Cultura e Società

“Nevada” di I. Binnie. Recensione di B. Giorgi

15/01/24
Bozza automatica 67

Nevada

di Imogen Binnie (Feltrinelli, 2023)

Recensione di Barbara Giorgi

“Chi era colui? Nessuno. Un povero corpo, senza nome, in attesa che qualcuno se lo prendesse”.

Luigi Pirandello

L’inizio è irruento, irriverente, provocante. Imogen Binnie sceglie di presentare Maria, la protagonista di questa storia, cominciando dalla sessualità.

Proprio Maria Griffiths, che “ha un rapporto incasinato con il suo corpo, riesce a malapena a mettersi nuda di fronte a qualcuno”; lei, che sa di essere bloccata fisicamente, fatica a provare un orgasmo ed è abituata a fingere; lei, che “nell’istante in cui si leva i pantaloni, smette di essere nel suo corpo, è persa tra le nuvole e cerca disperatamente di fare pace con il suo pacco.”

Si entra così in questo racconto, scritto una decina di anni fa dalla scrittrice transgender Imogen Binnie, un racconto che, è lei stessa a dichiararlo, non è autobiografico. Forse una rappresentazione romanzata di sé, sicuramente uno sguardo originale che si posa su uno spaccato di vita reale e autentica, assolutamente possibile.

Maria ha ventinove anni ed è trans, conduce una vita molto americana e si esprime con un linguaggio semplice, troppo adolescenziale per la sua età. Le piace bere alcolici, drogarsi, mangiare bagel e tuffarsi nel traffico di Brooklyn in sella alla sua bici.

Lavora nella libreria di Lower Manhattan da quando era un ragazzo, non è felice del suo lavoro ma esita a cercarne un altro perché “volendo essere realisti, quante probabiità ha di trovare un lavoro con una transizione alle spalle? Forse significa che resterà in questa libreria fino alla morte, ma cerca di non pensarci.”

Assume ormoni da quattro anni, ma deve ancora radersi ogni mattina e spesso si dimentica di fare le iniezioni di estrogeni ogni due settimane. Detesta gli aghi, ma, il vero motivo, è che “nella mia testa ho ancora un fantasmiliardo di robe da chiarire sulla transesssualità.”

“E ragazzi, se non mantieni costanti i tuoi livelli di estrogeni ti riduci uno schifo. Tipo che non le era nemmeno venuto in mente che andava a caccia di avventure notturne e beveva fino a stordirsi perché aveva bisogno di un’iniezione. Meglio ricordarselo.”

Ma sentirsi presente nel suo corpo è un problema per lei, significa attraversare quelle dolorose sensazioni come “il mio genere è sbagliato, il mio corpo è strano.”

Significa occuparsi di un corpo che non sente suo, “fin da piccola si sentiva strana, ma credeva che anche gli altri si sentissero così. Solo verso i vent’anni ha capito di che genere di stranezza si trattava. Sapeva che c’era qualche cosa che non andava, che era distaccata da tutto.”

Con una simpatica ironia che tenta di celare il dolore e la fatica del suo vivere, Maria ci ricorda che quel processo di insediamento della psiche nel soma del quale parla Winnicott non è poi così scontato; che, al momento della nostra nascita, il corpo che la genetica ci ha assegnato viene, fin da subito, modificato dagli sguardi, dal tocco e dalle proiezioni di chi ci accoglie; ci ricorda, che può accadere che la psiche non trovi nel corpo una casa ospitale.

Così Maria fa un uso massiccio di meccanismi difensivi, tra un “chissenefrega” e l’altro, vive “come se avesse una corazza per difendersi e con questa corazza addosso non riuscisse a muoversi.”

E mentre i newyorkesi passano e la ignorano, lei trascorre la maggior parte del suo tempo a chiedersi ossessivamente chi è: “Cristo pensa, posso avere venti minuti in cui non penso al fatto che sono trans, per favore?”

Si sente bene solo quando è in sella alla sua bici, perché lì non è legata a nessuno. Si perde tra ciò che dovrebbe fare, “comprare delle verdure”, e quello che fa, “una bottiglia di vino aiuta a superare le inibizioni mentali e a capire cosa provi veramente.”

Inutile dire che non riesce ad entrare in una relazione.

Nelle sue disastrose giornate, tra direzioni sbagliate e ritardi al lavoro, Maria è però capace di seguire alcune regole. Le segue ogni mattina, quando, con ordine, prima si fa la barba e poi si trucca. Gesti quotidiani, spontanei e leggeri per chi si sente comodo nel proprio genere, pesanti e faticosi per lei.

