Cultura e Società

David Meghnagi, “Le sfide di Israele. Lo Stato ponte tra Occidente e Oriente”

24/10/23
David Meghnagi, "Le sfide di Israele. Lo Stato ponte tra Occidente e Oriente"

Parole chiave: Freud, Israele, Meghnagi

Pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore, il prologo del libro di David Meghnagi apparso nel 2010. Il libro, scritto da uno psicoanalista SPI ha ricevuto il Premio Fiuggi per la ricerca storica.

David Meghnagi, Le sfide di Israele. Lo Stato ponte tra Occidente e Oriente, Marsilio, 2010.

Prologo

La vita e la morte sono affidate alla lingua. Proverbi (18, 21).

Posso esprimere la fiducia che Lei non farà o non dirà – le parole del poeta sono azioni – una cosa che sia vile e bassa; in tempi e in condizioni che confondono il giudizio, Lei saprà andare per la via giusta e indicarla agli altri.

S. FREUD, Lettera a Thomas Mann, 6 giugno 1935.

«In tempi bui che confondono il giudizio – scriveva Freud in una lettera a Thomas Mann – le parole del poeta sono azioni». Quei tempi sono per fortuna alle spalle (1). L’ammonimento resta valido. Il mondo odierno è sovraccarico di pericoli. Non si può abbassare la guardia di fronte alle parole «malate» in cui è avviluppato il dibattito sul conflitto arabo- israeliano. Le parole malate hanno bisogno di cure come le persone.

Sono nato e cresciuto in un paese arabo che ho lasciato per sempre dopo un sanguinoso pogrom, il terzo nella storia della mia famiglia in poco più di vent’anni. Lungo l’arco di due decenni centinaia di migliaia di ebrei hanno forzatamente abbandonato le loro case e i loro averi in ogni area del mondo arabo e islamico.

Le minoranze ebraiche non avevano partecipato alla guerra di distruzione scatenata dagli eserciti della Lega araba contro il nascente Stato di Israele e non costituivano un pericolo per nessuno. Erano di fatto degli ostaggi. La loro fu una fuga silenziosa, ignorata dalla stampa internazionale. Spariti gli ebrei dal mondo arabo, è toccato ai resti delle antiche civiltà che avevano popolato il Vicino Oriente prima delle invasioni arabe.

La centralità della Shoah nel dibattito sulla legittimità dell’esistenza di Israele ha fatto sì che la memoria delle sofferenze degli ebrei del mondo arabo fosse occultata per lungo tempo agli occhi anche degli israeliani. Solo di recente si è cominciato a comprenderne l’enorme valenza simbolica per una visione più equilibrata del conflitto.

Ricordare le sofferenze degli ebrei nei paesi arabi è un salutare richiamo alla complessità dei problemi e alla realtà. Se si accetta che anche loro sono un elemento del complesso e sfaccettato mosaico mediorientale, le cose appaiono in una luce diversa.

Se gli Stati arabi avessero accettato il voto di spartizione dell’Assemblea delle Nazioni Unite, forse la storia avrebbe preso una piega diversa. Nel giorno in cui si festeggia la nascita di Israele, avrebbero potuto far festa anche i palestinesi. Con la loro politica verso le minoranze ebraiche, gli Stati arabi hanno fornito – sempre che ce ne fosse stato bisogno – un’ulteriore legittimazione all’esistenza di Israele. Per una eterogenesi dei fini hanno fornito la materia prima di cui lo Stato ebraico aveva bisogno per sopravvivere alla sfida demografica dopo lo sterminio degli ebrei europei (2)

I profughi ci sono stati da entrambe le parti con una differenza. Nel caso degli ebrei si trattava di comunità indifese e lontane dal teatro di guerra, mentre i palestinesi erano componente attiva di una guerra voluta dal mondo arabo.

Gli abitati ebraici caduti in mano agli eserciti arabi vennero cancellati dalla faccia della terra, le persone furono uccise, messe in fuga, o fatte prigioniere. All’interno di Israele una parte consistente della popolazione araba è rimasta o è potuta tornare alle sue case (3).

