
Parole chiave: diagnosi, complessità, violenza contro le donne, borderline, ascolto
Inattualità/5 — Sul tatto della diagnosi. Contro l’uso improprio del lessico clinico e la banalizzazione della violenza
Chiara Buoncristiani
“Il medium è il messaggio”, scriveva Marshall McLuhan nel 1964, sottolineando come il mezzo di comunicazione influenzi in modo decisivo il contenuto che veicola. Quando questo principio viene applicato al campo della psicopatologia, diventa chiaro che una diagnosi pronunciata nello spazio mediatico – anziché in un setting clinico – smette di essere uno strumento di comprensione e si trasforma in una sentenza. Un’etichetta lanciata nel discorso pubblico, spesso senza contesto, senza responsabilità, senza tatto.
In particolare, rispetto ad alcuni recenti casi di femminicidio, anche da fonti autorevoli come alcuni quotidiani a diffusione nazionale, sono stati interpellati psicologi e psicoterapeuti che hannoritenuto opportuno commentare la cronaca con diangosi cliniche, apparentemente oggettive: ad esempio sottolineando come la donna vittima fosse “una borderline”. Come se si trattasse di un dettaglio decisivo, tale da spostare il fuoco dall’evento traumatico alla personalità della vittima.
È in questo spostamento che rischia di giocarsi un corto circuito etico, clinico e culturale. Il pericolo è che la diagnosi, quando si presenti fuori luogo, senza ascolto, senza contesto, smetta di essere un dispositivo di cura e diventi una forma larvata di discredito.
Quando la diagnosi si fa etichetta (e veleno)
Il rischio è grave: la diagnosi diventa stigma, la sofferenza psichica si trasforma in sospetto, e la colpevolizzazione della vittima trova una nuova e insidiosa legittimazione.
In tale slittamento si annida inoltre una delle forme più attuali di violenza simbolica, capace di alimentare la polarizzazione tra i sessi e di irrigidire l’immaginario collettivo attorno a cliché diagnostici. Invece di aiutare a comprendere la complessità dei legami e delle soggettività in gioco, l’uso mediatico della diagnosi rischia di rimettere in scena la lotta tra un femminile accusato di eccesso e un maschile svincolato dalle sue responsabilità.
Come osserva anche Byung-Chul Han in La società della trasparenza (2010), viviamo in un’epoca in cui tutto ciò che è visibile è automaticamente ritenuto vero, e in cui la verità stessa viene ridotta a ciò che è esposto. In questa logica, il pudore della soggettività viene sacrificato sull’altare della trasparenza, e con esso la complessità del legame clinico. La diagnosi – strappata al silenzio del transfert e consegnata alla luce accecante del talk show – perde il suo statuto simbolico e si trasforma in spettacolo. O peggio: in colpa pubblica.
La diagnosi psicoanalitica: un processo, non un’etichetta
In ambito psicoanalitico, la diagnosi non è mai una definizione stabile né tantomeno una formula sintetica da trasmettere al pubblico. È un processo di conoscenza e di relazione, costruito nel tempo, fondato sull’ascolto, sul transfert, sulla co-costruzione di senso tra analista e paziente. Come scrive Loredana Iannotta nel suo contributo su spiweb.it, la diagnosi “è inseparabile dalla posizione dell’analista, dalla sua disponibilità a farsi coinvolgere nella storia dell’altro”.
Non esiste diagnosi psicoanalitica senza un lavoro condiviso, senza una tensione interpretativa che tenga conto del contesto, della storia affettiva, delle difese messe in campo. Estrapolare una struttura di personalità – “borderline”, “narcisistica”, “paranoide” – da questo spazio relazionale e inserirla nel circuito dei media significa non solo deformare la verità clinica, ma tradire l’etica stessa della cura. Abbiamo bisogno, oggi più che mai, di una psicoanalisi capace di sottrarsi al circolo vizioso del giudizio e del sensazionalismo. Che sappia difendere la complessità dell’esperienza umana, soprattutto quando questa esperienza si esprime nella sofferenza, nella fragilità, nella confusione. Abbiamo bisogno di una diagnosi che non sia mai slogan, mai didascalia, ma sempre incontro.
Ferenczi e il tatto: il limite tra sapere e potere
In questo senso, il pensiero di Ferenczi offre una bussola preziosa. Il tatto – concetto che attraversa molti suoi scritti – è quella sensibilità clinica che consente di dire senza ferire, di interpretare senza invadere, di nominare senza ridurre l’altro a una funzione o a un difetto. È una forma di etica incarnata, che implica responsabilità, attesa, rinuncia al dominio del sapere.
Usare una diagnosi per descrivere, pubblicamente, una persona vittima di violenza equivale a mancare radicalmente questo tatto. Significa esercitare un potere – quello del sapere psicologico – senza il contrappeso della relazione. Significa dimenticare che il linguaggio clinico non è mai neutro, e che può diventare arma se impiegato per sottrarre credibilità a chi già vive una condizione di estrema vulnerabilità.
