Cultura e Società

Il processo a Dietrich Bonhoeffer e l’assoluzione dei suoi assassini

18/01/16
Il processo a Dietrich Bonhoeffer e l’assoluzione dei suoi assassini

Christoph U. Schminck-Gustavus (2015)

Il processo a Dietrich Bonhoeffer e l’assoluzione dei suoi assassini

Ed. Castelvecchi, Roma, pp.120.

La Storia è passata.

Solo la verità rimane

e non ci riscalda.

Ma dobbiamo cercare di ricordarla.

(Klaus von Dohnányi, figlio del congiurato Hans von Dohnányi, amico di Bohnhoeffer)

“Ci domandiamo cosa avremmo fatto noi, fino a che punto sarebbero arrivati la nostra resistenza e il nostro coraggio” (p.98) …

Così conclude Schminck il suo interessante e stimolante testo sugli atti del processo marziale a Bonhoeffer e soprattutto sull’assoluzione dei suoi assassini. Perché Bonhoeffer non è stato giustiziato (non è stata fatta giustizia…), ma è stato assassinato!

Questa la tesi del libro, che viene dimostrata attraverso tantissimi documenti che lentamente, e inesorabilmente, come Schminck sa fare, vengono raccolti e riportati. In merito consiglio anche la lettura di “Male di casa. Un ragazzo davanti ai giudici, 1941-1942”, Bollati Boringhieri, Torino, 1994, un breve testo sempre di Schminck, estremamente interessante, sul processo e la condanna a morte di Walerjan, la cui colpa era solo quella di essere un ragazzino polacco ingenuo, con il vissuto depressivo di essere lontano da casa, spaventato come tanti nostri migranti di oggi.

Nel leggere il testo ci accorgiamo che “il passato non è passato” (p. 94) ma che una certa mentalità rischia di sopravvivere anche tra di noi e non solo tra i tedeschi, un tempo nazisti e poi denazificati.

L’omicidio di Bonhoeffer non ha nulla a che fare con la giustizia e questo libro lo dimostra come solo un esperto di Storia del Diritto e Storia Sociale può saper fare.

Il testo è una descrizione di quei “procedimenti tortuosi che spesso finivano sciogliendosi nella nebbia, nel nulla”. Di quei “cavilli giuridici dei difensori degli assassini marziali (che) insabbiarono tante istruttorie fino alla prescrizione legale” (p. 88). Per questo motivo Schminck può affermare che “sono stati in tanti a far salire Bonhoeffer sul patibolo” (p. 88).

Ed è questo che mi ha colpito del libro: quanto noi oggi colludiamo nel far salire su patiboli, per fortuna magari solo mediatici, ma a certe latitudini anche purtroppo concreti, personaggi dei più vari invece di punire i veri colpevoli che sgusciano via come sabbia tra le mani?

La storia di Bonhoeffer la sappiamo: Dietrich Bonhoeffer è stato un oppositore, che non è mai sceso a compromessi, del regime hitleriano. Non ha mai colluso, come pastore dei cristiani, con il pericoloso connubio tra religione e nazionalsocialismo. Sempre Bonhoeffer denunciò la follia nazista e da tutti è riconosciuta la sua grandezza morale e umana. Perciò venne arrestato il 5 aprile 1943 e morì “strangolato” (Schminck descrive come in realtà l’impiccagione era un lento strangolamento…), nudo, a Flossenbürg, il 9 aprile 1945.

Suo cognato, Hans von Dohnányi, che lavorava come giudice al Ministero della Giustizia, aveva iniziato a raccogliere quelli che poi si chiameranno gli “Atti di Zossen”, ovvero dei documenti, storicamente importanti, sui crimini compiuti dai dirigenti del partito nazista. Attorno a lui, nella resistenza militare attiva, c’erano l’ammiraglio Canaris, il generale Oster e, appunto, il pastore Bonhoeffer.

