Cultura e Società

“L’ora di greco” di H. Kang. Recensione di D. Federici

21/03/24
Bozza automatica 71

Parole chiave: #lingua, #simbolizzazione, #silenzio, #tempo

L’ora di greco

di Han Kang (Adelphi, 2023)

Recensione di Daniela Federici

Omai sarà più corta mia favella,

 pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante

 che bagni ancor la lingua a la mammella.

Dante, Paradiso Canto XXXIII

Una fascinosa suggestione questo romanzo, da cui farsi portare più che da comprendere. Una storia di vulnerabilità come condizione di incontro e possibilità.

Una donna che ha perso la parola sotto l’urto di ritorni traumatici, la figura curva, ripiegata su di sé, abituata a sottrarsi all’esistente. Un insegnante di greco che, tornato alla sua terra dopo l’esilio dell’infanzia, sta perdendo la vista. Quell’ora di lezione è uno spazio intermedio, dove lui manda a memoria le frasi perché nessuno si accorga del suo buio e lei cerca una parola straniera che le faccia sgorgare di nuovo i suoni del dentro.

Due solitudini quella del ritrarsi dal mondo e del restringersi delle possibilità di abitarlo. Personaggi senza nome che sono lo specchio della fragilità umana che tenta di ricomporre le perdite e riparare le ferite, di uno psichico che tesse senza sosta i sentieri per ritrovarsi.

“… mentre avanziamo un passo dopo l’altro su una stretta trave da ginnasta, scartando coraggiosamente le conclusioni errate, oltre la rete di sicurezza delle risposte sensate che ci diamo, vediamo ondeggiare il silenzio simile a uno specchio d’acqua livido. Eppure, continuiamo ugualmente a interrogarci e darci delle risposte, anche se i nostri occhi sono immersi nel silenzio, nella quiete minacciosa di quell’acqua livida che sale – e non cessa un istante di salire.”

La prosa raffinata e lirica di Han Kang, autrice sudcoreana che nasce come poetessa, crea un’intimità di silenzi e penombre sfocate che echeggiano l’inconoscibile dell’umano e l’infinita ricerca delle forme per coglierne l’eco dei suoi mondi profondi e lontani. La sua scrittura è un ordito sonoro e immaginifico che fa risaltare la forza poietica delle parole e le sue capacità trasformative. Perché il linguaggio non è mera riproduzione del reale, ma l’elaborazione di come l’Io fa esperienza di sé, di come si armonizza con gli altri e con il mondo che lo circonda; è il processo creativo che offre struttura a ciò che è germinale, caotico, frammentato, guadagnando spazio all’irrapresentabile di cui siamo fatti.

Il prodigio della parola viva, dalle sue radici sensoriali e corporee fino alle più fini funzioni di metaforizzazione, sono al centro del romanzo.

“Passiamo dal mercato a prendere dei mandarini aveva sentito dire alla madre… a quella parole, davanti ai suoi occhi di bambina… erano apparsi di colpo dei bei mandarini arancioni. Si era molto stupita constatando che non erano veri, che non li stava realmente vedendo, anche se apparivano così nitidi.”

Come in “Anna dei miracoli”, è una folgorazione il momento sorgivo della simbolizzazione, in cui i fatti mentali prendono vita con le immagini e le parole che possono esprimerli, l’unirsi della cosa con il senso, della realtà esterna con quella interna, poi della parola pronunciata e di quella scritta (ancora di più nella struttura ideografica della lingua coreana).

Sulle prime, per la piccola protagonista, la scoperta dell’esistenza di consonanti e vocali e le loro infinite combinazioni nei fonemi è una promessa meravigliosa.

Il monosillabo che le stava più a cuore era ‘bosco’ , che con il suo aspetto fortemente figurativo assomigliava a un’antica pagoda. Amava la sensazione che provava mentre pronunciava quella parola (sup) e non si stancava mai di scriverla, affascinata da quel vocabolo in cui tutto – pronuncia, significato, forma – era avvolto nella quiete.

Ma a un certo punto le parole avevano preso a mescolarsi come dotate di una volontà propria, le trafiggevano aguzze il sonno: “perfino la frase più banale lasciava intravedere con la trasparenza del cristallo perfezioni e imperfezioni, verità e inganno, bellezza e bruttezza. … quelle frasi si dipanavano bianche come ragnatele dalle sue mani e dalla sua lingua. Le veniva da vomitare. Le veniva da gridare…”

E “di colpo il linguaggio che l’aveva imprigionata e torturata come un vestito intessuto di migliaia di spilli era sparito. Il suo udito funzionava ancora, ma un silenzio simile a uno strato spesso e compatto di aria aveva ostruito lo spazio tra la chiocciola dell’orecchio e il cervello. Avviluppato in quel vuoto sordo, il ricordo di come usare le labbra e la lingua per pronunciare le parole, si era fatto inaccessibile. Non pensava più in parole. Agiva senza parole, comprendeva senza parole. Il suo corpo era assediato dentro e fuori da un silenzio che risucchiava lo scorrere del tempo, un silenzio ovattato come prima di imparare a parlare – anzi, come prima di venire al mondo.”  

Come vivere sott’acqua e osservare il mondo oltre la superficie. In un tempo fermo.

L’eclissi della parola nella protagonista sembra una Gorgone traumatica che ha pietrificato la metaforizzazione.

Da quella prima rottura nella fanciullezza, la protagonista era uscita attraverso l’epifania di una parola indicata alla lavagna e pronunciata dal professore di francese: bibliothèque.

La magia sinestesica delle parole.

