Cultura e Società

“Un matrimonio epistolare” di C. Cardona. Recensione di P. Moressa

2/05/23
"Un matrimonio epistolare" di C. Cardona. Recensione di P. Moressa

Un matrimonio epistolare. Corrispondenza tra Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Alessandra von Wolff-Stomersee

Parole chiave: #epistolario, #psicoanalisi, #principessa, #Gattopardo

Un matrimonio epistolare

di Caterina Cardona (Sellerio editore, 2023)

Recensione di Pierluigi Moressa

“Nella corrispondenza tra Giuseppe Tommasi di Lampedusa e Alessandra Wolff von Stomersee, il ritratto intimo di due personaggi straordinari”: questa la premessa con cui l’editore Sellerio ripropone senza varianti il libro pubblicato nel 1987 da Caterina Cardona. Si tratta di un testo vitale e pieno di interrogativi irrisolti, che da questa insatura ricchezza trae ulteriori fonti di interesse e di fascino. Le “due singolari e bizzarre figure” dello scrittore e della psicoanalista si presentano sulla scena della società siciliana e di quella mitteleuropea nel momento in cui il continente sta per attraversare le vicende del secondo conflitto mondiale, che impressero al destino individuale e collettivo improvvisi e tragici rivolgimenti. Attraverso la resistenza umana e morale opposta dai protagonisti alle dolorose distruzioni emerge il profilo delle loro personalità e di una pienezza interiore capace ancora oggi di coinvolgere chi legge.

La linea della vicenda è semplice. Alessandra (1894-1982) e Giuseppe (1896-1957) si sposarono a Riga con rito ortodosso nell’agosto 1932. La donna era al secondo matrimonio, dopo il divorzio dal barone André Pilard von Pilchau. Sua madre, la cantante lirica Alice Barbi (di origine modenese, apprezzata da Brahms), vedova  del barone Boris Wolff, dignitario delle Russia zarista, aveva sposato (1920) il diplomatico Pietro Tommasi, zio di Giuseppe. Da questa unione derivò ad Alessandra l’occasione per la conoscenza del principe siciliano incontrato a Londra nel 1925. Dopo le nozze, i coniugi condussero esistenze separate: Giuseppe in Sicilia accanto alla madre, donna Beatrice Tasca di Cutò, che nel 1934 resterà vedova; Alessandra in Lettonia entro il castello di famiglia, fatto ricostruire da suo padre dopo le distruzioni portate dai bolscevichi nel 1905. Sono i legami familiari presenti e interiorizzati l’aspetto dominante nella vicenda umana dei due protagonisti. Il loro rapporto è mantenuto costante attraverso la corrispondenza che rende conto tanto dei sentimenti quanto della vita quotidiana di entrambi. Si tratta di lettere che “più che allo scrivere rimandano al parlare, più che al desiderio di esprimersi e di rivelarsi rimandano a quello di ‘tenersi a bada’ … ” (pag. 15). I due si scrivevano in francese, benché fossero in grado di disporre dell’italiano, del tedesco e dell’inglese. L’uso della lingua d’oltralpe ebbe la funzione di creare un’atmosfera intima e riservata assumendo uno scopo specifico che Giorgio Manganelli, nel suo commento al libro, descrive con esattezza: “la lingua estranea, non vissuta, funziona come una preziosa maschera … un approccio sempre schermato alle cose della vita” (pag. 194).

La figura di Giuseppe Tommasi appartiene a quella schiera di nobili siciliani protagonisti di una vita immutabile entro gli schemi della tradizione; piuttosto anonima, conobbe due vertici: il matrimonio con Alessandra, capace di proiettarlo, almeno idealmente, lontano dalle rassicuranti certezze quotidiane, e la stesura de “Il Gattopardo”, destinato a fama postuma. Fu uomo che amò più leggere che scrivere e si circondò di una piccola schiera di amici, sorta di piccolo mondo cui manifestava i propri pensieri e affidava la propria cultura centrata sulla lunga frequentazione della letteratura francese. Così, il “matrimonio epistolare” divenne per il principe e per la baronessa un modo rassicurante per mantenere una relazione che non perturbasse un consolidato modus vivendi. Il testo della Cardona riporta quattro gruppi di lettere: aprile-maggio 1932 (epoca del fidanzamento), 1935-1939, 1941-1943, autunno 1950.