Scalda l’acqua per radersi; si trucca pesantemente gli occhi; evita il rossetto per non attirare lo sguardo dove la barba è sempre in agguato; prende due Adderall per essere sicura di concentrarsi al lavoro. E, anche perché, “essere trans è difficile.”

“Radersi e stendersi un sacco di fondotinta ogni giorno sono dei continui, estenuanti promemoria del suo essere trans … Radersi alle cinque di mattina significa che verso le tre sarà visibilmente barbuta, cosa che renderà una merda le ultime due ore di lavoro, ma in realtà sembra sempre che sia l’unica a vedersi barbuta. Gli altri non se ne accorgono.”

Si potrebbe dire, in termini winnicottiani, che attraverso questa ritualità Maria trasforma il corpo che si ha nel corpo che si è.

Nella quotidianità di questi gesti trova riparo dall’ossessione per lo sguardo altrui, “non puoi fare a meno di chiederti cosa vedono gli altri quando ti guardano”; tenta di definire la sua identità, “sono passati sei anni e fa ancora strano sentirsi chiamare “signorina”. Non è brutto, è solo tipo: okay, mi sa che ce l’ho fatta. Chissà se quella parte dell’essere trans scomparirà mai. Probabilmente no.”

Per dirla con Bollas, il nostro corpo è sempre abitato dal mondo degli oggetti. Perché il senso di chi siamo, la nostra identità, si evolve a partire dall’esperienza psicomotoria che è inseparabile dalla matrice relazionale in cui è radicata.

Maria conosce bene l’esperienza del non sentirsi vista e riconosciuta. Dentro ai suoi gesti, tra i suoi pensieri, possiamo ritrovare quel deficit di rispecchiamento intersoggettivo che spesso incontriamo nella stanza di analisi, quando lavoriamo con pazienti con identità transgender.

Sono preziosi quei momenti nei quali riusciamo ad accogliere l’esperienza di un riconoscimento fallito. Quando, attraverso lo sguardo analitico, riusciamo ad offrire un nuovo riconoscimento, a trasformare il vissuto di sentirsi guardati e respinti, nella preziosa esperienza dell’essere visti e tenuti nella mente.

Ma essere in un corpo comporta necessariamente anche il riconoscimento del tempo, il senso di continuità dell’esperienza di chi siamo.

E, come tutti i corpi, anche il corpo modificato di Maria ha una sua storia, un prima e un dopo.

Questo lavoro di tessitura, di continuità, è racchiuso in poche righe, briciole di tenerezza dentro ad un incontro. Sta tutto nella pazienza di Maria che, chissà perché, trova simpatico un anziano cliente che ha l’abitudine di recarsi in libreria ogni due mesi alla ricerca di libri impossibili.

Solo lei è capace di assecondarlo: ogni volta lo aspetta, e, per quarantacinque minuti, lo accompagna seguendo il suo passo incerto.

Forse lui ha solo bisogno di parlare con qualcuno, forse lei ha bisogno di qualcuno che la distragga dai suoi pensieri, fatto sta che, mentre salgono e scendono le scale della libreria, Maria si ritrova, nella continuità e nel cambiamento.

“Fanno così da quando Maria ha cominciato a lavorare alla libreria ed è strano, perché sembra che lui non si sia accorto che ha fatto la transizione. La chiama ancora con un nome che nessun altro al mondo può usare. Entra nel negozio col suo passo pesante, lei indossa un vestitino scollato, e le grida, Signor Griffiths! Per qualche motivo Maria lo trova piacevole, non fastidioso. E’ una cosa carina.”

Non è elegante questo libro. Il inguaggio è semplice, spesso ineducato. La lettura, a tratti, è ripetitiva, come per enfatizzare i continui ridetti, i pensieri circolari che paralizzano la vita di Maria.

Il risultato, però, è un ritratto molto autentico, una descrizione onesta. Non ci sono sconti nè scorciatoie, solo la strada in salita di chi è abituato a reprimersi, controllarsi, a proteggere gli altri da qualche cosa dentro di sé che vive come terribile.

“Da piccola si sentiva responsabile di proteggere gli altri da tutti i dubbi di identità che aveva in testa – di proteggere i suoi genitori dalla possibilità di avere una figlia strana … Dire a tutti che è trans è stato il primo cambiamento della sua vita che si discostava dal percorso tracciato per lei alla nascita, e l’ha fatto solo perché sentiva che in caso contrario sarebbe morta.”