Quando nacque, lo Stato di Israele aveva circa seicentomila abitanti. A parte i sopravvissuti che languivano nei campi europei nell’attesa di un paese che li accogliesse, l’unico luogo da cui poter attingere per rimpiazzare l’Ebraismo scomparso era l’Oriente arabo. Ideato per far rinascere nell’antica terra dei padri «l’ebreo nuovo», il sionismo poteva salvarsi solo con l’arrivo dei sopravvissuti ai Lager e dei loro fratelli oppressi dell’Oriente.

La società israeliana ha accolto i suoi esuli con una tensione morale incomparabilmente alta. L’arrivo degli immigrati fu considerato un valore in sé oltre che una necessità per non soccombere alla sfida demografica.

Pur con le difficoltà dei primi anni, la vita nelle baracche e un senso di insoddisfazione e di alienazione venuto a galla nei decenni successivi, gli ebrei di origine afroasiatica furono considerati e si consideravano parte di un processo di rinascita nazionale e di riscatto dopo secoli di umiliazioni.

Diversa è la situazione alla quale sono andati incontro i palestinesi. Per una scelta politica degli Stati arabi, la loro condizione di profughi divenne ontologica. Anche se il mondo arabo era immenso e lo spostamento era stato in alcuni casi limitato a qualche chilometro dagli antichi villaggi, l’idea di una loro integrazione nei paesi arabi circostanti o lontani fu violentemente osteggiata. Il verdetto religioso e nazionalista era ineluttabile: la creazione di una patria ebraica nel cuore della nazione araba e dell’umma islamica era una violazione degli ordinamenti divini e terreni. Chi avesse tentato un accordo, era un traditore da eliminare. Così fu per il re Abdullah di Giordania all’indomani del conflitto, per avere trattato segretamente con la leadership sionista. E così avvenne, tre decenni dopo, per il presidente egiziano Sadat per un accordo che restituiva all’Egitto tutti i territori perduti nella guerra del 1967 in cambio di una pace rimasta fredda.

Aver considerato l’esistenza di Israele un’onta che poteva essere lavata solo tornando allo status quo ante, è stata la grande colpa morale e politica del nazionalismo arabo, il segno di un’immaturità politica, l’origine di un fallimento più generale.

La questione dei profughi poteva essere vista come uno dei tanti dolorosi scambi fra popolazioni avvenuti dopo la Seconda guerra mondiale. Come è del resto accaduto per le popolazioni tedesche in Polonia, Iugoslavia e URSS, per le popolazioni greche e turche nella guerra fra turchi e greci, per gli indù e i musulmani al momento dell’indipendenza del Pakistan e dell’India. O per l’Italia coi profughi dall’Istria trasformati per decenni in fantasmi privati di uno spazio condiviso per il dolore.

Demonizzando Israele, le classi dirigenti arabe hanno evitato di fare i conti con due fatti per loro psicologicamente inquietanti. A vincere nelle guerre che hanno scandito periodicamente la storia della regione non erano stati gli eserciti coloniali e imperiali. Una buona metà dei soldati che travolsero le armate egiziane, siriane e giordane nella guerra del giugno 1967 era composta dai figli delle mellah e delle hara, gente disprezzata e «inadatta» alla guerra che, nella visione che ne aveva l’Islam, poteva tutt’al più aspirare a essere «protetta» in cambio di un atto di sottomissione (4).

Non essere riusciti a «risolvere» il problema israeliano coi «metodi» adottati dai turchi contro gli armeni quarant’anni prima, era la fonte di un’infelicità che nel delirio trasformava i crimini mancati in «olocausti subiti». Fin quando fu possibile spiegare l’umiliazione del 1948 con la corruzione e il tradimento delle vecchie classi dirigenti, e quella del 1956 con l’aggressione congiunta israeliana e anglo-francese, l’autoinganno poté conservare una parvenza di realtà. La ferita narcisistica diventava più sopportabile, l’onore arabo rinnovato dalla promessa che in futuro le cose sarebbero andate diversamente.

Quando alla prova dei fatti, nella guerra del 1967, gli eserciti arabi uscirono sconfitti in pochi giorni, la fuga dalla realtà fu completa. Israele diventò l’incarnazione del male. La campana a morte per i regimi nazionalisti fu ritardata dal sostegno massiccio profuso dall’Unione Sovietica nel rimettere in piedi l’esercito egiziano e siriano dopo la sconfitta del 1967, e nel sostegno dato al conflitto del 1973 attraverso il quale l’Egitto riconquistò «l’onore perduto».

