Cultura e Società

“Bambini nel tempo” di I. McEwan. Recensione di D. Federici

4/11/21
"Bambini nel tempo" di I. McEwan. Recensione di D. Federici

Bambini nel tempo

di Ian McEwan (Einaudi, 1988)

a cura di Daniela Federici

Si guarisce da una sofferenza solo a condizione

di sperimentarla pienamente.

Proust La fuggitiva

Stephen era sempre attento a registrare la presenza di bambine intorno a sé, “era qualcosa di più di un’abitudine, perché le abitudini si possono anche interrompere. Questa era una disposizione radicata, l’impronta indelebile che l’esperienza aveva lasciato su un’indole”. Da quando Kate non c’era più, non poteva fare a meno di cercarla nelle altre. Un tempo aveva avuto le caratteristiche di un’ossessione, ora era un cronometro biologico impassibile nella sua inesorabilità che consentiva a sua figlia di crescere e a lui di immaginare com’era diventata e cosa stesse facendo. Quella crescita fantasmatica generata dalla sofferenza, era diventata per lui l’essenza stessa del tempo, non era soltanto ineluttabile ma necessaria. Se avesse smesso di fantasticare sul suo esistere ancora, sarebbe stato perduto, il tempo si sarebbe fermato, gli sarebbe rimasto solo un sepolcro di macerie: il padre di una bambina invisibile. 

Non c’è nome per la perdita di un figlio.

La parola Vilomah, dal sanscrito, significa disordine, caos, letteralmente: “contro l’ordine naturale”.

McEwan ha una particolare maestria a dipingere il nostro essere fatti di momenti, per dirla alla Proust. La piccola Kate viene rapita mentre è con il padre alla cassa del supermercato: l’apnea diaccia di Stephen nel cercarla, nell’interloquire con commessi e poliziotti, lo straniamento terreo con cui si incammina verso casa per dire alla moglie che ha perduto la loro bambina, è una scena che arriva dentro come un colpo e lascia raggelati.

Intorno a quell’istantanea della catastrofe, McEwan tesse una scrittura sonnambolica, dilata divagazioni a tratti cavillose sull’Inghilterra thatcheriana, su una politica sbirciata nelle sue ipocrisie, vizi e contraddizioni, con le sue logiche distanti dai problemi reali, il cinismo e la fatuità verso le categorie dei fragili e degli indesiderabili.

Stephen è divenuto per caso uno scrittore di successo di libri per ragazzi, e per quell’esperienza è chiamato in una commissione governativa sull’educazione dell’infanzia. Quelle riunioni offrono all’Autore l’occasione di tratteggiare uno spaccato sull’inedia del contesto politico e insieme un affresco sull’interiorità del suo protagonista, perché quella bruma di sfondo che ottunde il lettore echeggia una mente non più del tutto presente a se stessa, sospesa nell’aridità delle chiacchiere vuote, incapace dell’energia necessaria a sostenere un pensiero e impaziente di ritrovare il proprio eremitaggio. Il sincopare dello sviluppo narrativo risuona la frattura insanabile in Stephen di fronte all’insulto dell’arido compiersi delle cose, dell’indifferenza del mondo verso le loro vite violate.

“Non disponeva di una destinazione nello spazio come nel tempo; mentre avanzava con tanta furia restava fermo, seguitando a schiantarsi intorno allo stesso punto.”

McEwan segue il travaglio interiore del suo protagonista con brevi digressioni, sul silenzio fitto che si insinua fra lui e la moglie, lungo la china delle mutue intolleranze, nel pantano di uno stare insieme che accresce il vuoto. Julie si chiude nel venir meno di ogni volontà, la loro casa si ammala dei segni dell’abbandono che la consuma e da cui fuggirà. Stephen si anestetizza nel fare e in una ricerca che è come una fame molesta, un congegno potente come un cuore, l’incessante ipoteticità con cui mira a esaurire l’incertezza, la sottile membrana semiopaca che lo divide da una figlia che sta cercando il suo papà.

Un naufragio il suo assillo a riandare a quella giornata per trovare ogni bivio che avrebbe potuto indirizzarla in modo diverso, la mente che deraglia sullo spreco dei giorni di possibilità inespresse, di orizzonti d’attesa e progetti mutilati, del tempo del futuro di Kate che non avrà.

“… quella debolezza che impedisce di conservare la linea di confine tra il mondo com’è e come si desidera che sia. Non essere debole, si ripeteva, cerca di sopravvivere. Butta via quella carta, non franare nelle fantasticherie, non prendere quella china. Potresti non tornare più indietro. E resisteva, ma non poteva impedirsi di desiderarlo”.

