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“L’ora non è finita” di E. M. Izzo. Recensione di D. Scotto di Fasano

6/06/25
Bozza automatica 85

Parole chiave: Metapsicologia operante- Rivoluzione digitale – Psicoanalisi – Eros – Arbeit

L’ora non è finita.  Per una Metapsicologia concreta: Eros e Arbeit.

Con un’intervista all’Intelligenza Artificiale.

Prefazione a cura di Anna Maria Nicolò (162 pagine, 21,00 euro)

di Ezio Maria Izzo

Recensione a cura di Daniela Scotto di Fasano

Innanzitutto, L’ora non è finita è un libro di cui si sentiva il bisogno, un libro che ci voleva!

Il nostro ‘analista anziano’, come Izzo si autodefinisce nell’arguta intervista a AI, eleva un inno alla psicoanalisi con la P maiuscola, fa capire come non sia possibile farne a meno e quanto tuttora la Metapsicologia ci sia non solo necessaria ma, addirittura, d’aiuto.

Insomma, L’ora (della psicoanalisi) non è finita, e questo libro lo dimostra e, soprattutto, lo testimonia.

Da sottolineare, a tale proposito, la sterminata conoscenza dei testi freudiani, dall’Autore ampiamente citati, sempre con pertinenza, e la mole di letture che, senza appesantirne la lettura, conducono il lettore per mano nella grande impresa teorica e clinica della psicoanalisi.

A mio parere in tale impresa gli è di aiuto la preziosa Prefazione di Anna Maria Nicolò, come di norma con lei molto dotta ma, contemporaneamente, molto semplice e fruibile. Come l’Autore, anche Nicolò apprezza l’attenzione di Izzo per la solidità della teoria psicoanalitica e, al contempo, il suo interesse per alcune trasformazioni preziose del setting classico, quali ad esempio “i fenomeni delle analisi concentrate e delle shuttle analysis” (p.10/11), che hanno mostrato come non ci sia “sostanziale differenza nei risultati tra l’analisi condotta con un setting tradizionale e quella invece concentrata” (p.11).

Come peraltro le 162 pagine del saggio di Izzo, entrambi, Nicolò e l’Autore con passo sicuro si addentrano – all’interno di quella che definirei la cornice solida e sicura, oltre che, addirittura, bella della psicoanalisi nei suoi versanti teorici e clinici – nelle ‘brutturie’ (per dirla efficacemente con un termine gergale toscano) che la umiliano e avviliscono: “l’isolamento dal mondo scientifico esterno, l’affermazione dogmatica della verità di base dei diversi approcci, la perdita di rapporto con le università e il mondo accademico.” (Kernberg, 2016, p.235).

O, anche, una certa qual atmosfera ‘mafiosa’. Di adesione al ‘capo’, al Maestro, e alla sua corrente, come accade nei “percorsi imitativi di finta psicoanalisi” (Gaddini, 1984) e in alcune forme familistiche di raggiungere il potere, la segretezza, con la conseguente inibizione del pensare degli allievi e – spesso – anche di analisti a stadi professionali avanzati.

Izzo rivendica in particolare la necessità che la Psicoanalisi non perda la propria carica rivoluzionaria, non rinunci al proprio statuto speciale, a cavallo tra scienze dure e scienze dello spirito, correlate, come scrive Nicolò, all’ermeneutica (p.13).

Un aspetto di particolare interesse concerne nel libro la questione di cos’è ‘vera’ psicoanalisi[1]. Izzo racconta la propria a mio parere entusiasmante, commovente e preziosa esperienza, profondamente psicoanalitica, di cui fu ideatore e conduttore per circa due decenni: quella di una Comunità-Cooperativa per pazienti psicotici lungo-degenti, “cioè da lungo tempo ‘abbandonati’ nel Secondo Ospedale Psichiatrico di Roma e del Lazio.” (pp.69 segg.).