La crisi del nazionalismo panarabo spianava la strada al fondamentalismo e alla rilettura del conflitto arabo-israeliano nei termini di uno scontro più vasto fra l’Occidente cristiano e l’Islam, con Israele nel ruolo di «Stato crociato» e di «piccolo Satana» al servizio del «grande Satana». Nella logica islamista la jihad dei palestinesi «non riguarda solo i palestinesi ma tutto l’Islam» (5). «L’onta della Naqba», un’idea che nel mondo arabo si afferma dopo la Prima guerra mondiale in risposta alle spartizioni coloniali europee, è l’episodio di una sequenza più ampia che conduce a ritroso agli albori della civiltà islamica.

Dopo la fuga degli ebrei dal mondo arabo è cominciata l’agonia di ciò che era rimasto della civiltà cristiana di Oriente. Sparite le differenze locali, le immagini negative dei «popoli vinti» e dominati dall’Islam sono state proiettate su Israele. In un delirio crescente Israele è diventato il simbolo dei mali che opprimono la civiltà araba e islamica. In seguito la violenza è esplosa nel cuore dell’umma, con centinaia di migliaia di vittime innocenti che non fanno notizia. Le comunità ebraiche del mondo arabo e islamico sono oggi solo un flebile ricordo. Eppure non molto tempo fa erano un elemento costitutivo della realtà e hanno dato significativi contributi in ogni campo.

Chi facesse un viaggio nel tempo ad Alessandria di Egitto, al ritorno potrebbe raccontare di un mondo scomparso che ne rendeva il tessuto culturale ricco e variegato. Lo stesso discorso vale per Damasco e Bagdad, Il Cairo, Tripoli, Tunisi, Algeri, Rabat e molte altre importanti città del mondo arabo.

Ridurre la questione dei profughi ebrei dei paesi arabi alla sola vicenda del conflitto arabo-israeliano è una rinuncia alla capacità critica e di pensiero. Le loro peripezie sotto il giogo islamico sono poco note, le umiliazioni ignorate, il dolore invisibile.

Accolti nella terra dei padri, come liberati o redenti, gli ebrei del mondo arabo hanno faticato prima di vedersi riconosciuta l’identità profonda, la cultura e la storia. Animati dalla speranza di una vita diversa nella terra dei padri, costretti dalle persecuzioni, risposero in massa a un richiamo ancestrale tenuto vivo nei testi sacri e nelle preghiere. A parte i più benestanti e coloro che avevano dei legami nelle metropoli europee, la maggioranza trovò naturale salire verso la terra dei padri recando con sé semi di spezie e profumi da piantare per riportare in vita la terra.

Gli ebrei dello Yemen attraversarono il deserto portando con sé il Sefer Torah, il Talmud e lo Zohar (6). Gli aerei che riconducevano a casa gente che era stata derubata, erano percepiti come la rappresentazione vivente di una profezia antica che si avvera.

Coloro che li avevano preceduti dalla Galizia tre decenni prima per fondare i primi kibbutz avevano con sé come «unico capitale» una copia di Das Kapital e una dell’Interpretazione dei sogni( 7). Per gli ebrei provenienti dalla Libia dopo due sanguinosi pogrom, cui se ne aggiunse un terzo nel 1967, le navi erano grandi culle che restituivano gioia e speranza. Tra enormi difficoltà, gli ebrei del mondo arabo hanno trasformato l’esilio in esodo. Sono oggi parte di una nazione libera. Una minoranza importante ha ricostruito la sua vita in Occidente contribuendo allo sviluppo delle nuove patrie di adozione.

A lungo ho vissuto come se l’esperienza della mia infanzia appartenesse al passato remoto. Era una frattura nel tempo e nello spazio. Un grande spartiacque divideva la mia vita. Il prima e il dopo erano irriducibili. Eppure erano passati pochi anni.

Occupandomi del problema anche da un punto di vista professionale, lavorando con persone che hanno vissuto dei traumi collettivi, ho poi compreso che il mio sentire rispondeva a uno schema. Gli attori potevano avere trascorso l’infanzia e la giovinezza a mille e più chilometri di distanza dai luoghi in cui vivono attualmente: Roma, Parigi, New York, Londra e Tel Aviv. Ma la frattura interiore segue lo stesso andamento. Solo molto tempo dopo, grazie alle nuove generazioni che non hanno sperimentato direttamente il trauma, i legami possono riannodarsi rinnovando l’interesse per i luoghi del passato.