Ogni elemento della narrazione pare a servizio della disamina dell’umano che cerca di tenere dentro il vuoto senza soccombervi. Come per la figura ambigua di Charles, amico che si esilia dalla scena pubblica per seguire la delirante pretesa di spensieratezza che è fuga dal tempo, non un capriccio occasionale ma una fantasia devastante. Eppure è dalla sua voce che Stephen comprende il senso del libro che lo ha reso famoso, un conosciuto non pensato che ora si curva su di lui come una volta celeste precipitata.

La prima spettrale allusione alla mortalità. Quel libro lo hai scritto per il te stesso bambino, gli dice Charles, ti sei rivolto direttamente ai bambini per comunicare loro che l’infanzia non è per sempre: “li hai messi di fronte a qualcosa di sconcertante e di triste riguardo ai grandi, a chi ha cessato di essere bambino. Un senso di aridità, di impotenza, di noia, di rassegnazione. Con te hanno capito che tutto questo attende anche loro.” È un libro che fa comprendere le responsabilità verso i propri desideri, che mette in guardia contro ciò che dentro si fa ossessione per l’elusione di scavarlo a fondo e per l’affanno a tenere a bada le proprie debolezze, quel che rende incapaci di cogliere la vita che poi si rimpiange. Uno scambio fra i personaggi che è specchio per il lettore.

Il tempo presente e il tempo passato

son forse presenti entrambi nel tempo futuro.

E il tempo futuro è contenuto nel tempo passato.

(Eliot, Quattro quartetti)

Calato nei labirinti del dolore, nel lento abbandono ai flutti del lutto, Stephen ritrova il pensiero e i modi che ha l’anima di far fronte all’umana sfida del vivere.

“La parola scritta può essere proprio il tramite attraverso cui il sé entra in contatto col mondo esterno. È per questo che la migliore letteratura per l’infanzia reca in sé una caratteristica di invisibilità, la capacità di penetrare direttamente le cose che nomina e, attraverso metafore e immagini fantasiose, di evocare sensazioni, odori, impressioni assolutamente ineffabili. La parola scritta non è meno legata a ciò che nomina di quella orale.”

Come le parole scritte intorno alla sfera magica del negromante, le preghiere sulle tombe, la maiuscola per il nome di Dio: “La parola scritta è una parte del mondo in cui si desidera dissolvere il proprio sé infantile. E sebbene descriva quel mondo, non ne è separata. Pensate con quanto piacere un bimbo si abbandona completamente al fascino di un romanzo di avventure. Quel che vede non sono parole, segni di interpunzione o regole grammaticali, ma la barca, l’isola, il losco figuro che si nasconde dietro la palma.”

“Un bambino che sappia leggere detiene un potere che gli conferisce fiducia in se stesso.”

Stephen lentamente si ritrova, il brusio sterile torna a farsi senso, direzione. Parla ai politici come scrittore, illumina l’importanza della fantasia, la sua creatività vivificante e le sue possibilità di cura. L’Autore da voce alla propria arte, a ciò che questa può sulle ferite e nei luoghi fuori del tempo.

“Una bambina, leggendo, si sente dentro una voce.”

Oggetti interni, il nostro cuore pulsante, una figlia da ricomporre in sé e poter piangere.

“Non si può ricreare ciò che si ama se non rinunciandovi”, fa dire Proust a Elstir nella Recherche, dall’artista al Narratore, dall’opera che simbolizza, sublima, ripara, alla consapevolezza riflessiva.

Un finale fabulatorio, sospettosamente sentimentale, ma che intreccia la capacità di fare il lutto con il poter rischiare la speranza.

Bambini nel tempo è uno dei più bei libri di McEwan, dove la sua raffinatezza stilistica e lo scavo psicologico dei personaggi sono a servizio di un impensabile fra i più dolenti. Non molti sono in grado di far entrare così profondamente dentro l’amore che resta orbato di futuro.

Grossman scrive, dopo la morte del figlio in Libano:

“Solo ora capisco, / non è mio figlio che voglio rianimare, / far fremere. È su me stesso / che devo far forza / con parole, visioni / spauracchi / di personaggi / tenuti insieme con paglia / e argilla, e con il senno dello stolto… / per non cessare di esistere e pietrificarmi. / Ed è il mio respiro, / a essere falciato / nel gelido biancore / fra una parola / e l’altra. Sono / io, / io a fremere come una preda / nelle fauci / dell’assoluto. / Combatto per me stesso, / solo per la mia anima, / contro ciò che annichilisce / offusca / e sminuisce. / Tutta la mia vita / ora, / tutta la mia vita / sulla punta / di questa penna.” (Caduto fuori dal tempo, Mondadori)

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