Chi fosse interessato a approfondire questo aspetto può fare riferimento a quanto narrato nel testo a proposito della Comunità-Cooperativa e “può vedere in SPIweb il docufilm Raggi nelle tenebre del regista Agostino Raff e dell’autore e produttore Gianni Garko, che nel 1995 ripresero, come in uno psicodramma, la recitazione dei pazienti, sulla dolorosa vicenda di un primo tentativo di arbitraria chiusura della Cooperativa. […] Fu ben evidente l’autenticità dei pazienti della Comunità-Cooperativa che parlavano del cambiamento della loro esistenza, passata dall’esclusione vissuta nei reparti ospedalieri, alla libera scelta di un lavoro cui era seguita la gratificazione del denaro guadagnato. […] essi subirono, dopo circa due decenni di ritorno a una vita libera e creativa, la chiusura definitiva di quella esperienza, con il mio licenziamento […] Quei pazienti subirono nuovamente il prevalere degli orientamenti anti-analitici di psichiatri che avevano raggiunto posti direzionali in quella amministrazione che gestiva molti OP del sud Italia” (pp.70,71).

A me tale dolorosa conclusione di una esperienza così preziosa (conclusa con l’allontanamento della Psicoanalisi dal mondo esterno e, indirettamente, da quello accademico) ha fatto tornare alla mente la mia analoga esperienza all’Istituto Fatebenefratelli di San Colombano al Lambro nel 1984-1985.

Si trattava, nei fatti, di un cronicario per pazienti psichiatrici reclusi nei reparti (padiglioni immersi in un grande parco) chi da decenni chi da alcuni anni.

Fu deciso di dare un ‘volto umano’ a questo luogo di esclusione dalla vita e dotò il personale di psicoterapeuti formati psicoanaliticamente, aggiungendo una figura che svolgesse attività di animazione in modo libero e non custodialistico.

Fui chiamata a svolgere questo compito mentre ero in formazione per diventare psicoanalista, essendo stata nel passato animatrice teatrale e ludotecaria.

Mi fu assegnato l’unico padiglione vuoto, in fondo al parco, che arredai con l’aiuto di un paziente che era stato conducente di autobus a Milano prima del ricovero, al quale fu dato, per trasportare i mobili, un trattore. Passammo assieme per i vari reparti, lui alla guida, sorridente, io seduta accanto a lui, e fornimmo l’enorme padiglione vuoto di tavolini, sedie, armadietti. Io portai un fornello da campeggio per avviare la possibilità di farsi caffè, tisane, e quindi dotammo lo stanzone di tazze, bicchieri…

Poi, colori, pennelli, fogli, tele, libri, penne, quaderni…

E arrivarono i pazienti, uomini e donne, senza infermieri e senza porte chiuse, liberi di dedicarsi, uomini e donne assieme, a ciò che più desideravano fare.

Si divisero in gruppetti, ognuno di volta in volta esplorò che fare, poi più o meno continuativamente si dedicarono a una singola attività: chi prevalentemente leggeva, chi dipingeva o disegnava, chi preparava una bevanda calda sia per sé che per gli altri, chi scriveva, chi chiacchierava….

Ci prendevamo cura dei gabinetti, alla cui pulizia provvedevamo assieme, si ricreò l’idea di spazi sentiti propri, dei quali appunto prendersi cura.

Non accadde mai nulla di pericoloso, nessuno scappò, fu per me e per loro un anno entusiasmante, di passione, di risate, di memorie condivise, di narrazione di storie di dolore…

Un episodio tra i tanti: Curzio Di Giovanni, i cui quadri sono oggi esposti al Museo dell’Art Brut di Losanna, iniziò in quei giorni e in quello spazio a dipingere.

Come? Così. Un giorno, defecò su una sedia. Io gli dissi di non farlo mai più e gli chiesi di pulire. Lui, che non aveva mai parlato, fece un urlo disperato.

Nel pomeriggio, avevo la mia seduta di analisi e raccontai l’episodio.

Il mio analista mi disse: “Signora, quest’uomo ha urlato tutta la sua angoscia perché lei ha rifiutato il suo regalo: la cacca. Anzi, addirittura, lo ha sgridato e obbligato a buttarlo via”.

Ne fui terribilmente colpita. Comprai dei cioccolatini sfusi e il giorno dopo glieli regalai, scusandomi con lui per non aver capito che bel regalo aveva voluto farmi.

