Cultura e Società

Patria per soli padri. Intervista di L.Boni a S. Toumi su “Lo specchio vuoto” e la confisca del presente nell’Algeria post-coloniale

3/09/23
AfrichE. Tra(N)sformazioni. Presentazione a cura di L. Boni, C, Rocchi, D. Scotto di Fasano 1

Chaos + Repair = Universe. Kader Attia, 2014

Patria per soli padri.

Intervista a cura di Livio Boni a Samir Toumi su Lo specchio vuoto e la confisca del presente nell’Algeria post-coloniale

Livio Boni Innanzitutto grazie d’aver accettato l’idea di un’intervista. Lei è scrittore, autore di due romanzi –Lo specchio vuoto e Algeri, il grido -, che hanno suscitato interesse in Algeria e al di là, entrambi editi dalle edizioni Barzakh a Algeri, rispettivamente nel 2013 e 2016, e pubblicati in italiano, il primo dalla siciliana Mesogea, il secondo dalla toscana Astarte. Ma a questa identità di scrittore si aggiunge quella dell’intellettuale, nel senso che la questione del ruolo dello scrittore nella polis et nello spazio pubblico attraversa i suoi scritti. E poi Lei è anche l’iniziatore di un luogo informale d’incontro e di scambio, La Baignoire, di cui mi piacerebbe che ci parlasse…

Per iniziare la nostra conversazione, vorrei partire dalla questione della lingua. Che cosa significa oggi, per uno scrittore algerino che, come nel suo caso, è nato dopo l’Indipendenza, scrivere in francese? Si tratta di un gesto naturale? Oppure di un modo di mettere a frutto quel «bottino di guerra» che rappresenta la lingua francese per l’Algeria, per riprendere la metafora famosa di Kateb Yacine? E qual’è il suo rapporto con le altre lingue algerine, ed in particolare con l’arabo?

Samir Toumi: Vorrei innanzitutto ringraziarla a mia voltadell’interesse espresso nei confronti del mio lavoro. Sono felice di questo scambio. Detto questo, vorrei cercare di rispondere alla domanda circa la lingua in cui scrivo, che è il francese, ma per questo devo prima descrivere il contesto generale. In Algeria, in ragione della nostra storia e del nostro posizionamento geo-strategico attuale, la lingua, oltre a essere un problema d’identità, riveste una dimensione eminentemente politica. Per essere più precisi, diverse lingue coabitano in Algeria: l’arabo dialettale algerino, l’arabo letterario, la lingua berbera (l’amazigh), il francese, da qualche anno a questa parte, l’inglese, che è attualmente in piena espansione, soprattutto presso le nuove generazioni. Le lingue materne degli algerini sono l’arabo dialettale o il berbero, oppure entrambe. L’arabo letterario e il francese vengono insegnati a scuola. Molti della mia generazione sono perfettamente francofoni in quanto il francese è al tempo stesso la lingua degli studi, della professione et della socializzazione.

Questa coabitazione tra lingue, socialmente armoniosa, si rivela però politicamente complessa, in quanto viene strumentalizzata dalle diverse parti in causa, che creano fratture, e talora persino conflitti. Per semplificare, la lingua francese, che giustamente certuni considerano un «bottino di guerra», è considerata da altri come la lingua dell’alienazione coloniale, della quale occorre assolutamente liberarsi. Al contrario, l’arabo letterario, lingua di appartenenza al al mondo arabo e all”Islam, è per molti la lingua che ogni algerino dovrebbe parlare, mentre per altri è la lingua di chi si oppone alla modernità. L’arabo dialettale, che non è una lingua scritta, non è considerato come una lingua vera e propria, mentre la lingua amazigh, recentemente riconosciuta come lingua nazionale, è considerata da certuni come un semplice dialetto regionale foriero di rivendicazioni identitarie più o meno pericolose. La lingua inglese è praticata dalle giovani generazioni, connesse e mondializzate, a detrimento del francese, che sta perdendo piede. Questa irruzione recente dell’inglese è stata favorita dai poteri pubblici, che l’ha da poco introdotta, in maniera volontaristica e obbligatoria, negli studi scolastici e universitari.

