Cultura e Società

“Lin e i ragazzi che sognavano di volare” di A. Di Lauro. Recensione di L. Iannotta

26/10/22
"Lin e i ragazzi che sognavano di volare" di A. Di Lauro. Recensione di L. Iannotta

Lin e i ragazzi che sognavano di volare
di Antonio Di Lauro (Graus Edizioni, 2022)
a cura di Lorenzo Iannotta

parole chiave: #giustizia, #riparazione, #ascolto, #adolescenza

Quando avevo finito di leggere questo avvincente libro mi è capitato di vedere la dedica a
Pina, Alessandro e Francesco, posta in epigrafe, quella a cui solitamente non si dedica
molta attenzione, essendo un riconoscimento privato che l’Autore riserva ai suoi intimi. Ma
questa volta la dedica mi ha ‘illuminato’, mi è sembrata essere un fil rouge che attraversa il
libro e può esserne una chiave di lettura: “con il loro amore mi hanno dato la forza e il
coraggio di rialzarmi nei momenti difficili della vita”.
Credo, e cercherò di argomentare, che “ri-alzarsi” sia una delle tesi di fondo dell’Autore
riguardo alla propria vita e a quella di Lin, Cosimo, Gaetano e il mondo dei ragazzi che
vivono nell’Istituto penale e che da quel luogo, inaccessibile ai più, ci vengono incontro per
farsi conoscere attraverso la penna di Antonio Di Lauro. E cercherò di declinare come il
correlato di rialzarsi, in una tesi non dichiarata nel libro, sia l’ascolto.
Questo è un “romanzo-verità” come dichiara il Prof. Samuele Ciambriello nell’utile
Prefazione, con il quale concordo che elemento fondamentale da cui il libro prende le
mosse è l’ascolto, un ascolto rispettoso, ben diverso da un ascolto sospettoso (si veda
Nissim Momigliano, 2001). Un ascolto assolutamente necessario, sostiene Di Lauro in
ogni pagina. “Nel corso della nostra vita cerchiamo in tutti i modi di farci ascoltare. E lo
facciamo subito, con un grido. Cessiamo di farlo, quando infine la nostra voce si spegne in
un soffio. Sicché tutto il tempo dell’esistenza risulta iscritto tra un suono e il suo venir
meno” (Di Benedetto, 2000). L’ascolto è da intendere, e il libro ce lo fa vivere, come
bisogno primario di ognuno di trovare un interlocutore che possa recepire non solo quanto
risulta già chiaramente articolato ma anche il non ancora articolato, ossia quegli aspetti
emotivi caotici che chiedono accoglienza per essere trasformati e resi disponibili per un
processo di comunicazione.
Un linguaggio asciutto, piano, tanti dialoghi diretti ci permettono di entrare in contatto con
le storie di vita di questi ragazzi che Fabrizio De Angelis, alter ego dell’Autore, Direttore
dell’Istituto di pena minorile, “ascolta” e man mano ci racconta. Il Direttore coglie che
quando c’è qualcuno che può ascoltare e accogliere gli elementi vitali di questi giovani,
germoglia la domanda mai espressa da ognuno dei suoi ragazzi, che possono arrivare a
formulare l’idea di ri-alzarsi, di avere una seconda opportunità. “I sentimenti più profondi e
segreti suonano, non parlano, anzi possono essere fatti ‘sonare’ da qualcun altro” (Di
Benedetto, 2000, p. 173).
Purtroppo, ed inutile girarci intorno, il libro implacabilmente dimostra, anche
drammaticamente, che quando non c’è ‘qualcun altro’ che ascolta non si dà una seconda
opportunità e la conseguenza è l’impossibilità a procedere oltre, è essere sopraffatti, come
succederà a Cosimo e Gaetano.
Ma andiamo con ordine.
Il Direttore Fabrizio De Angelis sembra essere molto in linea con Gabriel García Márquez
che nella conclusione del suo discorso per il Premio Nobel affermava: “Di fronte a questa
sconvolgente realtà [della fine dell’uomo] che nel corso di tutto il tempo umano è dovuta
sembrare un’utopia, noi inventori di racconti, che crediamo a tutto, ci sentiamo in diritto di
credere che non sia troppo tardi per iniziare a creare l’utopia contraria. Una nuova e
impetuosa utopia della vita, in cui nessuno possa decidere per gli altri perfino sul modo di