“Un borbottio incomprensibile era scaturito da un luogo più profondo della lingua e della gola. Non si era resa conto dell’enormità del momento. La paura era ancora indefinita. Il dolore esitava a rivelare i suoi circuiti roventi nel ventre del silenzio. Là dove i segni, il suono e il vago significato di quella parola si incontravano, euforia e colpa bruciavano insieme, lentamente, come la miccia di un esplosivo.”

Ora le stava accadendo di nuovo, ma “questo silenzio tornato dopo vent’anni non ha né il tepore, né la densità, né la luminosità del primo. Se in passato faceva pensare al silenzio che precede la nascita, ora assomiglia di più a quello che segue la morte.

Dietro le labbra, è vuoto come un’arteria dove non scorre più sangue; vuoto come il vano di un ascensore in disuso.”

Così la protagonista torna di nuovo a una lingua straniera per cercare il passaggio segreto attraverso cui riemergere dal suo silenzio. E sceglie di studiare il greco, una lingua morta da secoli, da sentire come una stanza tranquilla e rassicurante…

Anche per l’insegnante quella lingua è un luogo familiare. Quando la sua famiglia era emigrata, il coreano gli era mancato terribilmente e una volta tornato era stato emozionante sentirsi piovere di nuovo addosso da ogni parte la propria lingua materna, ma poi Seul aveva cominciato ad apparirgli estranea. Il greco sembra la forma del pensiero con cui elaborare in solitudine, immerso nella filosofia, ciò che sta vivendo.

“I particolari non li distinguo più… e solo grazie alla forma dell’immaginazione i dettagli acquistano vividezza… lascio vagare lo sguardo su un mondo dai contorni completamente sfocati. La gente pensa che, quando si perde la vista, la prima cosa che succede è che si diventi maggiormente sensibili ai suoni, ma non è vero: prima di qualsiasi altra cosa, si inizia a percepire di più lo scorrere del tempo. Sono sempre più sopraffatto dalla sensazione che il tempo attraversi costantemente il mio corpo come il lento, inesorabile fluire di un’enorme massa di materia.”

“Questo è un luogo da cui è difficile

 avanzare in qualunque direzione.

Dove regna un’oscurità impenetrabile

ed è difficile trovare alcunché”

è la frase di Platone, in là negli anni, che medita cercando di guadagnare tempo.

Borges definiva il tempo ‘il fuoco che mi consuma’.

“Col tempo finirò per vedere solo nei miei sogni. Non uscirò dal sogno aprendo gli occhi, sarà il mondo a spegnersi al mio risveglio.”

C’è un dolore che lievita in silenzio nell’animo di entrambi i protagonisti.

“Questi due verbi significano ‘soffrire’ e ‘apprendere’. Sono quasi identici, vedete? Qui Socrate ricorre a una sorta di gioco di parole per dirci che si tratta di due atti simili. … per Socrate apprendere significa letteralmente soffrire.” 

La ri-petizione del trauma, ciò che insiste a chiedere nuove forme di rappresentazione, di traduzione, che per oltre-passare deve cambiare lingua e prospettiva. Krisis è rottura di continuità e quindi anche opportunità di incidere un altro corso al fluire degli eventi. Il tempo è lenta storicizzazione e legame dei vari frammenti.

“Poco per volta la faccia dell’uomo le è diventata familiare. I suoi lineamenti e le sue espressioni, così come il corpo e la postura… ma a questo lei non attribuisce alcun significato. Perché è un cambiamento che non ha mai pensato in parole. … Una volta perse le parole, tutte queste scene si sono trasformate in una serie di frammenti distinti.

Come i pezzetti di carta colorata nel caleidoscopio, che si muovevano insieme creando figure sempre diverse: una miriade di petali freddi, ostinatamente silenziosi. … i frammenti di ricordi si muovono generando immagini. Senza alcun contesto. Senza una coerenza complessiva o un senso, si sparpagliano.”

Questo è ciò che accade in difetto di significazione: un collasso che elide i nessi e dissemina, svuotando ciò che è vivo solo nel legame.

“Nell’antica Grecia bellezza, difficoltà e nobiltà non erano ancora concetti separati.”

La primitiva forza magica della parola, scriveva Freud (1890), quella che trae dalle sue origini, dal corporeo di quel bagno di parole in cui siamo immersi alla nascita e dove si fondano il senso e i nessi prima ancora di imparare a parlare, e da quel primigenio momento istitutivo dove il battesimo del significato a un significante intrecciava diverse aree semantiche e la musicalità isomorfica al nostro mondo emozionale.

Sta in questo la magia della parola poetica con la sua potenza evocativa e del linguaggio che si fa cura nella relazione.

“Anticamente si designava la luce subito dopo il tramonto e immediatamente prima dell’alba con una parola che significava dover gridare ‘chi è?’ a qualcuno che si avvicinava da lontano, perché era impossibile riconoscerlo.”

In questo romanzo oniroide e dalle profonde risonanze intime, i protagonisti sono alla ricerca di una verità come senso, come apertura a una maggiore pienezza di esperienza e a una più preziosa autenticità di soggetto (Racalbuto, 2004) che necessita di un riconoscimento nascente nell’incontro con l’altro. Perché è nella rappresentazione di un vissuto condiviso che ci sentiamo concretamente tenuti e che la nostra vita psichica acquisisce un senso di realtà.

Un ascolto che possa accogliere il crepuscolo improvviso di quando si da voce e si fa luce sul proprio divenire, è la percezione di non essere più soli, è la speranza di un buio che può schiarirsi, di una parola che può tornare a pensare le sue potenzialità sospese e i suoi rovesci.

Bibliografia

Racalbuto A. (2004), “Verità storica e psicoanalisi: scoperta, costruzione?” in Verità storica e

psicoanalisi, AA.VV., Temi del Centro Veneto, Borla.

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