La letteratura algerina è quindi francofona o arabofona. Esistono anche autori, più rari, che scrivono in amazigh, e altri che tentano sperimentazioni in arabo dilettale. Si noti infine che, in tempi più recenti, alcuni autori hanno optato per l’inglese. Ora, se dal punto di vista delle tematiche e dei centri d’interesse si può parlare di un corpus letterario coerente, i diversi lettorati e circuiti di promozione mostrano una vera e propria compartimentazione tra le letteratura francofona e arabofona, compartimentazione aggravata da un ecosistema di traduzione insufficientemente sviluppato. Per esempio, allorché i miei due romanzi sono stati tradotti in italiano, essi continuano a non essere disponibili in lingua araba, il che fa si che un lettore algerino strettamente arabofono non avrà mai accesso ai miei scritti! Ma, a parte qualche rara eccezione, questo stato di fatto resta la norma, il che dimostra l’importanza di una tale compartimentazione.

Per quanto mi riguarda, le mie lingue sono state contemporaneamente l’arabo dialettale e il francese. Con un po’ di amazigh, visto le origini cabile di entrambi i miei genitori. Sono dunque stato cullato, come molti algerini, da una combinazione tra queste tre lingue, combinazione che io definisco come la mia lingua dell’intimo.

Più tardi, ho scoperto la letteratura, esclusivamente di lingua francese, poiché i miei genitori, che l’avevano studiato prima dell’Indipendenza, erano francofoni, e avevano poca padronanza dell’arabo letterario. Le opere cui avevo accesso, sia a casa che a scuola, erano tutte in lingua francese, ed è dunque naturale che sia divenuta la mia lingua di scrittura.

Ho tuttavia l’impressione che la mia lingua dell’intimo traspaia dal modo in cui scrivo in francese. In Algeri, il grido, che è una narrazione retrospettiva, interamente basato sulle mie sensazioni ed emozioni, mi sono naturalmente lasciato andare all’espressione di questa musicalità particolare, che si ispira alla circolarità dell’arabo, al suo uso delle ripetizioni, all’uso libero della punteggiatura, allo scopo di rendere meglio il mio dialogo interiore. Ho anche mantenuto, nel testo, una serie di espressioni arabe e berbere che non ho saputo – o voluto – tradurre. 

LB. La vicenda narrata ne Lo specchio vuoto non può che interessare gli psicanalisti. Come saprà Lacan chiama «stadio dello specchio» l’esperienza, al tempo stesso empirica e prototipica, di giubilazione del bambino, intorno a un anno e mezzo o ai due anni, dinanzi al riconoscimento della propria immagine speculare. Une siffatta giubilazione anticipa, secondo Lacan, il sentimento dell’Io, poiché il bambino non dispone ancora, a questo stadio, della coscienza della propria unità corporale e egoica, e l’incontro con la proprio riflesso nello specchio gli permette di compensare una tale assenza proiettandosi nella propria immagine riflessa specularmente. Tuttavia, affinché quest’operazione di auto-riconoscimento vada a buon fine, occorre un terzo, l’adulto, cui il bambino si rivolge, colto da un momento di angoscia, per chiedergli conferma che si tratti proprio della propria immagine, e non di un doppio. Detto altrimenti, il piccolo d’uomo ha bisogno di un terzo per non fare la fine di Narciso, il quale, secondo il mito, scambiò la propria immagine riflessa nell’acqua per quella di un altro, di un doppio che volle abbracciare, finendo così per annegare. Questo terzo può essere la madre, o chi, stando presso l’infans, dia il proprio assenso al suo auto-riconoscimento nello specchio; ma è anche l’istanza stessa del linguaggio, che assicura il passaggio tra l’Io soggettivo e l’Io riflessivo, attraverso l’enunciazione di un “Si’, sei tu!” rivolto al bambino.