morire, dove sia davvero reale l’amore e sia possibile la felicità, e dove le stirpi
condannate a cent’anni di solitudine abbiano, finalmente e per sempre, una seconda
opportunità sulla Terra”.
Siamo portati a vedere da vicino come una madre della Cina rurale persegua l’utopia della
‘seconda opportunità’ arrivando a separarsi dal suo secondogenito di soli quindici anni,
dopo che il marito è morto e la primogenita è già in Europa. E’ la madre di Lin, un
protagonista del libro, che, convinta e disperata, organizza tutto per la partenza del figlio
perché, come sintetizza l’amico “vale sempre la pena partire piuttosto che restare senza
alcuna speranza di migliorare questa nostra misera vita” (p. 23). E la stessa utopia della
vita la ritroviamo in un gesto all’apparenza banale che compie il Direttore ogni giorno,
quello di aprire le finestre appena arrivato in ufficio, gesto che “rappresentava per me un
gesto simbolico di rinnovamento, di rigenerazione. Un anelito di speranza e di fiducia
verso un nuovo giorno appena iniziato”.
Così, dunque, può arrivare un momento in cui si creano le condizioni per tentare di
invertire la rotta, si può sperare che questi ragazzi possano cercare di lasciare di lato il
peso delle generazioni che li hanno preceduti. E questo può avvenire anche in un Istituto
penale. O può non avvenire.
Si scorge una riflessione profonda e continua sulla giustizia, una riflessione non esplicita
ma che porta il lettore a distinguere tra l’adesione di alcuni alle tesi del Dio onnipotente e
punitivo dell’Antico Testamento, quello che afferma: “Perché io, il Signore, tuo Dio, sono
un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta
generazione” (Esodo 20, 5-6), e la concezione di altri nettamente diversa, protesa verso
una giustizia giusta, che assegna ad ognuno colpa e responsabilità, per intenderci quella
dichiarata nel libro di Ezechiele: “Sul giusto rimarrà la sua giustizia e sul malvagio la sua
malvagità” (Ezechiele 18, 20).
Il discorso sulla giustizia, e questa è una cifra del libro, però non riguarda solo il
condannato designato ma si articola nelle azioni e nelle decisioni di tutti quelli che
vengono in contatto con i ragazzi, come se i ragazzi riuscissero a mettere a nudo
l’orientamento di ognuno con la loro spregiudicatezza, le loro manchevolezze, il loro
sordido dolore. Lo vediamo, ad esempio con Cosimo che ruba le forbici durante la lezione
di tecnica e l’Autore commenta: “In realtà queste azioni non erano altro che un modo per
comunicarci che aveva iniziato a mettere alla prova le persone verso le quali si stava
affezionando. Dalla loro reazione alle sue provocazioni, cercava di capire se meritassero
la sua fiducia” (p. 78). O ancora con Gaetano che dichiara: “Il più delle volte, anche se mi
sforzo di comportarmi bene, mi trattano come fossi un pazzo o uno stupido che non
capisce niente. E più mi trattano così, io più mi comporto male. Non lo faccio apposta, mi
viene naturale. Sapete com’è? Mi si spengono le lampadine…” (p. 100). Più avanti nel
libro l’amaro commento: “Gaetano era fatto così. Quando provava un dolore forte si
spegnevano le lampadine e riusciva a difendersi dal buio della sua mente solo con gesti
disperati” (p. 151).
La Postfazione del Prof. Giovanni Cerchia offre l’opportunità di ripensare il libro alla luce
dei principi giuridici e democratici facendoci inquadrare luci e ombre nell’esercizio della
giustizia.
Questo libro ci è utile a tenere accese le lampadine per riuscire a vedere ed ascoltare, e ci
piace immaginare che insieme al ragazzo della copertina, forse Lin, che seduto su un
costone di roccia a ridosso della spiaggia fissa “il mare illuminato da miliardi di stelle in un
cielo nero di luna calante e dalle lampare dei numerosi pescherecci usciti per la nottata di
pesca” (p. 137), possiamo ogni volta trovare la possibilità-capacità di ri-alzarCI.

Bibliografia

Di Benedetto A. (2000). Prima della parola. Milano, Franco Angeli.
Nissim Momigliano L. (2001). L’ascolto rispettoso. Milano, Cortina.

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