Cultura e Società

“Le madri non dormono mai” di L. Marone. Recensione di D. Federici

9/03/23
"Le madri non dormono mai" di L. Marone. Recensione di D. Federici

Le madri non dormono mai

di Lorenzo Marone (Einaudi, 2022)

di Daniela Federici

parole chiave: #carcere, #Icam, #minoriincarcerati

Il mondo che vi pare di catene

tutto è tessuto d’armonie profonde.

Moralisti, Sandro Penna

Un intenso e commovente romanzo corale, un cantico degli ultimi, gli invisibili dimenticati, i bambini incarcerati con le loro madri. Lorenzo Marone, con la sua grande sensibilità di narratore, da voce alle infanzie rubate e alle storie di donne vilipese che abitano la realtà poco conosciuta degli Icam, istituti a custodia attenuata per detenute con minori. Un racconto poetico e struggente, uno spaccato d’umanità che risuona dalle sue ferite più profonde, fra inquietudini e violenza, sogni inevasi e bisogni di riconoscimento, esplorando i confini fra libertà e costrizioni – del reale e dell’anima.

Diego ha 9 anni e ha imparato a campare di poco, un corpo goffo e l’affanno perenne in petto per un cuore debole e per il gran bisogno di essere accettato. Quando sua madre viene incarcerata per aver nascosto merce rubata del padre, il bambino si trova fuori dalla ferocia della Napoli dei quartieri di spaccio e delinquenza che l’aveva fatto sentire di cartapesta, incapace di difendersi dai bulli. Convinto che il tormento sia nell’ordine delle cose, ferito e spaurito del vivere, Diego aveva imparato a rendersi invisibile; ma in quel piccolo cortile dove essere il più grande lo fa sentire l’ammirato condottiero dei piccoli reclusi, gli prende la smania di esistere per qualcuno.

Era come la pianta che si ambienta nel posto giusto e d’improvviso, da sola, si mette in testa di fiorire.

Miriam, sua madre, è una donna dalla bellezza incandescente che la fa eterna preda costringendola a difendersi, un felino in allerta, un arco teso con la guerra stipata nel cuore, che la furia dei respinti ha inaridito e reso indifferente all’incontro: s’appuntava sul viso la scortesia, alzava un muro di diffidenza, ché … la fiducia è atto più elevato dell’amore, è cosa per pochi. Una corazza che la escludeva dalla vita, la convinzione profonda di dover essere infelice, perché nell’infelicità trovava la migliore giustificazione alla propria condizione esistenziale.

L’indifferenza non è per chi non crede, ma per chi ha creduto, seppure per poco, e non crede più.

Miriamè una madre che di gentilezza non s’intende e che, nell’eterno dubbio di fare del figlio un debole, non riesce a dimostrargli il bene. Ma in quella reclusione dove si confronta con altre donne e vede suo figlio in una luce diversa, si domanda se i suoi modi duri siano tossici, se il suo stesso insegnamento, la violenza e la paura che erano anche sue, o magari l’accettazione passiva di quel ruolo subordinato, siano la quota di responsabilità delle madri a crescere figli maschilisti e violenti.

Miki è una guardia carceraria senz’armi né divisa, che negli occhi di Miriam riconosce il suo stesso convincimento, quello che tocca agli sfortunati: che l’altro sia il nemico da sconfiggere, e che dentro ogni essere umano ci sia un diavolo impossibile da estirpare. Un uomo che ha alle spalle la sua quota di fallimenti e sogni troppo grandi, una tenera identificazione con i piccoli e un magma di pulsioni feroci da domare quando si trova davanti alle donne, da sopraffare o sentirsene in soggezione com’era con sua madre. Un uomo che sta con poco merito e molta fortuna dalla parte dei giusti… con un piede costantemente nel precipizio, esposto ai suoi demoni e alle dolorose fatiche di convivere con la parte di sé che non corrisponde alla persona che vorrebbe essere.

A lui il piccolo Diego si rivolge con la sua fame di una figura paterna, per specchiare l’esibizione del crescere. Poi c’è la piccola Melina, che ha negli occhi lo stupore del vivere e custodisce un quaderno delle parole belle, che gli diventa sorella, stanando anche l’affettuosità di Miriam. E Greta, la psicologa che insieme ai volontari contribuisce a rendere la permanenza ai bambini il meno traumatica possibile in quell’istituto incastonato fra i monti. Anche lei ha le sue pene da portare, mentre ascolta quelle donne chiuse, mutilate, corpi vuoti, anime silenti e rabbiose, che per poco amore ricevuto s’erano fatte aride, dure come la scorza del pane vecchio, vite in cui la maternità può essere rimasta una forza riparatrice.

Esistenze che semplicemente scordavano d’adoperarsi a cambiare le cose, e lasciavano che fosse il tempo a decidere per loro. Un tempo da lasciare passare in carcere, in un disordine sgraziato di suoni, una patina di rumori a scandire ore sempre uguali.

Un mondo nel quale bene e male non avevano più definizioni nette, e tornava difficile per chiunque districarli, trovare il senso profondo di ciò che avveniva.