Qualcosa di simile, e al tempo stesso di diverso, succede ne Lo specchio vuoto, che racconta la storia della scomparsa progressiva dell’immagine speculare del protagonista, un uomo a prima vista senza storia, al punto tale che nel romanzo non viene neppure nominato con il suo nome – in seguito alla morte di suo padre, il “comandante Hacène”, facente parte degli ex-combattenti della Liberazione assurti al rango di eroi e di feticci patriottici maschili. Tutto lascia credere in effetti che il sentimento d’identificazione a se stesso del protagonista del romanzo dipendesse dal terzo paterno. Allora la mia prima domanda sarà la seguente: si è esplicitamente o implicitamente ispirato al paradigma analitico o si tratta di una coincidenza fortuita? Che influenza ha il metodo psicanalitico sulla sua scrittura. D’altronde, tra i personaggi del romanzo figura uno psichiatra, l’alquanto misterioso “dottor B.”.

ST. Il personaggio principale del mio romanzo, simbolo della mia generazione, non ha praticamente alcuna esistenza propria, tanto è «invaso» dalla presenza soverchiante del suo glorioso padre Moudjahid. La morte di quest’ultimo provoca uno sconvolgimento nella vita del figlio, e questo squilibrio profondo si manifesta attraverso un sintomo corporale. Si sa infatti che, quando mancano le parole, i mali del corpo finiscono fatalmente per prenderne il posto. E quale miglior sintomo, al tempo stesso profondamente destabilizzante e propizio allo svolgimento del racconto, che la scomparsa del proprio stresso riflesso, con tutta la simbolica analitica che questo implica? Quindi, no, l’influenza della psicoanalisi non è fortuita. Si tratta di una scelta narrativa. Il misterioso psichiatra, il «dottor B», è un elemento chiave del romanzo, in quanto permette, attraverso l’interrogazione psicoanalitica, di illustrare il percorso e l’evoluzione del personaggio nel corso della terapia. Si comprendono in tal modo, seduta dopo seduta, le ragioni per le quali questo figlio è totalmente divorato dal padre, al punto di non disporre di un’esistenza propria, e si può seguire l’evoluzione dei suoi sintomi. La domanda che si impone rapidamente è quella del divenire del personaggio. Riuscirà quest’ultimo a (ri)nascere grazie alla terapia, a compiere le proprie scelte e in tal modo ad esistere senza il padre ? La sua decisione di incontrare l’amante del padre, e poi quella di lasciare Algeri per Orano, possono lasciar pensare ad una tale eventualità. Ma il processo di sparizione prosegue, e il personaggio finisce per tornare al punto di partenza, Algeri, mentre il suo stato fisico si degrada fino alla sparizione totale.

Dal punto di vista tecnico, la mia ambizione era quella di evitare ogni “barbarismo terapeutico”, tanto in merito alla presa in carico del paziente da parte dello psichiatra quanto nell’espressione dei sintomi, per poter dotare la narrazione di una credibilità e coerenza propria. Ho spesso chiesto consiglio a degli addetti ai lavori, perché confermassero la validità del mio procedimento, e mi sono parecchio documentato sulle psicosi, le loro manifestazioni e le condizioni di ricovero dei pazienti.

LB. Beninteso, a questa lettura analitica de Lo specchio vuoto, che abbiamo appena sintetizzato, è possibile associarne una più politica. In tal senso, il libro offre un’immagine vivida ed efficace della confisca del presente attraverso la glorificazione e la monumentalizzazione della storia del FLN (Front de Libération Nationale), l’organizzazione che ha centralizzato, e che ha finito per monopolizzare la lotta di liberazione nazionale, rimanendo al potere dal 1962 ad oggi. Il culto dei Martiri della guerra di liberazione, i privilegi accordati ai loro discendenti, cosi’ come la mineralizzazione della memoria storica, sono tutti elementi della storia collettiva che si trasformano in altrettanti sintomi nel romanzo, per non dire in delirio…