Nel mio dolore non ero solo. Elaborando la mia storia, ho potuto essere di aiuto a chi in condizioni diverse ha vissuto esperienze di sradicamento ed era alla ricerca di un ritrovamento che rendesse sopportabile l’esperienza della perdita e del dolore. Come analista ho avuto modo di lavorare con pazienti europei e israeliani, arabi e iraniani, ebrei, musulmani e cristiani.

La preoccupazione per l’esistenza di Israele mi ha accompagnato dalla prima infanzia. Se anche lo avessi dimenticato, e non avrei mai potuto, la cancellazione per legge dalle mappe geografiche di quel punto minuscolo chiamato Israele era la proiezione simbolica di un programma che la violenza verbale delle trasmissioni delle radio arabe rendevano esplicito. Impegnato a sostegno del dialogo e per una composizione politica del conflitto che lacera il Vicino Oriente, l’idea di un ritorno al mio paese natale, anche per una breve visita, non mi aveva mai sfiorato. Non c’era più nulla che mi legasse a quel passato. Mi ritenevo fortunato perché ne ero uscito vivo.

Il vincolo tra le generazioni non si era spezzato, i figli hanno potuto conoscere i nonni, la gente ha potuto ricrearsi una vita libera in luoghi più ospitali. Ma vi è pur sempre qualcosa di inquietante nel ritenersi fortunati perché altri hanno avuto un destino inenarrabile. Le emozioni possono sciogliersi nell’incontro con i profumi dell’infanzia, nell’attesa a uno scalo aereo, in treno, seduti al bar o osservando i figli che giocano.

Molti anni fa, durante una sosta all’aeroporto di Roma, sul tabellone che indicava dei voli in partenza due scritte ben distinte (Roma-Tel Aviv, Roma- Tripoli) a causa della stanchezza dell’attesa mi apparvero come sovrapposte. Per un attimo ebbi la sensazione che un luogo portasse all’altro e viceversa. Come in sogno potevo partire e tornare, essere ovunque a casa perché il mondo intero è una casa e l’umanità intera è una sola famiglia.

La mia città aveva da sempre viaggiato con me. Era parte del mio mondo onirico insieme ai ritmi della musica orientale così ricca ed espressiva, ai canti d’amore e a quelli liturgici che rendevano gioiose le nostre sinagoghe, alla nostalgia che provo ricordando gli amici perduti, all’intensità dei profumi del mio paese natale e alla sua brezza marina, alle fantasie che facevo guardando le navi in partenza immaginandomi al loro interno, al piacere che provavo nel passare dall’arabo all’ebraico e dall’ebraico all’arabo, nel comporre un tema in italiano come se fosse latino sino a quando un insegnante mi disse: «Perché non imiti la prosa degli illuministi francesi? Loro scrivevano in modo limpido perché avevano le idee chiare. Il tuo italiano ne uscirebbe arricchito e migliorato». Il cambiamento fu immediato e i risultati non tardarono a venire. Per molto tempo ancora per scrivere in italiano mi ispirai agli scrittori francesi del Settecento finché non trovai il modo di distillare e sciogliere in me la miscela di lingue e di mondi in cui sono cresciuto. Il percorso di ricostruzione di una vita non è mai lineare, soprattutto quando coinvolge interi gruppi umani. Per rimarginarsi le ferite hanno bisogno di essere nutrite dalla speranza. Altrimenti le paure più antiche si confondono con quelle più attuali e il passato può accecare il presente. Senza una visione che mantenga viva la speranza futura anche il presente si annebbia e può diventare insopportabile. Per questo ho promesso a me stesso di non fare e dire nulla di cui un giorno potrei vergognarmi di fronte ai miei figli e che almeno internamente avrei fatto di tutto per tenere aperti i confini che separano i nostri mondi. A dispetto delle vicende dolorose da cui sono divisi, ebrei e musulmani, arabi e israeliani non sono condannati a essere ostili per sempre. C’è e deve esserci una via di uscita e se anche questa possibilità non è nell’immediato, non bisogna per questo negarla al futuro.