In modo affine, Piera Aulagnier ha definito l’interpretazione come un atto che, se calato dall’alto e non sostenuto da un transfert vivo, può esercitare una violenza sul soggetto: la violenza del sapere che si impone al posto del senso che può essere costruito. La sua violenza dell’interpretazione è proprio quella che nasce dal gesto di spiegare l’altro senza di lui, sostituendo il suo dire con un discorso totalizzante.
A queste riflessioni fa eco ancora Byung-Chul Han, quando descrive la crisi della narrazione come tratto tipico della nostra epoca, dominata dall’accelerazione, dall’informazione istantanea e dalla frammentazione. Secondo Han, la narrazione – quella vera, capace di elaborare il tempo, la sofferenza e il trauma – richiede profondità, lentezza, senso. Quando eventi traumatici vengono raccontati nel linguaggio asciutto del talk show o del commento giudiziario, non vengono veramente narrati: vengono disinnescati. La diagnosi, se inserita in questo tipo di racconto impoverito, smette di essere atto clinico e diventa gesto spettacolare, che non comprende il trauma ma lo perverte, rendendolo spettacolo o colpa.
Violenza, legami e soggettività femminile
Come ci invitano a riflettere le colleghe che hanno partecipato al recente volume Ascoltare l’Eco della violenza sulle donne (CPdR, 2025), la violenza di genere non si comprende appieno se non si tiene conto della soggettività di chi la subisce, delle sue ambivalenze, delle sue resistenze, delle sue difficoltà a riconoscere l’“oggetto cattivo” e a proteggerne i confini psichici.
La clinica psicoanalitica, in questo senso, non giudica ma interroga: perché alcune donne restano in relazioni distruttive? Perché talvolta si identificano con l’aggressore? Quali fantasmi, quali credenze, quali carenze affettive si riattivano nell’incontro con un partner violento? Sono domande complesse, che richiedono tempo, silenzio, un ascolto profondo. E che nulla hanno a che fare con i giudizi sommari disseminati nei media.
Analogamente, ridurre ogni uomo violento alla categoria di “narcisista patologico” – come spesso accade nei circuiti di divulgazione semplificata – equivale a evitare la domanda su cosa significhi, oggi, per un uomo, perdere l’oggetto d’amore e non sapere tollerare l’angoscia di separazione. Tiziana Bastianini (2025, cit.) ricorda infatti come la violenza relazionale nasca spesso da un crollo dello spazio psichico tra sé e l’altro, da un’impossibilità di riconoscere l’altro come separato e vivo.
La psicoanalisi come spazio dell’opacità, contro la violenza della trasparenza
In un tempo in cui ogni discorso tende a diventare trasparente, immediato, visibile, condivisibile, la psicoanalisi rivendica ostinatamente il valore dell’attesa, dell’indecidibile. Nella società della trasparenza tutto ciò che non si mostra è sospetto, e ciò che si espone viene consumato. In questo quadro, la diagnosi non deve trasformata in merce da esibire o in prova da usare contro.
Il lavoro analitico procede in direzione opposta: costruisce senso a partire dall’oscurità, dall’opacità, dal non ancora detto. È un lavoro che richiede tempo, ascolto, presenza. Che non può farsi spettacolo, perché è l’esatto contrario: un incontro silenzioso, attraversato da esitazioni, rotture, trasformazioni non immediatamente visibili.
Contro la violenza dell’interpretazione imposta (Aulagnier), contro l’invadenza del sapere non domandato (Ferenczi), contro la narrazione mediatica che schiaccia la soggettività sulla diagnosi, la psicoanalisi custodisce un’altra etica: quella che non nomina se non per sostenere, che non spiega se non per aprire, che non mostra se non ciò che può essere accolto.
In questo senso, forse, è l’ultimo luogo resistente alla trasparenza. E per questo – oggi più che mai – necessario.
Nel tempo della comunicazione istantanea, dove il contenuto clinico diventa spesso virale, è urgente riaffermare che la diagnosi è un atto che richiede tatto. Che il lavoro analitico si fonda sulla relazione e sull’ascolto. Che comprendere non è mai semplificare, ma assumersi il rischio della complessità.
Non ci serve una psicoanalisi semplificata. Ci serve una società capace di pensare, e di ascoltare, anche quando il pensiero è difficile. Anche quando il dolore non entra in un tweet.
- Aulagnier, P. (1975). La violenza dell’interpretazione. Torino: Bollati Boringhieri, 1991.
- Bastianini, T. (2025) Oggetti d’amore, oggetti di odio: quando la “follia del dominio” si impossessa della vita psichica in Multiversi https://www.centropsicoanaliticodiroma.it/oggetti-damore-oggetti-di-odio-quando-la-follia-del-dominio-si-impossessa-della-vita-psichica
- Despentes, V. (2006). King Kong Théorie. Milano: Fandango, 2007.
- Ferenczi, S. (1932). Diari clinici (a cura di J. Dupont). Torino: Bollati Boringhieri, 1988.
- Han, B.-C. (2010). La società della trasparenza. Roma: Nottetempo, 2014.
- Han, B.-C. (2018). La crisi della narrazione. Milano: Nottetempo, 2021.
- McLuhan, M. (1964). Gli strumenti del comunicare. Milano: Il Saggiatore, 2008.