ST. Il mio romanzo, Lo specchio vuoto, persegue innanzitutto l’ambizione politica a cui deve la propria genesi. L’approccio analitico è stato solo il mezzo per dispiegare letterariamente una tale ambizione. Il testo muove da un sentimento e da una costatazione: perché la nostra generazione, nata immediatamente dopo l’indipendenza dell’Algeria, ha sempre avuto l’impressione di non aver raccolto il testimone della generazione precedente e di vivere all’ombra degli exploit di quest’ultima? Il Romanzo nazionale algerino include esclusivamente, ancora al giorno d’oggi, coloro i quali hanno liberato l’Algeria dal giogo coloniale, e condotto la Rivoluzione algerina. Ma come esistere, allora, dinanzi alla gloria dei nostri antenati? Ho anche voluto mostrare come la Storia ufficiale, politicizzata e strumentalizzata, possa schiacciare/cancellare le storie personali, rinchiudendone i protagonisti in ruoli che impediscono loro di esistere in quanto tali. Per esempio, del padre del protagonista, non è dato conoscere altro che gli exploit di valoroso Moudjahid, e della madre non è dato conoscere altro che i suoi meriti di sposa, mentre i figli, pur se adulti, vengono presentati come eternamente figli del Comandante Hacène. Come esistere, allora, al di là dei ruoli-prigione in cui la Storia ci ha relegato? Si capisce quindi come mai il solo modo che i protagonisti abbiano per interagire siano il silenzio o la violenza, oppure talora il malessere corporale. Poiché senza singolarità individuale, la parola non può emergere. E senza parola individuale o collettiva, non può darsi società democratica.

Al momento dell’indipendenza dell’Algeria, i nostri giovani padri (molti di loro non avevano ancora trent’anni), furono areolati di gloria. Universalmente ammirati, si trovarono alla testa di un paese immenso. Ma quale trasmissione generazionale ci si può aspettare da chi ha vissuto una rottura storica tanto intensa? Come esistere al loro cospetto? La cancellazione della mia generazione, non è forse inevitabile? E che ne è della prossima generazione, quella che ha vissuto il decennio nero[i] durante l’infanzia, partecipando quindi, nel febbraio del 2019, al movimento popolare dell’Hirak? Sarà finalmente quest’ultima la generazione della trasmissione?

Ebbene, ho tentato di riprendere tutte queste questioni attraverso il prisma di certe «vite minuscole», per riprendere il titolo di un libro di Pierre Michon[ii], e in particolare attraverso quella del figlio divorato dal padre glorioso. Ho voluto inoltre testimoniare di un certo milieu sociale, quello della nomenclatura post-indipendenza, impaludato nelle proprie contraddizioni e impasses ideologiche, che si è ben presto separato dal resto della popolazione accordandosi numerosi privilegi. Non è forse questo tutto l’interesse della letteratura, capace di abbordare le questioni sociopolitiche nella loro dimensione soggettiva ed infinitamente umana?

LB Freud concepisce il delirio come un tentativo di auto-guarigione, come un tentativo estremo di mantenere un rapporto con la realtà prima di un passaggio all’atto, o di perdere ogni legame con quest’ultima, riducendola a “realtà psichica”… Nel suo romanzo, viene colto molto bene questa natura borderline del delirio, con un piede nella realtà e l’altro nell’onnipotenza psichica. È facile per il lettore seguire la deriva del protagonista e simpatizzare con l’insorgere del suo delirio, un momento che è al tempo stesso vivificante e mortifero. Nella sua narrativa c’è una precisione espressiva e quasi clinica. Penso, ad esempio, a due dettagli significativi: l’insano appetito del protagonista e il suo bisogno di sentire la propria pelle, il proprio involucro corporeo, in particolare sorbendo docce bollenti, entrambi tentativi di garantire la propria esistenza e di allontanare il vuoto interiore che lo minaccia. Abbuffarsi e scottarsi la pelle sono altrettanto modi per scongiurare la minaccia dell’oblio soggettivo. Tutto questo coglie perfettamente una certa dimensione corporea del delirio. Pertanto, la mia domanda è la seguente: che posto attribuirebbe a questa categoria – il delirio – anche al di là dei suoi usi psicoanalitici? Penso, ad esempio, al suo valore per i surrealisti, dove il delirio riscopre il suo significato letterale («uscire dal solco») e il suo valore creativo.

ST.  Nel mio personaggio il delirio è puramente patologico, e non ha assolutamente nulla di creativo. D’altronde il mio personaggio è incapace di creazione. E’ totalmente vuoto. Da un punto di vista letterario l’espressione del suo vuoto interiore passa attraverso il fatto che il lettore non conosce nemmeno il nome del protagonista, e l’adozione di una scrittura “neutra” per esprimere al massimo l’assenza di emozioni del personaggio, e la sua incapacità a percepire il mondo che lo circonda.

