Cultura e Società

“Nostalgia di infinito”. Recensione di Andrea Scardovi

30/04/19
"Nostalgia di infinito". Recensione di Andrea Scardovi

“Nostalgia di infinito. Esplorazioni psicoanalitiche sul sentimento oceanico”.

A cura di A. Cusin, L. Fattori, S. Messeca, M. Stanzione, G. Vandi.

GuaraldiLab ed., Rimini, 2018 

Recensione di Andrea Scardovi

 

Scrive Freud in una lettera a Marie Bonaparte del 1937: “Nel momento in cui ci si interroga sul senso e sul valore della vita si è malati, giacché le due cose non esistono in senso oggettivo; si è solo riconosciuto che si ha una provvista di libido insoddisfatta, e che qualcos’altro deve essere avvenuto ad essa, una specie di fermentazione che porta al cordoglio e alla depressione”.

Con queste parole tecniche e dolenti Freud raccontava il proprio stato d’animo in vista di una fine ormai prossima, esprimendo al contempo il modo in cui ha sempre inteso la sua ricerca, volta a smascherare gli infingimenti con cui ci difendiamo dal sentimento della nostra caducità.

Sono parole che ci avvicinano a un dilemma. Se interrogarsi sul senso e sul valore della vita è una malattia, non dobbiamo riconoscere che questa ‘malattia’ riguarda un aspetto essenziale della nostra natura? Da un lato vogliamo ricercare una verità senza infingimenti, dall’altro riconosciamo che ‘senso’ e ‘valore’ sono sentimenti che riguardano il Sé e il suo costituirsi, non risolvibili in una oggettivazione. Di certo riflettere su temi così ampi richiederebbe altri contesti, eppure questo problema del senso posto al confine fra ‘natura’ e ‘spirito’, fra oggettivazione conoscitiva e sentire intimo, mi sembra una premessa essenziale per recensire il libro intitolato: “Nostalgia di infinito. Esplorazioni psicoanalitiche sul sentimento oceanico”.

Si tratta di un volumetto che riprende alcuni lavori presentati a un convegno tenutosi a Bologna nel 2017, i cui autori appartengono al gruppo “Psicoanalisi e Fede” – un gruppo di ricerca che in quindici anni di attività ha organizzato diverse giornate di studio, recentemente confluite in altre pubblicazioni: “Psicoanalisi e Fede. Un discorso aperto” FrancoAngeli, 2017; “Oltre. Il senso di infinito a partire dal sentimento oceanico”, Alpes, 2019.

Il libro consiste di contributi che appaiono fra loro eterogenei, fra i quali non è immediato rintracciare una linea specifica, ma se lo si legge con lo spirito con cui si partecipa a un convegno l’impressione che se ne ricava è che si tratti di un libro ‘germinale’, che offre una quantità di spunti che trovano valore a seconda del loro sviluppo successivo.

Una prima domanda che sembra accomunare questi spunti è se abbia senso, oggi, occuparsi del ‘sentimento oceanico’. In un tempo in cui la psicoanalisi si confronta con psicopatologie tanto mutate rispetto ai suoi inizi, e approfondisce gli aspetti evolutivi della prima infanzia in un crescente intreccio con le neuroscienze e altre discipline, ha ancora senso, e valore, riflettere su concetti così vicini all’ambito della religione e della mistica, come sono quelli del sentimento oceanico e dell’infinito? Come scrivono i curatori nella presentazione del volume: “Mentre Freud aveva messo sullo stesso piano la fede e la religione, intesa come complesso di dogmi, precetti e riti, oggi la distinzione tra fede e religione è data quasi per scontata e la ricerca intorno ai valori della vita, al senso dell’esistenza e al sentimento della fiducia nell’altro, entra a pieno titolo nella stanza d’analisi” (p. 9).

Nel capitolo con cui si aprono i lavori, Maria Stanzione ci ricorda che “con l’ardita trasposizione dell’aggettivo ‘oceanico’ nel campo psicoanalitico, dunque nell’impianto metapsicologico” si realizza un “dialogo tra due ambiti conoscitivi piuttosto antitetici e contrassegnato, negli anni passati, anche da gravi e reciproci pregiudizi, arroccamenti e difese” (p. 17). È una contrapposizione che riguarda intimamente la pratica analitica, da sempre a ponte fra scienze della natura e scienze dello spirito – fra realtà del corpo e capacità di dare nome alle emozioni.

