favore di una virtuosa trasformazione.
In alcuni pazienti l’infosfera consente la fuga dalla realtà e l’onnipotenza nel tentativo di fronteggiare il dolore intergenerazionale e il dolore evolutivo; diventa un luogo dove tutto si ferma in un tempo a-temporale costantemente controllato, un luogo dove, senza sosta, si ricercano sensazioni piacevoli.
Altri soggetti sembrano cercare in Rete una sorta di risarcimento narcisistico per contrastare la vulnerabilità narcisistica, conseguenza del mancato interesse da parte dei loro oggetti primari: in rete, attraverso i mascheramenti, c’è l’illusione di essere, finalmente, guardati con interesse e con desiderio.
Per alcuni pazienti, il cyberspazio diventa una sorta di claustrum, un mondo colorato da una atmosfera perturbante molto primitiva dove la realtà e la fantasia hanno tra loro un confine incerto e labile. Nel mondo del claustrum la conoscenza non viene collegata all’esperienza e alla capacità immaginativa ma è soggetta ad una sorta di pervertimento attraverso una identificazione proiettiva intrusiva che può essere collegata ai diversi compartimenti del claustrum descritti da Meltzer (1992).
In quest’ottica l’infosfera può comportare uno stato emotivo che evoca un paradiso di felicità all’interno di un seno materno che nutre senza limiti, un mondo dove regna l’onnipotenza e l’onniscienza, un nutrimento all’insegna dell’abbondanza e della ricchezza, scevro da ogni frustrazione dove l’assenza del terzo dà l’illusione di una vita in un mondo immaginario di godimento senza fine, un’unione perfetta, una fusionalità che esclude il padre, la parola del padre, il simbolico.
In altri casi ancora Internet può essere vissuto come il giardino della sessualità all’interno dei genitali materni dove regna la scena primaria e l’esclusione; lo stato mentale che si crea è caratterizzato da una sessualità dove il voyerismo e la rivalità fraterna imperano nel tentativo di evitare l’esclusione. È il mondo di una sessualità perversa, pervasa da una eccitazione senza fine.
L’infosfera, infine, può essere vissuta come un compartimento rettale dove non vi sono né aria né amore, ma una vita in uno scantinato dove non c’è il seno e neppure il viso della madre ma solo l’orrore delle viscere interne. Questo è un mondo dove prevale il sadismo e la violenza, la tirannia e la sottomissione. La paura di essere evacuati porta ad una lotta per la sopravvivenza e la relazione con un oggetto maligno, che suscita disperazione, anima un inferno di perversione e sadomasochismo.
Sono questi i pazienti che maggiormente ci mettono alla prova poiché trovano nel cyberspazio una soddisfazione narcisistica, perversa e onnipotente, che, illusoriamente, promette una pseudo-indipendenza che il paziente fatica ad abbandonare anche se gli comporta l’esclusione dai rapporti sociali e mette a rischio la vita psichica stessa.
Come suggerisce Ogden (2008), pur nelle diverse forme, è un mondo di ‘sogni non sognati’, esperienze emotive che non possono essere sognate e trasformate in quanto insopportabilmente dolorose: ‘conseguentemente una persona incapace di sognare si trova bloccata in un mondo immutabile e senza fine riguardo a ciò che è’ ed internet, potremmo dire, offre un mondo dove nulla, davvero, cambia.
Conclusioni
Con l’avanzare delle tecnologie digitali e della realtà virtuale, le esperienze cliniche osservate implicano che anche il lavoro psicoanalitico debba attrezzarsi per poter cogliere utilmente i nuovi linguaggi che l’infosfera produce ed essere aperti alle nuove forme di soggettività e ai possibili, nuovi, percorsi identitari che la contemporaneità comporta.
Anche nel prendersi cura psicoanalitico è inevitabile confrontarsi con la nuova realtà virtuale per comprendere come essa influisca sui processi di simbolizzazione, rappresentazione e mentalizzazione dei nostri pazienti al fine di coglierne sia gli aspetti che contribuiscono alla costruzione del Sé sia gli aspetti che, al contrario, bloccano o deformano lo sviluppo psichico.
E’ necessario essere disposti, nell’incontro con ogni paziente, a cercare e ritrovare il necessario equilibrio tra un buon assetto di cura, che ha alla base i nostri modelli, e la libertà necessaria per accogliere la specificità di cui ogni soggetto è portatore. Ne consegue l’importanza di offrire “(…) accanto a un setting professionale, la presenza di un analista disposto a rimettere in discussione se stesso e i propri ferri del mestiere” (Bonanome, 2016).
Attraverso il percorso terapeutico, sarà così possibile aprire i nostri pazienti a nuove ‘scintille relazionali’ cercando di accompagnarli da una loro, spesso isolata, esistenza nel mondo virtuale al divenire ‘reali’ nelle loro proprie vite. Un divenire ‘reali’ che può svolgersi attraverso l’esperienza del sentirsi accolti e compresi, sia consciamente che inconsciamente, al fine di poter conquistare la loro soggettività, una sufficiente autenticità e verità emotiva, tollerando la fatica e il dolore mentale necessari.
L’incontro con un nuovo oggetto, nella relazione analitica, offre ai pazienti l’esperienza di essere, finalmente, guardati e ‘visti’ nella loro soggettività e può aprire a nuovi e vitali incontri. Nella trama affettiva che l’incontro tra due menti offre essi possono confrontarsi con i fatti importanti della vita (Money Kyrle, 1968), avviare il lutto sull’oggetto perduto ed aprirsi ad una curiosità creativa.
In tutti i pazienti, nella tessitura di transfert e controtransfert propria del processo terapeutico, dove l’accoglienza e la comprensione da parte del ‘nuovo oggetto’ si misurano costantemente con l’ineludibile esperienza del limite, può avvenire una trasformazione che favorisce lo sviluppo e il processo di soggettivazione in un fruttuoso passaggio dalle ‘non cose’ alle ‘cose del Mondo’ (Byung-Chul Han, 2022).
Nella trasformazione, con il procedere della soggettivazione, anche l’infosfera può diventare strumento creativo, espressione di vitalità che promuove nuove relazioni sociali tra i pari.
Bibliografia
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[1] È appena stato pubblicato un volume di Franco De Masi che analizza l’impatto che hanno gli strumenti mediatici sulle nostre vite e su quelle dei soggetti più giovani (No smartphone. Come proteggere la mente dei bambini e degli adolescenti. De Masi, 2025).
[2] Professore di leadership etica alla Stern School of Business dell’Università di New York con specializzazione accademica in psicologia morale. È stato nominato come uno tra i migliori pensatori mondiali dalle riviste Foreign Policy e Prospect.