Cultura e Società

“4 metà” di A. M. Federici. Recensione di S. Anastasia

14/01/22
"4 metà" di A. M. Federici. Recensione di S. Anastasia

Parole chiave: identità, autenticità, interdipendenza

Autore: Sergio Anastasia

Titolo: “4 metà”

Dati sul film: regia di Alessio Maria Federici, Italia, 2021, 90’, Netflix.

Genere: commedia romantica

Chiara (Ilenia Pastorelli) e Giulia (Matilde Gioli) sono le protagoniste, assieme a Matteo (Matteo Martari) e Dario (Giuseppe Maggio), di una commedia di costume che ricorda i film a episodi degli anni ’60.

Lo stile, leggero e brillante per definizione, rischia di imprudenza nel voler infondere speranza e ottimismo, soprattutto in un periodo storico caratterizzato da incertezza e inquietudine. Il risultato è che ci sono delle sbavature, soprattutto iniziali, quando l’introduzione, con la metafora del Simposio di Platone, quella delle due metà della mela, per intenderci, rischia di essere frivola e ridondante. Tuttavia, superata questa impasse, il rimando al discorso di Aristofane (su cui rinvio a questo link https://it.wikipedia.org/wiki/Mito_di_Aristofane_o_dell%27androgino) è funzionale al prosieguo della trama. D’altra parte, la questione si pone sin dal titolo scelto per la commedia, che sembra voler indicare una via diversa rispetto a quella cui siamo abituati: non si tratta di incontrare la propria anima gemella, ma di potersi concedere il lusso di conoscere meglio sé stessi, nelle proprie infinite sfaccettature e di, conseguenza, anche quelle dell’altra persona.

L’intreccio amoroso, che vede i protagonisti vivere vite parallele – nelle quali si formano due differenti coppie, a causa di opposte sliding doors – vuole mostrare che, seppure la nostra identità sia fortemente radicata nella nostra storia, nei nostri valori, nelle nostre convinzioni e nelle nostre trame emotive, l’incontro con l’altro può determinare un percorso, piuttosto che un altro, un’evoluzione, piuttosto che un’altra.

Contrariamente al senso comune, tanto più vi è radicamento in profonde convinzioni, quali la fedeltà, la lealtà, la rinuncia, il sacrifico, la bontà e la gentilezza – ci mostra il regista- tanto più è possibile che la vita porti al tradimento di queste. Quanto più, invece, vi è consapevolezza dei propri e altrui limiti, dell’impossibilità di predeterminare e pianificare tutto, tanto più vi sono le risorse per affrontare gli imprevisti e le criticità della vita. D’altra parte, si sa come la dimensione affettiva e relazionale, sia tra le più complesse e imprevedibili, dove le teorie e le certezze inevitabilmente si arrestano, mostrandosi per lo più inadeguate.

Ogni processo evolutivo procede per discontinuità, attraverso le quali determinate azioni, modalità di essere e di funzionare vengono abbandonate, per far posto ad altre, più funzionali – quando tutto va bene – o comunque più attinenti al proprio sentire del momento. In tal senso, possiamo intendere la mente come qualcosa di relazionale, che  segue traiettorie legate agli stimoli presenti nel campo emotivo: pensieri, ricordi ed emozioni possono subire profonde trasformazioni grazie all’incontro con un Altro significativo, fino a poter permettere addirittura di raggiungere una maggiore libertà di movimento fisico e mentale.

È su questi principi che si basa un processo terapeutico ed è su questi stessi principi che si fonda il naturale bisogno di amore dell’essere umano.

Il film “4 metà” ci mostra cosa significhi andare a fondo, scoprire quali prospettive possa aprire il muoversi al di là dei confini mentali di ciascuno, costruiti attorno a ferite, blocchi, traumi ed esperienze negative del passato.

In tal senso, appare evidente come l’essere se stessi sia il contrario del corrispondere a dei canoni universali di estetica e di forma, o di muoversi sulla base di credenze. Autenticità significa, in questa prospettiva, saper accogliere la propria specificità, accettando allo stesso tempo l’interdipendenza, ovverosia la possibilità di perdere parti di sé e acquisirne di nuove, legate allo specifico incontro con un Altro da sé, significativo e capace. Come cantava Gaber, d’altra parte: “Libertà è partecipazione”.

Troppo frequentemente, invece, la logica della razionalità fa sì che prevalgano categorie di (pre) giudizio che precludono l’incontro con la diversità, con il cambiamento e con la possibilità. Un qualcosa che richiede l’abbandono della razionalità per far posto alla dimensione del “sogno”, che non è illusione, ma capacità di andare oltre al significato immediato dell’esperienza. Qualcosa di simile alla rêverie materna, che consente di prescindere da significati affrettati e univoci, per accogliere la tendenza naturale delle esperienze a mostrarsi ciclica e ripetitiva, con sfaccettature via via differenti, difficili da cogliere, ma necessarie per poter meglio com-prendere sé stessi e il mondo.

In tal senso, il ricorso eccessivo a definizioni teoriche riguardo alle esperienze amorose risulta pericoloso, come ci mostra Dario, l’indomito Casanova – al quale queste teorie appiccherebbero facilmente una definizione di “narcisista” – che si mostra invece profondamente capace di riconoscere il valore autentico dell’altra persona e dell’esperienza, a prescindere di quale essa sia, quando questa è effettiva e profonda. Cosi come, allo stesso modo Chiara, facilmente etichettabile come una “dipendente”, si mostra invece profondamente capace di sintonizzarsi con i propri sentimenti, a prescindere dalle risposte – piacevoli, o spiacevoli che siano – provenienti dagli altri. Perché interdipendenza significa questo: capacità di assumere una forma di flessibilità e di permeabilità tali da poter intendere la realtà, come si presenta passo dopo passo.

E il film sembra mostrare bene come questa esperienza, tutt’altro che semplice, sia fatta di innumerevoli inciampi, errori e inevitabili sbagli.

Gennaio 2022

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