 

Stanzione centra il discorso sulle esperienze di cancellazione delle frontiere fra interno e esterno che trovano riscontro nelle grandi narrazioni della letteratura, ma anche nel pensiero degli analisti successivi a Freud. Accenna così alla “regressione talassale” di cui ha parlato Ferenczi, evocando il legame simbolico fra il corpo materno, la ‘madre terra nutrice’ e l’oceano. Ricorda l’idea di Balint di un individuo che cerca di ritrovare la condizione di armonia dello stato fetale attraverso l’orgasmo, la creazione artistica e l’estasi religiosa. Riprende aspetti preziosi del pensiero di Marion Milner che svilupperà l’idea, già accennata da Fenichel e che poi diventerà winnicottiana, del mondo come creazione del soggetto.

Milner ipotizzò una sorta di ‘stato oceanico’ in cui i confini interni fra Io e oggetto sono annullati, non limitatamente alla ‘stagione prima’ dell’individuo. Nel suo pensiero infatti la fusionalità non costituisce solo una regressione difensiva, ma rappresenta “un’essenziale fase ricorrente nello sviluppo di un rapporto creativo col mondo” (Milner, 1992).

Lo stesso Freud aveva definito il sentimento oceanico “in termini di sopravvivenza di elementi precedenti”, ma nel “Disagio della civiltà”, lo scritto in cui confluiranno le riflessioni maturate nello scambio epistolare con Roman Rolland, esprimerà l’idea che non si tratta soltanto di una realtà regressiva, ma di una dimensione primaria dello psichico legata all’esperienza lungo cui la soggettività dell’individuo viene a formarsi, e poi a riproporsi.

Come ricorda Sophie De Mijolla, nel suo capitolo denso e articolato, da un lato Freud scrive nel “Disagio” che “la patologia ci fa conoscere un gran numero di stati in cui la delimitazione dell’Io nei confronti del mondo esterno diviene incerta” (Freud, 1929, p. 559); dall’altro affronta la metapsicologia di queste condizioni dicendo che per evitare il dispiacere di una mancanza primaria il lattante vive il suo Io come un’Io-piacere puro, al quale si oppone un ‘fuori’ estraneo e minaccioso. Si evince qui che l’oceano è ‘dentro’, e che “il nostro attuale sentimento dell’Io non è quindi che un resto raggrinzito di un sentimento […] esteso addirittura a tutto e che corrisponderebbe ad una unione più intima dell’Io con il mondo circostante” (Freud, 1929, p. 560). Coerentemente con questo passaggio Freud scriverà, in una delle sue ultime lettere a Rolland, di avere inteso come l’intuizione della mistica potesse fornire elementi preziosi per “una embriologia della psiche” (Freud, 1930). Secondo De Mijolla il sentimento oceanico rimanda a forme arcaiche di funzionamento psichico inadatte a rappresentazioni di parola, ma che concorrono alla capacità di fondare invenzioni poetiche e costruzioni utili al pensiero. Occorre però distinguere le condizioni di ‘dis-integrazione’, che stanno alla base delle psicopatologie, dagli stati di ‘non integrazione’ che entrano in gioco invece nel processo creativo, e avviare in questo modo una riflessione sulle correlazioni fra sentimento oceanico e vita prenatale.

In un passaggio concettualmente delicato, ma dall’indubbio potenziale euristico, De Mijolla esplora quale rapporto possa intercorrere fra il vissuto oceanico e alcuni vissuti autistici. È in gioco il tema del ‘sostegno’ che l’infans trova nel suo ambiente, e quello dei movimenti che può compiere anche grazie ad esso, nel vivere il senso di un sé nascente. Questi due lati del costituirsi dell’individuo sembrano avvicinarsi nella condizione dell’essere cullato, come se questo moto ondoso che oscilla fra sé e oggetto evocasse l’idea di una auto-percezione, una propriocettività che coniuga fra loro oggetto e pulsionalità – ma anche relazione, senso dei confini e ‘finitezza’.

Emerge così l’idea del sentimento oceanico come risultato “di un processo più che come un dato primario” (p.30), un’idea che sembra richiamare quanto accennato da alcuni autori italiani, citati da Stanzione, fra i quali Fachinelli, Di Benedetto, e poi Gaburri ed Ambrosiano che già parlarono del sentimento oceanico come di una “funzione della mente” (p. 26).

L’autenticità del sentimento oceanico si giustappone dunque al sentimento dell’Io della maturità, ma nel pensiero di De Mijolla viene a costituire un elemento di ‘apertura della psiche’, rimanendo sempre suscettibile di essere richiamato in circostanze appropriate e, come vedremo, in determinate condizioni di lavoro.

È un’apertura che si affaccia sull’ “oltre” di cui ci parla il capitolo di Boccanegra, che ci avvicina a poter pensare il sentimento oceanico come un elemento che interviene nelle pratiche di gruppo.