L’Autore, che ha tratto ispirazione per la sua storia dalla visita all’Icam di Lauro, nella terra d’Irpinia, ha immaginato cosa significasse per un bambino vivere lì dentro, se quelle creature costrette a crescere prima del tempo s’avvertono prigionieri o se la fantasia li fa salvi, se pure dentro a un carcere resta in loro intatta la capacità di scorgere l’intero firmamento in un piccolo cortile scalcinato.

A chi, prigioniero per nascita, s’inventa il modo di essere libero, scrive in esergo.

Ma il romanzo non fa sconti di pena alla durezza della realtà.

Diego, che stava nella guerra di sua madre senza volontà, come il soldato pronto a disertare, un bambino troppo buono per odiare, che sapeva del male per eccessiva sensibilità e s’impegnava a non farlo agli altri, a scuola reagisce a un’offesa traboccando della sua ribellione sopita, della disperazione muta che lo abitava, e precipita nell’aggressione come un fiore maltrattato dal temporale. Il rione l’aveva ghermito, gli aveva dato in dote un’identità fondata sul nemico, dal quale per l’intera vita sua avrebbe provato invano a difendersi. E poco contava che fosse tra i perseguitati, che di colpe non ne avesse, e che da innocente s’arrabattasse a individuare una via di fuga: la violenza e la rabbia non facevano distinzioni tra oppressori e oppressi.

E quando poi, al compimento dei suoi 10 anni, deve lasciare quel luogo che era stato il più simile a una casa per lui, è la disperazione: sentire di aver avuto in prestito un’idea in cui sperare, un po’ di vita buona e ora gli toccava restituire tutto, perdendo quello sguardo materno che lo ancorava al mondo. Avrebbe fatto ritorno al rione, barattando l’ingenuità con la disillusione, smerciando la sua vita al prezzo più vile, come se non valesse nulla. A tentare come poteva di essere adulto, di resistere senza sua madre alle ingiurie della vita e degli uomini.

È un romanzo che sa mirabilmente guardare al mondo attraverso gli occhi delle donne e dei bambini, coinvolgendo il lettore nelle vite dei suoi personaggi, raccontando le debolezze e i drammi umani con delicata profondità, che ha la capacità di entrare nella complessità ed esplorare ciò che sta dietro, le ragioni dei torti, dell’inascoltato.

Sospendendo il giudizio, permettendo il lasciare emergere, dando voce.

Come fa il mestiere della cura.

L’unico modo di sfuggire alla condizione di prigioniero è capire com’è fatta la prigione, scrive in esergo da Calvino.

Questo è un libro che parla anche delle prigioni del dentro, con i suoi condizionamenti, le costrizioni, i labirinti delle colpe e delle pene, i percorsi delle responsabilità.

Una scrittura che è anche impegno sociale a portare l’attenzione sulla vita di bambini cui è sottratto il tempo della crescita e che rischiano di diventare dei segnati a essere senza potersi salvare. Un libro che sostiene l’immaginare un mondo come lo si vorrebbe per renderlo possibile, perché nessuno dovrebbe rimanere senza aiuto.

“La povertà più grande non sta nel non avere un pezzo di pane o un tetto, ma nell’essere un individuo isolato, che non fa parte di alcuna comunità e che non ha obiettivi. In una parola, nell’essere nessuno.”

Così Claudio Abbado commentava l’iniziativa del maestro José Antonio Abreu che a Caracas consegna a 11 bambini uno strumento musicale insegnando loro a fare musica. Da lì principia il moltiplicarsi nazionale di orchestre giovanili noto come El Sistema, che raccoglie bambini e ragazzi dei barrios, i quartieri più degradati dei centri urbani, marcati dalla violenza delle gang con i suoi circuiti di criminalità ed esclusione.

Quello a cui Abreu ha dato inizio è il microcosmo di una società ideale che ha rimesso al centro l’affermazione dei diritti dell’infanzia, riconsegnandole dignità attraverso l’arte e soluzioni che hanno dimostrato di poter disinnescare la socializzazione della violenza. E lo ha fatto al di fuori di una logica assistenziale, fornendo ai ragazzi una capacità e l’opportunità di un riscatto esistenziale, perché i più grandi, imparato a suonare, hanno insegnato ai più piccoli, diffondendo capillarmente il progetto e promuovendo nuovi codici di convivenza nei propri contesti socioculturali. La musica, divenuto un bene comune come l’acqua, permette ai giovani di scegliere un’altra partitura, una diversa traiettoria di senso nella propria esistenza.

A chi, prigioniero per nascita, si può aiutare a inventare il modo di essere libero.

Il messaggio di cui il romanzo di Marone si fa portavoce è come pensare misure alternative al carcere per questi bambini, esperienze che possano divenire un’occasione per dirigere nuovi progetti di vita, edificando valori e traiettorie diversi da carriere criminali.

Perché ogni atto violento ha una storia che va conosciuta per poterne comprendere il significato.

Una logica cui lavorano i programmi di giustizia ripartiva, che guardano alla responsabilità fuori dalle categorie statiche dell’essere responsabili di qualcosa e per qualcosa, per abbracciare una dimensione relazionale dell’essere responsabili verso qualcuno.

Ceretti, A; Cornelli, R. Oltre la paura. Feltrinelli, 2013

Chi ha letto questo articolo ha anche letto…

Contro la semplificazione 2. Don Gino Rigoldi intervistato da A. Migliozzi

Leggi tutto

Riparazione

Leggi tutto