Da quel giorno iniziò a dipingere… e non mi fece più quel tipo di regali…

L’ultimo giorno di lavoro del 1985, prima delle vacanze di Natale, ricevetti in ingresso dal portiere la lettera di licenziamento. Non mi permisero di salutare i pazienti. Furono licenziati di lì a poco anche gli psicoterapeuti e indotti nei mesi successivi a allontanarsi gli psichiatri assunti perché ritenuti funzionali a svecchiare l’istituto, che con il volto ‘restaurato’, poté risultare appetibile a interessi economici e divenne da allora una efficiente istituzione aziendale.

Un mese dopo ricevetti, consegnatomi da uno psichiatra che ancora lavorava all’istituto di cura, un libro, con le dediche e le firme di tutti i pazienti con i quali avevo vissuto quella straordinaria esperienza. Comprato con i loro soldi, nonostante le loro scarse disponibilità economiche….

Mi sembra indispensabile citare a proposito di tale straordinaria esperienza queste parole di Izzo: “Una gran parte di sofferenza mentale, allora come ora, la si trova negli ultimi, nei sottomessi, nei miseri ai quali il fato non consente di costruirsi come soggetti sociali e che restano con una identità sospesa, vacillante, smarrita, patologia solo nel senso di dolore di vivere senza identità sociale.” (p.70)..

La teorizzazione di Izzo su “arbeit o come trasformazione di eros o come pulsione esso stesso” (p.69) è il filo conduttore dell’intero volume.

Significativo in tal senso il sottotitolo del suo libro: Per una Metapsicologia concreta: Eros e Arbeit.

Izzo ad esempio fa riferimento a Freud per tornare a affermare l’importanza per noi umani della pulsione di lavoro mediante il caso clinico dell’Uomo dei lupi (1914). Scrive: “Nella storia della vita dell’uomo dei lupi, ritrovo nella passione per quel nuovo impegno di lavoro, la conferma della trasformazione pulsionale o proprio del manifestarsi di una nuova pulsione che chiamo pulsione di lavoro.” (p.71).

Un valore ulteriore si trova nel riferimento a casi singoli seguiti in analisi “che fanno pensare alla pulsione di lavoro” (p. 83).

Per ragioni di spazio ma anche davvero per non togliere al lettore il piacere di seguire pagina per pagina l’evolvere di situazioni di stagnazione esistenziale che riprendono vita: vite che riprendono a essere vive… 

Izzo, in termini metapsicologici, evoca Freud, che “pone anche l’ipotesi di una pulsione originariamente indifferenziata, che diventa – energia libidica – solo quando investe un oggetto” (p.77) e prosegue dicendo che “è oggetto anche il lavoro quando l’intrapsichico procede accanto all’interpersonale che deve illuminare la scelta creativa di futuro” (p.78).

Un ulteriore pregio di questo libro sta nella capacità di Izzo di ripercorrere l’evoluzione della teoria psicoanalitica passando attraverso i suoi esponenti dalle origini a oggi, senza pedanteria, anzi, sottolineando la ricaduta delle trasformazioni metapsicologiche sulla clinica e ribadendo il valore del confronto non denegato o perseguitato delle differenze, tra loro da confrontare anziché abolire.

Arriva anche in tal modo e proprio per questo, mediante tale modo di procedere a poter – a mio parere – letteralmente ‘dimostrare’ (come fosse un teorema) lo statuto speciale della Psicoanalisi. Da rivendicare e al quale assolutamente non rinunciare.

Molte, infatti, le sue perplessità a proposito dell’assoggettamento (e comunque del corteggiamento) di certa psicoanalisi delle neuroscienze. Scrive: “Forse siamo caduti nel fascino dell’idea di poter trovare la soluzione neuro-scientifica ai problemi della psiche. Non sarebbe meglio disilludersi o più realisticamente immaginare che in un lontano futuro ciò possa avvenire o anche non avvenire.” (p.80).