Il discorso di Boccanegra parte da lontano ricordando le storiche esperienze con Resnik, intervenute nella stagione in cui la psicoanalisi contribuì a promuovere il lavoro in equipe nella gestione clinica delle psicopatologie. La situazione della ricostruzione del caso clinico in gruppo produce effetti concreti nei componenti di una equipe che “si trovano ad essere modificati dalle trasformazioni fornite dall’impatto emotivo con la dimensione psicopatologica, percepita dal vivo” (p. 50). Essa permette un tipo di contatto fra i partecipanti al gruppo che può portare al generarsi di una prospettiva, di un ‘oltre’ che singolarmente non si sarebbe riusciti a raggiungere, e che nel suo istituirsi comporta un processo di trasformazione.

Leggendo queste note mi viene naturale pensare a un ‘oltre’ molto attuale, quello che sta portando analisti di diversa provenienza teorica, geografica e istituzionale, a lavorare insieme vivendo nuove pratiche di ascolto e anche di conoscenza. Mi riferisco alle esperienze dei gruppi interanalitici che negli ultimi anni hanno trovato spazio costante nei congressi FEP e IPA, e recentemente anche nelle attività di ricerca promosse dalla SPI. Mi piace pensare che nel percorrere queste nuove strade della nostra vita scientifica e istituzionale si stia schiudendo un varco, e che esso corrisponda a quello di cui scrive Rita Corsa nel suo prezioso capitolo dedicato alla speranza, in cui parla di “uno squarcio attraverso cui la psicoanalisi contemporanea sta cominciando a transitare” (p. 57). Lo sguardo di Rita Corsa, attenta alla storiografia nel cogliere le ragioni intime dei nostri stessi passaggi di pensiero, contribuisce a farci intravvedere una prospettiva specifica, forse una stagione nascente del pensiero e delle pratiche analitiche, in cui queste esperienze di confronto possono risultare inedite non tanto perché istituiscono analisi diverse dal passato, ma perché considerano effetti e direzioni che possono generarsi nell’originarietà dell’esperienza di cui consistono tanto l’incontro clinico quanto quello interanalitico. È una speranza che riguarda il rapporto fra cura e conoscenza; l’idea di una conoscenza fondata sulla cura.

Ripercorrendo, in conclusione, questo libro, mi sembra di intravvedere un filo che ora lo attraversa, una ‘rotta’ che collega l’introduzione, redatta da Luisa Masina, con le parole di Guelfo Margherita che fungono da chiosa del volume. Masina propone infatti una toccante citazione di Paolo Rumiz che ricorda i diversi modi della Grecia antica di nominare il mare. Da ‘pelagos’, spazio abissale e aperto, a ‘zalassa’ – come nella visione dell’anabasi in cui il mare è ciò che si raggiunge dopo aver percorso la terraferma; da ‘hals’, il mare come materia salata che si contrappone all’acqua dolce, per arrivare a “pontos”: il mare come rotta e traversata (p. 12).

Sono termini che evocano spazi immensi e, insieme, la possibilità di percorrerli in una navigazione che non rimanda a generici processi integrativi, ma a una continuità fra ciò che è già passato e ciò che ancora non è stato, ma può arrivare ad essere. Per questo, credo, Guelfo Margherita chiude i lavori proposti in questo libro con un poemetto i cui versi lambiscono, come onde sparse, molte e diverse ‘coste’. Dai processi di trasformazione degli assunti di base, a quelli che arrivano a toccare la vita dell’istituzione psicoanalitica; da una “funzione analitica quotidiana” (p. 72), alla possibilità di pensare il mondo interno “come un’emozione non solo da descrivere, ma anche da vivere, rivivere, convivere” (p. 80). Sembra trattarsi, nelle parole del suo stesso autore, di un “dialetto artigianale”, un esempio di idioma idiosincratico che proviene da una tradizione di pensiero, ma al tempo stesso si affaccia sul domani e si dispone a percorrere “sempre orbite nuove”.

 

Bibliografia

 

Fattori L., Vandi G., (2017) “Psicoanalisi e Fede. Un discorso aperto” FrancoAngeli, 2017

Freud S. (1929) “Il Disagio della Civiltà”, OSF vol. 10

Freud S. (1930) “Lettera a R. Rolland, 19 Gennaio 1930” In “Epistolari. Lettere alla fidanzata e ad altri corrispondenti 1873-1939”. Bollati Boringhieri, Torino, p. 327

Freud S. (1937) “Lettera a M. Bonaparte, 13 Agosto 1937”, In “Epistolari. Lettere alla fidanzata e ad altri corrispondenti 1873-1939”. Bollati Boringhieri, p.365

Milner M., (1992) “La follia rimossa delle persone sane”, Borla, Roma

Cusin A., Fattori L., Stanzione Modàfferi M., Vandi G., (2019) “Oltre. Il senso di infinito a partire dal sentimento oceanico”, Alpes Italia, Roma

 

 

 

 

 

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