Cultura e Società

“Estranei” (All of Us Strangers) di A. Haigh. Recensione di F. Barosi

8/04/24
"Estranei" (All of Us Strangers) di A. Haigh

Parole chiave: Fantasmi, lutto, melanconia, solitudine

Autore: Filippo Barosi

Titolo del film: “Estranei” (All of Us Strangers)

Dati sul film: regia di Andrew Haigh, USA, GB, 105’

Genere: drammatico, sentimentale

“This time we go sublime

Lovers entwine, divine, divine

Love is danger, love is pleasure

Love is pure, the only treasure”

(Frankie Goes To Hollywood, The Power of Love)

In un articolo pubblicato sul numero 1551 di Internazionale (2023), l’antropologo Andrew Kipnis[1] racconta come, a seguito delle mutazioni culturali nella società cinese, nelle mitologie urbane siano riapparsi i fantasmi. L’autore parte dall’idea che l’urbanizzazione stessa sia la causa principale di questo fenomeno e intorno a questa propone varie ipotesi corollarie, che discutono dell’impatto della solitudine e del senso di estraneità negli abitanti delle aree più densamente popolate. Siamo nell’area di quelli che già negli anni ‘70 lo scrittore Fritz Lieber definì orrori “paramentali”, presenze inquietanti e non definite che riempiono i vuoti lasciati dalle angosce di chi vive nelle grandi città.

Andrew Haigh, regista inglese autore di ottimi film ( ma ancora poco noto in Italia, parte da questo substrato socioculturale, oggi universale, per raccontare quella che è una vera e propria storia di fantasmi, giocando sulla consapevolezza esplicita che essi provengano dall’atemporalità dell’inconscio e lì possano rimanere per sempre.

La storia, tratta dal romanzo giapponese omonimo di Taichi Yamada, è quella di Adam, scrittore “in blocco”che vive in un complesso di appartamenti a nord di Londra, in una sorta di autoesilio che appare allo stesso tempo forzato e necessario. Una sera si presenta alla sua porta Harry, vicino dolente che in qualche modo lo implora di farlo entrare. Adam tentenna, in una scena in cui tenerezza, minaccia e sessualità si confondono ambiguamente, e alla fine ritiene che sia meglio di no, non in quel momento. La sua è una esitazione che fa pensare alla leggenda secondo la quale i vampiri debbano essere invitati a entrare in casa proprio dalla loro vittima, antica metafora della paura dell’estraneo e dell’intrusione.

Questa prima scena, che tornerà nel finale, è il cardine della narrazione. In mezzo Haigh ci mostra come Adam inizi concretamente a fare i conti con i fantasmi dei suoi genitori, morti in un incidente stradale quando lui aveva dodici anni, e rimasti a vivere nella periferia di Londra. Sono fantasmi reali e consapevoli di esserlo, proiezioni di desideri che trattano Adam come un figlio cresciuto che non si vede da tempo. Il protagonista è sia l’uomo adulto che il ragazzino improvvisamente orfano, così come tutti i pochissimi personaggi della storia sono insieme vivi e morti, speranzosi e sofferenti.

Intanto Adam inizia una relazione intima con Harry, in quello che sembra un tentativo di sblocco, di “andare avanti” mentre cerca di staccarsi dal proprio passato traumatico. I due piani correranno paralleli fino al potentissimo finale, che sarebbe crudele spoilerare.

La scelta del regista è quella di raccontare una storia dove i piani spazio-temporali sono perfettamente sovrapposti. Si potrebbe dire che il film si muova in uno stato onirico della veglia, come capita quando davanti a noi si dipana una seduta d’analisi. I personaggi sono lì, tutti insieme, hic et nunc e alibi et tunc, e interagiscono tra loro senza gioco figura-sfondo.

L’impianto narrativo, che si potrebbe qui definire a processo primario controllato, mantiene una sua essenzialità senza svolazzi surrealisti, come il discorso di un paziente lucidissimo nei suoi deliri.

Haigh mantiene sempre una posizione non giudicante riguardo a quello che accade al suo protagonista, mostrando uno sguardo tenero anche verso le difese più imponenti, quelle che paralizzano la vita nel tentativo di proteggere quel poco che sopravvive a traumi devastanti. È l’angoscia di un crollo già avvenuto, che restringe la possibilità di fare esperienze e con la quale non sempre si può venire a patti.

Ancora Kipnis: “Nel mondo rurale i parenti sono sepolti tutti insieme, mentre nei cimiteri urbani ci sono perfetti sconosciuti tumulati uno di fianco all’altro, come nei grandi condomini, dove spesso i vicini neanche si conoscono” e ancora “i familiari defunti diventano antenati, gli estranei defunti diventano fantasmi”. Sappiamo anche che nelle ghost stories sono le morti traumatiche a costringere i defunti a infestare (to haunt, in inglese, che significa anche perseguitare) i loro luoghi, a impedire un adeguato lavoro del lutto. Parafrasando Racamier, Daniela Battaglia scrive su Spipedia[2]: “Elaborare un lutto significa quindi poter pensare a un dopo, senza dimenticare un prima”, attraversare il dolore della perdita e scongelare il tempo, accompagnando delicatamente i fantasmi nel passato per fare spazio nel presente.

L’alternativa all’attraversamento del dolore è quindi l’illusione dell’eternità, infinita come il cosmo, al prezzo carissimo della vita stessa.

“Estranei” è una immersione nella melanconia, in ciò che poteva essere e non è stato, un film amaro, ma anche dolcissimo nel suo rispetto di ogni forma di consolazione dal terrore, attualissimo e pandemico, della profonda solitudine.

Bibliografia

Freud S. (1915 -1917). Lutto e melanconia. O.S.F. 8.

Lieber, F. (2017). La cosa marrone chiaro e altre storie dell’orrore. Cliquot, Roma.


[1] “I fantasmi delle città cinesi”, Internazionale, 1551. Versione originale: https://aeon.co/essays/rapid-urbanisation-is-stoking-paranormal-anxieties-in-china

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