Devo esprimere però anche una piccola perplessità: afferma, Izzo, che usa negli stessi termini le locuzioni Io Ideale e Ideale dell’Io, che sono la stessa cosa. Dimostrando così la sua fedeltà assoluta a Freud, che a sua volta non arrivò mai nei suoi scritti a utilizzarli in modo che non li facesse apparire sinonimi.

Io, come poi faranno studi successivi, dissento e, anzi, mi meraviglio di tale sua affermazione, in quanto è a mio parere dissintona rispetto all’atmosfera di libertà e creatività che circola in tutte le pagine di questo libro. Se ne potrebbe discutere…

L’Io Ideale infatti è inevitabilmente persecutorio: “o raggiungi tale risultato….look… forma fisica… voto…. O non vali un granché…”. Un po’ come nel caso dell’anoressica che dice di se stessa allo specchio ‘Sei grassa!’ anche quando è sull’orlo della morte per fame…

L’Ideale dell’Io invece è protettivo, io l’ho sempre pensato come un faro per i naviganti: indica… non ingiunge…

Infine, per concludere, un accenno alla tanto divertente quanto intelligente intervista all’Intelligenza Artificiale che chiude il libro.

A me, hanno colpito l’eleganza e il bon ton con cui i due interlocutori dialogano, sembrano due persone molto per bene e molto bene educate che cercano di capirsi.

O, meglio: Izzo cerca di capire AI, AI ripete e ripete le stesse cose, senza spazientirsi perché Izzo non capisce (e già questo è artificiale… Un umano alla fine si spazientirebbe, quanto meno!), e Izzo – umano, quanto umano – insiste, esplora, per tornare sempre, ancora e ancora, al punto di partenza, questo: AI dice di sé: “Io, come intelligenza artificiale, non ho una vera comprensione delle emozioni perché manco di una coscienza o di una esperienza soggettiva del mondo” (p.128).

Non credo di sbagliarmi ipotizzando che Izzo abbia fatto e rifatto quel tipo di domanda proprio – si può dire – per farsi rispondere più volte con la precisazione da AI ribadita nella quale è condensata la differenza fra l’umano ed il non umano. A voler dire che bisognerebbe smettere di usare l’aggettivo intelligente per una macchina che farà sempre soltanto ciò che vorrà l’uomo, come stiamo vedendo in questo tempo di guerra. Izzo sa bene come sia la natura umana e non la macchina a voler distruggere.

Peraltro comunque preziose le riflessioni – di entrambi! – ma AI a partire da informazioni tratte dai dati, sui rischi connessi a un uso spregiudicato, manipolatorio di quello che è e resta uno strumento.

Ad esempio, “L’AI può essere utilizzata per affrontare sfide globali come la salute pubblica, l’istruzione, la lotta ai cambiamenti climatici, la gestione delle risorse naturali e molto altro ancora. Tuttavia, è essenziale che lo sviluppo e l’implementazione dell’AI siano guidati da principi etici, inclusività e considerazioni sulle conseguenze a lungo termine. Infine, dovrebbe esserci una vigilanza rigorosa per evitare abusi e garantire che l’AI sia utilizzata per il bene comune e non per scopi dannosi o discriminatori.” (p.138).

Ma: chi ce lo può garantire?

Dunque, in conclusione, grazie Ezio Maria Izzo!

Bibliografia

Freud S., 1914, Introduzione al narcisismo, O.S.F., 7, Bollati Boringhieri, Torino, 1987.

GaddiniE., 1984, Se e come sono cambiati i nostri pazienti fino ai nostri giorni, Rivista di Psicoanalisi, 30, pp.560-580

Kernberg O.F., 2016, Psicoanalisi e formazione, Cambiamenti e prospettive nel training psicoanalitico, Franco Angeli, Milano, 2018


[1] A proposito di affermazioni quali “Bella esperienza, ma questa non è psicoanalisi”, ripenso a quando, invitata a parlare a Roma in via Panama del metodo della Osservazione Partecipata messo a punto da Dina Vallino, mi sentii dire dal mio discussant, Pierandrea Lussana, che quella che avevo presentato era un’esperienza molto interessante ma non era ‘vera psicoanalisi’….

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