Troppo presa dai dubbi su se stessa, Maria riesce ad offrire, alla sua fidanzata Steph, solo pesanti silenzi. Così, quando la relazione finisce, e viene anche licenziata dalla libreria, “ripensa a come si sentiva scombussolata da piccola. Non sapeva di essere trans, non riusciva a esprimere a parole che era una femmina, ma sapeva che c’era qualche cosa di terribilmente sbagliato e dava la colpa a se stessa.”

Allora decide che ha bisogno di essere assolutamente irresponsabile. Si appropria dell’automobile di Steph e comincia un viaggio malandato che la porterà ad incontrare James.

“Non appena Maria Griffiths vede James Hanson al Walmart di Star City, Nevada, Pensa: questo è trans e non lo sa.”

James è un giovane incerto, ciondola dentro ad una vita che non sente sua, cerca rassicurazione allo specchio immaginandosi con un corpo muscoloso e virile. Ma non funziona, non riesce ad immaginarsi. Forse perché gli piacciono i vestiti da femmina, ma, quell’unico abito che ha acquistato, se ne sta appeso dentro all’armadio, un urlo contro il suo sordo tentativo di dimenticare il proprio corpo.

In questa confusione incerta, tra la polvere di un minuscolo appartamento, non possiamo non provare simpatia verso Maria, che, rivedendo in lui se stessa prima della transizione, fa di questo incontro lo scopo del suo viaggio.

“No, voglio dire se non pensi mai che potresti essere trans, non se sei un ragazzo trans.

Ah, dice lui. La fa aspettare mentre prende un’altra boccata colossale. Trattiene il fumo, lo butta fuori e dice, Boh.

Il modo con cui la guarda, però – spaventato, forse un po’ aggressivo ma più che altro come per dire, tipo, mi credi? -, non lascia dubbi sulla risposta.”

Ma il loro è un incontro sgangherato, due identità in trasloco che faticano a trovare una casa, tenacemente aggrappate alle proprie difese.

“Sei trans, giusto?

Cazzo, mormora lei. Si alza dal futon, va in bagno e si chiude la porta alle spalle.

Maria, in bagno, sta pensando , mi ha chiesto chiaro e tondo se sono trans! Forse è la prima volta che mi succede. Quando aveva appena cominciato la transizione, la gente la prendeva in giro sulla metro, la fissava, e si sentivano un sacco di commenti del tipo E’ un ragazzo e Sei un maschio, cazzo. Ma nel piccolo bagno di James H., col rubinetto dell’acqua che sembra staccarsi da un momento all’altro, Maria pensa, è davvero sgarbato.”

Non c’è nessuna epifania, nessun lieto fine. Imogen Binnie ci consegna un incontro sterile, un rispecchiamento fine a se stesso che non porta alla costruzione di un pensiero. Resta solo il trionfo dei meccanismi di difesa.

Un racconto impietoso, utile a ricordare che l’anatomia non sempre è il destino, che il genere si definisce attraverso un complesso lavoro di assegnazione, dove, nel processo di costituzione del Sé, l’altro svolge un ruolo importante.

Ma, se siamo disposti a pedalare assieme a Maria sulla sua bici, sotto il cielo grigio di una Brooklyn autunnale, possiamo davvero allenarci a rinunciare al bisogno di ordinare rigidamente la fluidità intrinseca delle identificazioni.

Possiamo cogliere, sotto la sua graffiante ironia, la complessità dell’identificazione transgender, un invito a prestare attenzione alle sfumature e ad evitare mete di viaggio precostituite.

Forse su quella bici dobbiamo perderci, almeno un po’, almeno inizialmente, per respirare quell’aria arcaia e primitiva tipica dell’alba della vita psichica. Dobbiamo sostare, all’incrocio tra quelle forze inconsce, interne ed esterne, che iscrivono nel corpo il primato infantile, prima di riprendere la strada, orientati dal nostro sguardo psicoanalitico.

In fondo, proprio la psicoanalisi permette di capire come, ciascuno di noi, in modo unico ed originale, può usare il corpo, la sessualità, il genere, per esprimere desideri, fantasie, conflitti, possibilità.

Pedalando con Maria possiamo percorrere la strada del riconoscimento, quell’importante punto di arrivo che consiste nel dare parola all’inconscio.

Perché, in fondo, “nessuno in realtà vuole essere una donna trans, cioè, nessuno si sveglia e dice ehi, forse la mia vita sarebbe migliore se facessi la transizione.”

Riferimenti bibliografici

Lemma A. (2023) Le Identità transgender. Un’introduzione contemporanea, Franco Angeli, Milano

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