Lascio alla lettura la descrizione dettagliata degli avvenimenti, fatta attraverso appunto la raccolta dei documenti dei processi fatti al medico, Hermann Fischer-Hüllstrung, al giudice Otto Thorbeck e all’accusatore, Walter Huppenkothen, che condannarono a morte i “congiurati”, processi che portarono solo a brevi condanne, non per omicidio, si badi bene,  ma per “aiutanti in omicidio”  e in qualche caso addirittura all’assoluzione. E questo nella Germania degli anni cinquanta, in pieno dopoguerra! Ma non solo, a pagina 78, Schminck rammenta come a tutt’oggi lui stesso, professore universitario, abbia avuto difficoltà per trovare risposte alle sue domande in merito alle ricerche sull’archiviazione di istruttorie contro i criminali nazisti, anche con le autorità competenti, giudiziarie, di Monaco. Tutto ciò mi ricorda il certificato di una mia cugina, fuggita perché di origine ebraica durante la guerra, che nel 1978 riportava scritto, a mano e in matita, in una scrittura piccolissima a fianco dei suoi dati, le sue origini ebraiche e quindi il suo diritto a delle facilitazioni per la pensione come insegnante. Perché l’impiegato, nel dopoguerra, ha scritto il tutto così in piccolo da renderlo quasi illeggibile nonostante il grande spazio del foglio?

“Leggendo le motivazioni della sentenza di Augusta – ovvero il Processo contro Thorbeck e Huppenkothen in quanto responsabili della morte di Bonhoeffer  e von Dohnányi – ,” scrive Schminck “ci si chiede se sia stata scritta prima o dopo il crollo del nazismo. I giudici parlano di eingehende Vernehmungen (ovvero di ‘dettagliate interrogazioni a più riprese’), come se non sapessero che durante quelle interrogazioni dominavano la tortura e il sadismo degli inquirenti […] Sembra che la ‘denazificazione’ non abbia lasciato nessuna traccia nelle loro coscienze” (p. 39).

Sembra, leggendo questo libro, quanto mai attuale, l’invito di Bonhoeffer a “Dem Rad in die Speichen fallen… Unrecht erkennen, Widerstand wagen”, ovvero “Fermare la ruota. Riconoscere l’ingiustizia, osare la resistenza” (p. 94-95). Ma appunto  viene da chiederci se ne siamo capaci, se abbiamo il medesimo coraggio, se siamo in una situazione così grave…

Quanto oggi siamo costretti, magari da noi stessi, a vedere atrocità e a stare zitti? I ribelli di cui si parla nel libro, sono “stati impiccati completamente nudi […] senza il diritto, fino all’ultimo momento, del rispetto del valore umano e della dignità di uomo” (p. 85) … e oggi? Quante simili nefandezze accadono in ogni dove e noi si sta in silenzio. Perché non abbiamo il coraggio, la forza e gli strumenti per opporci?

Questo libro ci fa riflettere su come le cose vengono trasformate, manipolate, descritte da vertici osservativi diversi, rendendole innocue, giustificate. Quanto questo stile si intrufola nel nostro agire quotidiano, nella politica, nella società, garantendo – come accade per chi giudicò e condannò a morte Bonhoeffer e gli altri – l’impunibilità e l’assoluzione, oltre che l’inserimento in gangli significativi della società e dello Stato, di personaggi significativi per le loro iniquità.

Nel libro si dice – citando la sentenza della sua assoluzione – che “al giudice Thorbeck non può essere fatto ‘alcun rimprovero ’ perché ha celebrato un ‘processo corretto’ ”. Il cinismo di questa motivazione culmina con l’affermazione – dei giudici della Corte di Cassazione che revisionarono nel 1956 la sentenza del 1952 – secondo cui i ribelli (Bonhoeffer e gli altri) avrebbero preteso il diritto di ‘sacrificare la vita di innocenti’. I giudici della Corte di Cassazione non sapevano quante vite umane furono annientate negli ultimi dieci mesi di guerra? Milioni di innocenti sono stati bruciati dal regime del terrore, ma i giudici della Cassazione federale continuano a parlare di ‘alto tradimento’ e di ‘tradimento della guerra’” (p. 82)!