Ciò che separa il realismo creativo dal cinismo machiavellico sta nella perdita della capacità di immaginazione sognante. Immaginando scenari diversi, il peso del passato e le difficoltà del presente diventano più sopportabili. Possiamo tollerare i sacrifici che la difficile situazione impone.

Nella tradizione ebraica l’elemento della scelta è essenziale. Anche se nella realtà esterna i rapporti sembrano per sempre spezzati, sul piano interno si deve fare di tutto per conservarsi liberi. Nella Qabbalah anche il mondo del Pleroma vive di scissioni che tocca all’uomo ricomporre. Le preghiere e le invocazioni che salgono dal mondo servono a riannodare ciò che è andato spezzato nel mondo celeste. Nella meditazione della Shema’, la più sublime delle invocazioni ebraiche, evocando l’unità del divino si contribuisce ad attualizzarla. La parola echad (uno) corrisponde in ebraico al numero tredici, la metà del numero che corrisponde al Tetragramma impronunciabile. Concentrandosi con l’intelletto e con il cuore sull’unità di Dio, l’uomo contribuisce al processo di riunificazione dei mondi superiori e inferiori (8).

La civiltà cristiana si è per secoli esercitata nella caccia fisica agli ebrei, ma oggi non è più così e molte delle mura che un tempo separavano gli ebrei da chi li opprimeva sono cadute. Per accettare pienamente l’esistenza d’Israele, la Chiesa cattolica ci ha messo mezzo secolo dopo Auschwitz.

Quando, agli inizi del suo pontificato, Paolo VI visitò i luoghi in cui predicò Gesù, nominò la Terra Santa, mai lo Stato di Israele. La parola era tabù. Prima di compiere la sua storica visita al Muro Occidentale, Giovanni Paolo II ha atteso la fine del millennio, premurandosi di visitare prima in lungo e in largo gli altri paesi della regione. Nonostante i contrasti e le delusioni, i rapporti tra Israele e Vaticano, il dialogo e le visite dei papi alle sinagoghe sono una realtà. Tedeschi e francesi si sono a lungo combattuti; ciò non ha impedito che oggi queste due nazioni siano il motore del processo di unificazione europea.

Nonostante i crimini del nazismo, gli israeliani non hanno chiuso il cuore ai tedeschi che sono nati dopo, non hanno condannato i figli per le colpe dei padri, accogliendoli come visitatori nel loro dolorante paese. Quando è venuto il momento, non pochi cittadini israeliani di origine tedesca, pur conservando la propria cittadinanza, hanno ottenuto quella tedesca.

Nonostante i pogrom del 1946 contro i sopravvissuti che facevano ritorno alle loro case, nonostante l’antisemitismo di Gomulka nel 1968, non sono pochi i cittadini israeliani che si rivolgono alle sedi diplomatiche polacche per ottenere la cittadinanza.

Perché mai arabi ed ebrei, israeliani e palestinesi non dovrebbero un giorno tornare a parlarsi? Perché mai gli arabi non dovrebbero un giorno riconoscere che l’espansione della civiltà islamica è stata una forma di colonizzazione che ha comportato l’estinzione progressiva di civiltà più antiche? Per quale ragione la sinistra europea non dovrebbe un giorno fare proprio il dolore dei popoli dhimmi? Perché mai il popolo turco non dovrebbe un giorno riconoscere il terribile dolore inferto alla nazione armena? Perché mai un palestinese non dovrebbe potersi specchiare nella storia degli ebrei di origine afroasiatica? Perché mai il nipote di un sopravvissuto non dovrebbe aprire il cuore di fronte al dramma dei nipoti dei profughi della guerra del 1948? Trovare una risposta a queste angoscianti domande nella mia infanzia non era facile. Mancavano gli spazi simbolici per poterle formulare. Nel mio paese di nascita anche un incontro di basket poteva degenerare in un’aggressione fisica generalizzata contro tutti gli ebrei presenti allo stadio, se si trattava di una partita decisiva e a vincere erano «degli ebrei». L’angoscia e la paura erano un elemento costitutivo della nostra vita quotidiana.