Il suo vuoto interiore, fino ad allora colmato dalla presenza fisica del padre, si manifesta nella non-percezione del suo riflesso, prima manifestazione delirante, al punto che la sensazione di ustionarsi diventa la sola prova tangibile della sua esistenza fisica.

A Orano, quel che potrebbe apparentemente assomigliare a una rinascita, si dimostra non essere altro che un tentativo disperato di colmare il vuoto interiore rivelatosi alla morte del padre. Il personaggio diventa avido, si rimpinza di immagini, di suoni, di danze, di nutrimento e persino – senza successo – d’amore e di sesso. Ma questi mezzi non bastano, il personaggio non può che tornare al punto di partenza, al punto di divenire lui stesso il padre. Delirio finale…

Il delirio è dunque l’espressione del vuoto interiore del mio personaggio, ma anche un modo di portare a compimento la sua sparizione.

LB. L’allusione al surrealismo mi consente una digressione attraverso la questione della città e dello spazio urbano. Lei ha esordito, letterariamente, interessandosi ad Algeri, nel suo primo libro, anch’esso tradotto in italiano, Algeri, il grido. Anche ne Lo specchio vuoto la dimensione urbana non è affatto assente, in particolare con l’episodio della fuga ad Orano, sorta di tangente che permette al protagonista di sfuggire alla situazione paralizzante della sua esistenza al Algeri. Orano viene presentata come una boccata di vita e di vitalità, di apertura e di libertà, rispetto alla capitale, anche se è proprio in seguito all’esperienza oranese che il naufragio psichico del protagonista sembra inesorabile.

Come descriverebbe il rapporto tra spazio urbano e spazio psichico, attraverso e al di là de Lo specchio vuoto?In che modo la questione dello spazio urbano, già cruciale all’epoca coloniale (con la distinzione tra città «bianca» e casba, ad esempio) riveste tutt’ora una dimensione importante all’epoca post-coloniale ?

ST. Quando uscì Alger, le cri (Algeri, il grido) fu definito una narrazione «topografica». In questo testo, scritto in prima persona, appena qualche mese prima dello scoppio delle Primavere arabe, la città è il mezzo attraverso il quale il narratore – cioè io stesso – riesce a trovare le parole. Interrogando la propria relazione con il luogo in cui vive, il suo posto nella comunità, i propri legami, ma anche la sua voglia di fuggire, il suo amore-odio, egli riesce a calmare il proprio rapporto con se stesso e con la propria storia. L’esplorazione della città scoscesa, dei suoi suoni, dei suoi luoghi emblematici, le deambulazioni per le sue strade, fanno sì che i ricordi riaffiorino. La città diventa terapeuta, talvolta diviene l’amica, altre volte l’amante, la madre, ma anche la nemica, il pericolo, la prigione. La città ci rinchiude, fino a farci soffocare, ma sa anche guarirci, riconnettendoci con la nostra storia, fornendoci le chiavi per comprendere quel che siamo.

Del resto sono impaziente di leggere il vostro libro, La Ville inconsciente[iii], il cui titolo e la cui tematica riecheggiano così fortemente quel che ho tentato d’esplorare in Algeri, il grido. Per me, il legame tra spazio psichico e spazio urbano è dell’ordine dell’evidenza, e ne siamo tutti impregnati.

Ne Lo specchio vuoto il rapporto con lo spazio è vissuto altrimenti, poiché l’ho costruito secondo il punto di vista del protagonista. Costui abita un quartiere residenziale di Algeri, situato sulle colline e, pur circolando quotidianamente attraverso la città, è assai poco sensibile a quel che lo circonda. Le descrizioni dei luoghi sono sommarie, per non dire inesistenti, il che si deve, come ho già detto, alla sua incapacità di sentire i luoghi che lo circondano. La sua prima iniziativa consisterà nel fuggire e scappare dalla sua città, per andare ad Orano. Vorrei far notare che ho scelto Orano senza riflettere, ma ho appreso in seguito, una volta che il romanzo era già stato pubblicato, che secondo le statistiche della polizia si tratta della città in cui si riscontra il maggior numero di persone in fuga in Algeria! C’è da credere che, nell’inconscio collettivo degli algerini, Orano sia una città rifugio, la città in cui si tenta una nuova vita. E, da buon algerino, il mio personaggio non fa eccezione! Egli scopre Orano come potrebbe farlo un turista. I suoi sensi si risvegliano, è curioso, ha fame, osserva, nota i dettagli e li descrive. Il suo rapporto con lo spazio cambia radicalmente e la sua insensibilità ai luoghi diminuisce considerevolmente, al punto tale che il lettore si mette e sperare una sua (ri)connessione al reale, a se stesso, a una (ri)nascita.