La stessa sentenza della Cassazione federale del 1952, dopo la richiesta di revisione fatta da Thorbeck, che appunto fu presidente della ‘corte marziale’ che mandò alla forca Bonhoeffer, afferma che “neanche allo Stato nazionalsocialista può essere negato il diritto di aver emanato tali leggi” – nel senso di leggi severe per la tutela dello Stato, come diritto dello Stato all’autodifesa… – “sebbene non servissero tanto per la tutela del popolo tedesco e della patria tedesca, quanto in misura crescente, per il mantenimento del regime nazionalsocialista. Questo intreccio fatale ha le sue radici nella contraddizione di coscienza in cui i ribelli si erano ingolfati (sic!). Potevano scegliere” – il Giudice della corte marziale, l’accusatore e gli altri – continua sempre la sentenza della Cassazione “tra il dovere dell’obbedienza alle leggi severe del tempo, e il dovere dell’obbedienza ai loro intenti, nati da sentimenti nobili, che richiedevano anche il coraggio dell’autosacrificio per rimuovere il regime violento di Hitler” (p. 81-82).

In tutto il libro si assiste ad una sorta di “bella indifferenza esibita” che sembra non essere capace di un pensiero storico, di un ricordo, di una presa di consapevolezza di quanto veramente accaduto nel periodo del nazionalsocialismo di Hitler. I giudici della Corte di Assise di Monaco che per due volte assolvono gli assassini di Flossenbürg (dove vengono impiccati Bonhoeffer, Canaris e Oster) erano stati, come si usa dire, “denazificati” – ma la loro denazificazione era rimasta “un’epurazione superficiale per cui un omicidio di Stato non era un omicidio, ma un’applicazione della legge entro i procedimenti previsti dal codice marziale” (p.56) – e così erano potuti rientrare in magistratura nonostante un tempo fossero stati iscritti al partito nazista. In Italia accadde analogamente che molti, compromessi con il regime fascista poi si reinserirono in moltissimi luoghi di lavoro e di potere. Così oggi, forse, mutatis mutandis, molti manager che portano alla rovina aziende e banche, si riciclano poi in altri luoghi portando avanti una certa mentalità che continua a fare danni gravissimi da cui dipende la nostra vita.

“Nessun pensiero delle umiliazioni inflitte alle loro vittime sfiora la mente di questi complici del terrore” (p. 71) dimostrando come il nazismo sopravvisse ancora a lungo in alcune teste dei tedeschi del dopoguerra. Schminck, professore tedesco emerito dell’Università di Brema, da sempre combatte questa mentalità rendendoci attenti a riconoscerla nelle pieghe della nostra quotidianità.

E dunque: da che parte stare? Con quelli che sono forti e comandano, ma forse sono a volte potenzialmente pericolosi, o con gli oppositori, nel pericolo di stravolgere le nostre vite tranquille?

Nell’epilogo non possiamo fare a meno di leggere, e spero di pensare, che “L’occupazione della Grecia “ – da parte della Wehrmacht – “è un argomento largamente sconosciuto in Germania. Settant’anni dopo la fine della guerra, il tema della mancata restituzione e del mai avvenuto risarcimento dei danni in Germania viene ritenuto da molti estinto dalla prescrizione. Si preferisce imprecare contro i ‘pigri greci’. Che la Grecia […] stia vivendo una crisi tremenda […] molti non vogliono vederlo” (p. 97)… Sulla Shoah in Epiro consiglio un altro testo di C.U. Schminck-Gustavus “Inverno in Grecia. Guerra, occupazione, Shoah, 1940-1944”, delle edizioni Golem Edizioni, Torino, 2015.

Ambra Cusin

Gennaio 2016

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