Tra le illusioni che nascono dalla disperazione, ma possono tenere viva la speranza in una vita diversa, vi può essere quella di esagerare la possibilità di influenzare la realtà. Il soggettivismo può alterare la capacità di distinguere ciò che è possibile da ciò che va oltre. Sotto i colpi delle trasformazioni profonde che la società israeliana ha conosciuto negli anni ottanta e novanta, e nell’impatto con la prima Intifada, una parte significativa del paese aveva teso una mano ed era stata capace di provare empatia per le sofferenze della controparte. Le cose sono poi andate diversamente, com’era prevedibile per chi avesse occhi per guardare alla realtà ambigua di un accordo che rimandava la discussione sui problemi più importanti alla fase conclusiva del processo di pace.

Non si tratta di abdicare al senso di realtà, ma di conservare vivo – insieme alla consapevolezza delle opportunità e dei pericoli che il futuro può racchiudere – il sentimento della speranza senza il quale un progetto di vita e di società non potrebbero darsi.

Se i confini dello spirito restano aperti – e in taluni momenti può essere necessario per conservare l’integrità psichica contro la follia del mondo –, il persecutore non si installa nell’anima avvelenandola.

Note

  1. Un’eco delle considerazioni di Freud si trova nell’affermazione del 1945 di Wittgenstein «le parole sono azioni», «anche le parole sono azioni». Cfr. S. Freud (1935) a Thomas Mann, 6 giugno, in Id. (1960), Lettere alla fidanzata e ad altri corrispondenti (1873-1939), Torino, Boringhieri, 1990; L.W. Wittgenstein, Pensieri diversi, a cura di G.H. Von Wright con la collaborazione di H. Nyman, edizione italiana a cura di M. Ranchetti, Milano, Adelphi, 1980; Id. (1953), Ricerche filosofiche, Torino Einaudi,1974, p. 193.
  2. R. Hilberg (1985), La distruzione degli ebrei d’Europa, edizione italiana a cura di F. Sessi, Torino, Einaudi, 1999; D. Meghnagi, Ricomporre l’infranto. L’esperienza dei sopravvissuti alla Shoah, Venezia, Marsilio, 2005.
  3. Su questa dolorosa pagina di storia cfr. le dense e toccanti pagine dell’autobiografia di A. Oz (2002), Una storia di amore e di tenebra, Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 412-455.
  4. Lo statuto di inferiorità dei dhimmi ha origini antiche. Il «Patto di Omar» ne fissò nel 717 le regole sino a che l’impatto con la civiltà europea e la penetrazione coloniale non rimisero in discussione i codici su cui poggiava il dominio islamico sui resti di antiche civiltà religiose e culturali un tempo fiorenti. Per una rivisitazione di insieme da angolature diverse cfr. Bat Ye’or, Il declino della cristianità sotto l’Islam, Milano, Lindau, 2009; B. Lewis, Il suicidio dell’Islam. In che cosa ha sbagliato la civiltà mediorientale, Milano, Mondadori, 2002; A.A. Wheatcroft (2003), Infedeli. 638-2003: il lungo conflitto fra Cristianesimo e Islam, Roma-Bari, Laterza, 2004.
  5. Dichiarazione dell’Ayatollah Kameney. Cfr. «la Repubblica», 15 aprile 2006, p.19. Facendogli eco il presidente Ahmadinejab può affermare: Israele è «un’ingiustizia ed è per sua natura una minaccia permanente. È stato creato per mettere in pericolo la regione e il fatto che continui a esistere è un modo per perpetuare questa minaccia» (ibid).
  6. Il Sefer (pl. Sefarim) Torah, sono i cinque libri del Pentateuco scritti secondo una particolare e complessa procedura per l’utilizzazione nel servizio religioso. Il Talmud Bavlì raccoglie le discussioni plurisecolari dei rabbini delle accademie di Babilonia. Il Talmud Yerushalmi raccoglie le discussioni delle accademie di Gerusalemme e della Terra di Israele. Il libro dello Zohar è il testo più importante della mistica ebraica.
  7. Cfr. Ch. Weizman a E. Jones, 7 dicembre 1920, in E. Jones, Vita e operae di Freud, Milano, Garzanti, 1977, vol. III, p. 46.
  8. Lo Shema’ è la preghiera fondamentale di Israele in cui si afferma l’unicità di Dio. Si recita nel servizio mattutino (shacharith) e in quello serale (‘arvith).
Allegati
David Meghnagi, Le sfide di Israele. Lo Stato ponte tra Occidente e Oriente, Marsilio, 2010. Prologo

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