Infine, per rispondere alla sua domanda, la divisione che lei cita, tra lo spazio urbano risultante dalla colonizzazione francese e ciò che resta della città precoloniale (la Casba di Algeri, per esempio), non corrisponde più, a mio avviso, alla città algerina di oggi. Dopo l’indipendenza, gli algerini hanno occupato ogni angolo della città, sia al centro che in periferia. Oggi la logica spaziale urbana è completamente diversa. È caratterizzata dalla divisione esistente tra il sito storico della città e i nuovi quartieri, molti dei quali sono stati creati durante il decennio nero, quando la gente si è trasferita in città per proteggersi dai massacri. Queste escrescenze urbane, spesso molto caotiche, sono mondi a sé stanti. Purtroppo la letteratura e il cinema contemporanei non li esplorano a sufficienza.

LB. Per concludere la nostra conversazione, c’è una questione che le sta a cuore e che avrebbe voglia di evocare, in rapporto a Lo specchio vuoto e a quanto già detto più in generale sull’inconscio (post)coloniale algerino e le sue traduzioni sintomatiche?

ST. Forse, come già evocato all’inizio dell’intervista, potrei citare l’esperienza de La Baignoire (La vasca da bagno), questo luogo di condivisione che ho fondato con i miei colleghi e che esiste dal 2014. L’idea iniziale era quella di introdurre nella governance dell’azienda[iv] un valore tradizionale ancora molto diffuso nella società algerina: la condivisione. Così, con l’accordo di tutti i nostri dipendenti, abbiamo deciso di condividere i nostri profitti finanziando iniziative culturali e artistiche, e di rendere i nostri locali accessibili a chiunque sia di passaggio o a qualsiasi gruppo che voglia riunirsi per lavorare su progetti di interesse generale. Non cerchiamo di promuovere l’immagine della nostra azienda, il cui nome rimane riservato. L’unica contropartita che cerchiamo è quella di riunirci e parlare con persone che non avremmo mai incontrato nel nostro ambiente professionale abituale. Tra l’altro, un gruppo di psicoanalisti algerini ha adottato questo posto e si riunisce qui una volta alla settimana.

Quando ho detto a mia madre che il nostro spazio sarebbe stato battezzato La Baignoire, ha avuto un fremito, facendomi notare che, per lei, la vasca da bagno evocava la tortura che i soldati francesi praticavano durante la battaglia d’Algeri. Le ho risposto che sarebbe stata giustamente l’occasione per fare della baignoire un simbolo di vitalità e di condivisione per le generazioni future. Una smorfia alla Storia e un omaggio a tutti coloro i quali hanno tanto sofferto affinché noi potessimo essere liberi!                                                                                     

                                                           (Parigi/Algeri, primavera 2023)


[i]    Allusione alla guerra civile degli anni Novanta del secolo scorso, scatenata dalla vittoria elettorale del Partito islamista FIS (Front Islamique du Salut) e alla decisione di annullare queste ultime, da parte dello Stato algerino, dell’esercito e del FLN. Ne conseguirà una guerra civile particolarmente lunga ed efferata, che non risparmierà nessuno (NDT).

[ii]   Cf. Pierre Michon, Vite minuscole (1984), trad. di L. Carra, Milano, Adelphi, 2016.

[iii]  Cf. Livio Boni et Guillaume Sibertin-Blanc, La Ville inconsciente, Paris, Hermann, 2018.

[iv]  Allusione all’azienda di counseling in cui lavora Samir Toumi, che non è scrittore di professione.

Parole chiave

Algeria

Postcoloniale

Superio

Malinconia

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