Cultura e Società

L’ora del mondo di M. Meschiari. Recensione di D. Federici

26/08/20
L’ora del mondo di M. Meschiari. Recensione di D. Federici

L’ORA DEL MONDO

di Matteo Meschiari

(Hacca, 2019)

Recensione a cura di Daniela Federici

 

“Che cosa possiamo lasciare

come strumento di resistenza

alle generazioni future?

La tecnologia, certo,

ma non sarà abbastanza.

Dobbiamo invece sviluppare

delle tecniche di resistenza mentale,

come la facoltà di immaginare,

la capacità di narrare storie alternative,

l’utopia di un mondo

che non si rassegna allo status quo.”

Matteo Meschiari La grande estinzione.

Immaginare ai tempi del collasso

 

“La corriera blu tormalina arrancava e tossiva giù per la valle dove la strada statale si arrotolava fra dirupi sbrecciati e declivi lividi di boschi. Da appena qualche giorno le faggete avevano indossato una sfumatura rossiccia perché le gemme si erano gonfiate ai primi soli e i torrenti della linfa avevano ripreso a premere contro i tronchi notturni. Le nevi disciolte sopra i campi in quota erano lacerti di tessuto consumati dal tempo e la corriera spariva e riappariva dietro i tornanti e tra i pendii irsuti per andare a dissolversi dietro l’ultimo versante con un leggero morbido ronzio.”

Libera è la bambina senza mano, abbandonata e cresciuta coi lupi, la destinata alla missione di ritrovare il mezzo Patriarca, fuggito il giorno della sua nascita e nascosto nella terra degli uomini. A lei, creatura selvatica che conosce un mondo e l’altro, che non teme il varcare le soglie e guardare al di là, il porre domande e attendere a lungo l’apparire delle cose invisibili, spetta di riunire ciò che della dualità si è spezzato, così che l’ordine di natura si ricomponga.

Se i Popoli antichi si dissolvono gli Umani perderanno ogni cosa. Senza di noi non sentiranno più nulla. Si chiuderanno in miliardi di scatole e questa volta per sempre. Il fuori resterà fuori. La molteplicità delle cose si azzererà. Il loro corpo sarà una coda del cervello. E non proveranno più niente.

Libera è un’aurora di anarchia. Entri nella testa della gente. E la gente si sveglia.

La guida l’Uomo Somaro, il Patriarca deputato a sorvegliare le difficili relazioni fra gli Umani e i popoli Antichi.

L’epica nell’incanto del paesaggio, fra Antiche divinità che nel trasogno ammaliano in diafana dissolvenza il rimandarsi muliebre fra corpo animale e corpo terrestre. S’incammina Libera, nei prati di pelliccia, lungo i muscoli dei versanti, fra il ruscellare delle piogge e le masse effusive delle argille, la luce che scende a sciabolate fra le nubi, il vento che pascola nelle valli, luoghi come un padre che nutre e una madre che insegna.

Rifugi. Pericoli. Piste. Attraversamenti. La vita come una mappa. La mappa come la vita.

In quelle terre Soprane dalle essenze incatturabili, a ricordarci chi siamo e senza alcun rimpianto chi non saremo mai, Libera perlustra con l’intelligenza dei piedi gli spazi dell’opporsi delle antiche ombre selvagge alle penombre umanamente dispotiche, dove le polveri sottili e l’incolmabile assenza di bellezza avvolgono il pensiero in una ragnatela che vanifica gli sforzi. Perché la libertà può non essere una lotta, ma un perdersi, come un addio.

Fra soglie taglienti – perché le cose serie hanno un prezzo – Libera si cura delle anime impigliate, perché trovino un ritorno dai pozzi profondi del loro vagare parvulo. Le anime, come la sua mano che non c’è ma che lei sente, sono così: le senti solo se sono tue. Altrimenti semplicemente non esistono. E dopo che le vedi, ci parli proprio.

Avevo bisogno di qualcosa di umano che mi aiutasse a uscire.

Anime di animali e uomini in processione, bambini venuti da chissà dove da chissà quali storie. A chi manca una gamba e zoppica, a chi un occhio o la parola, chi trema nel suo sacchetto d’ossa, ma ciascuno sorride e porta una lanterna. E Libera li accoglie tutti e dice loro cosa fare. Resistere. Lottare. Immaginare.

Un romanzo di formazione? Una fiaba che ammicca spessori agli adulti?

Matteo Meschiari è antropologo, geografo e scrittore molto abile a calare il suo sapere in una narrativa visionaria e poetica, plasmandone una storia allegorica, filosofica, con i richiami di una leggenda spirituale. Una scrittura musicale, evocativa di atmosfere, che coniuga piacevolmente l’amore colto per la parola con lo sguardo sapiente sui paesaggi. Da profondo conoscitore di mondi e culture, tesse gli scenari del presente risvegliando un’epica arcaica e la sua filigrana animista.

Perché è l’ora del mondo. Ora che i guasti del sistema Terra hanno assunto i connotati di una minaccia globale, che l’Antropocene, smantellato le nostre certezze egocentriche, ci ipnotizza con le sue fosche prospettive. Nello smarrimento di suggestioni apocalittiche, stentiamo a trovare una via percorribile per ripensare le azioni umane nella prospettiva del collasso ambientale: l’attesa del crollo che non arriva ha il potere di desertificare ogni oasi dell’immaginario (Meschiari, La grande estinzione. Immaginare ai tempi del collasso, Armillaria 2019).

L’umanità un po’ alla volta sta perdendo il suo sapere senza accorgersene, sostiene Meschiari, una de-evoluzione, una resa collettiva a modelli sociali semplificanti per la crescente incapacità di pensare. Se un motore di ricerca dice subito cosa c’è dietro la siepe, molto difficilmente andremo a vedere o proveremo a immaginare l’infinito, il possibile, l’insondabile che la siepe nasconde. È in questo atrofizzarsi che il nostro immaginario subisce le colonizzazioni di una realtà aumentata in fruizione passiva, perché non siamo più abituati a inventare e colmare vuoti, a rovesciare imprevisti e fare i conti con il senso, perché abbiamo dimenticato le nostre origini e fatto fuori l’irrazionale. Per rassodare la società si è demonizzato l’altro(ve), la selva, il nemico, lo straniero, il lato selvatico in ciascuno di noi, si è smesso di coltivare dubbi e considerare naturale pericoli e perdite, con problematici risvolti sul senso del limite.

Meschiari richiama anche la necessità di ripensare una pedagogia ortopedica che cresce miniadulti performativi e competitivi, dalla vita scandita di attività programmate senza zone di allentamento, angosciati dalla noia e dal vuoto come stasi improduttiva e non come motore di creatività; che potenzia l’insegnamento delle scienze a scapito delle materie umanistiche, che alimenta un pensare dicotomico piuttosto che l’esercizio di un pensiero critico, che abitua al consumo delle immagini invece che alla loro invenzione, spogliando il gioco del bricolage di combinazioni impreviste e sorgive, offrendo alle menti dei bambini la formattazione di un immaginario da riserva indiana, depauperando connessioni alle loro personali cosmologie (Meschiari, Bambini. Un manifesto politico, Armillaria 2018).

È l’ora di ridefinire il presente e la dialettica con l’ambiente anche attraverso una nuova grammatica dell’immaginario, un diverso repertorio di forme, perché letteratura e cinema non sono solo intrattenimento ma possono contribuire a un’altra densità di orizzonte, farsi pensiero in atto, risveglio di un’attitudine esplorativa.

La storia è un viaggio di guarigione, dall’insonnia, dal vicolo cieco della vita (Meschiari, Neogeografia. Per un nuovo immaginario terrestre, Milieu Ed. 2019).

La mitopoiesi è inventar favole, una pratica narrativa che combina miti antichi con nuovi archetipi, scenari, personaggi, che calata nella realtà la rielabora per conferirle una dimensione soprannaturale e simbolica. Immaginare serve a costruire rappresentazioni del mondo, delle relazioni, di sé. A moltiplicare scenari e alternative possibili. A fuggire dalla tirannia dell’adesso-qui, a criticarla, a rovesciarla. A pensare l’invisibile.

Perché avere luogo è dove le cose accadono.

L’immaginario come metodo, pratica, cultura, un fare politico, una forma di resistenza, una strategia di sopravvivenza. Fiction is action. Il pensiero utopico non è altro che la capacità di immaginarsi altrove, moltiplicare le visioni possibili, resistere all’appiattimento, alle negazioni, alla delega, all’ipnosi passiva del presente. È un gesto eversivo.

Ci sono testi che raccontano il mondo e testi che ti portano in un altro mondo.

È un libro che si ascolta e si cammina, che, come il gioco, è risonanze di esperienza incarnata che conduce oltre i territori noti, oltre il razionale, per visualizzare mondi invisibili, per coltivare lo sguardo sui paesaggi esterni e interiori.

È un progetto, un’ipotesi antropologica per contrastare il crollo dell’umano in questo tempo buio di finis terrae e ferocia sociale, che affida la speranza alla creatività e al meglio immaginare per tutti.

In questa epoca dove il disagio sempre più diffusamente si esprime nell’incapacità di simbolizzare, di pensare il proprio accadere e attribuirgli un senso, ritrovare il selvatico in un guscio di poesia, fa bene alla seele, per dirla con Freud.

Libera, nel suo lungo viaggio di ricerca, chiede la si sostenga; così golosi cartocci di che nutrirsi l’attendono in ogni rifugio. Difficile non pensare ai libri, a quel che sostenta le nostre capacità elaborative, alle forme che, lungo i margini del nostro psichismo, tentano una via di appropriazione, di appercezione creativa della selva oscura che ci abita.

 

Dossier Psicoanalisi e Guerre – gennaio 2014

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