E’ Alessandra la presenza più viva nella coppia: “tra i coniugi non v’è dubbio che la moglie sia la figura più rilevata, per cui il libro tratta di uno scrittore, ma non in quanto scrittore; da protagonista lo declassa a deuteragonista” (Manganelli pag. 193). Il primo capitolo si apre con una lettera del 9 novembre 1950. Da Palermo Giuseppe scrive a Licy (così egli suole chiamare Alessandra) che si trova a Roma per il secondo congresso della SPI e le rivela un sogno in cui egli si trova condannato a morte, esecuzione cui spontaneamente si presenta e alla quale, però, riesce a sottrarsi; allontanatosi, incontra il proprio padre e gli affida la notizia della ormai certa salvezza da inviare a “Mamà” poi riconosce di essere giunto indenne a Villa Giulia sulla marina palermitana. “Farsi psicoanalizzare dalla moglie, fossi matto!” così Giuseppe chiosa, mentre fornisce ad Alessandra materiale intimo. Annota la Cardona trattarsi di “uno di quei sogni in cui tutto si condensa e in cui una vita intera, gli affanni, le ansie, gli affetti, le grandezze e le minuzie si decantano …” (pag. 23). Villa Giulia è per Tommasi di Lampedusa un posto familiare e rassicurante che lo stesso Goethe aveva indicato come “il luogo più stupendo del mondo”. L’autrice, intonandosi al clima culturale del tempo, cita la junghiana Marie-Louise von Franz: “nei sogni di morte appare spesso la figura di un intruso, quasi un messo che prepara all’ultimo viaggio, un mediatore dei contatti più profondi tra l’Io e l’inconscio” (pag. 26). Ma la salvezza cui Giuseppe nel sogno si destina ha come preludio il congedo dalla presenza del padre e della madre: deceduto il primo da tempo, la seconda da quattro anni. Lo stesso Giuseppe ebbe fin dalla nascita un forte contatto coi temi mortuari: quando aveva appena un anno, perse la sorella Stefania di tre anni affetta da un’infezione difterica. La madre riversò sul secondogenito ogni affetto e lo fece partecipe di un lutto mai elaborato che la spinse a instaurare con lui una relazione simbiotica proseguita fino alla morte. Nelle lettere, il figlio chiama la madre col nomignolo di “Bona”; spontaneo è il tono della missiva che egli volle inviarle da Riga nel 1932, dopo il matrimonio, per renderla partecipe della propria felicità, lettera a cui la madre non diede risposta. Giuseppe e Alessandra non ebbero figli e riversarono cure e affetto sui cani di famiglia; negli ultimi anni di vita, il principe volle adottare un lontano cugino: Gioacchino Lanza. Ma la creatura a lui più cara fu il suo romanzo: “Il Gattopardo” (scritto a emulazione dei cugini materni, i messinesi Piccolo, celebri nelle arti e nella poesia, con lo scopo dichiarato di non parere “fesso”) rifiutato, vivente l’autore, dalle case editrici e pubblicato un anno dopo la sua morte dalla Feltrinelli (1958) fino a ricevere il premio Strega nel 1959.

L’amore per Licy consentì al principe di aprirsi al mondo ignoto delle lontananze baltiche. Le sue descrizioni epistolari del castello di Stomersee in Lettonia recano il tono della tranquillità affettuosa e di un clima familiare ormai appagante. Nel testo sono inserite immagini fotografiche: il castello che ha pinnacoli come di maniero fiabesco, la fotografia che ritrae Giuseppe e Alessandra affacciati a una finestra della dimora lettone, i due a passeggio per le vie di Palermo. Nelle istantanee, il principe ha l’aria dolce e innamorata, mentre rivolge sguardi intensi alla moglie; Licy mantiene una posa altera, quasi algida e si mostra con la “figura soda, anche un po’ interita … una sorta di regina boreale […] ma forse da questa intensa figura rimbalza una tenera grazia sulla figura del marito, sulla sua trepida crucciosità di custode della propria infanzia” (Manganelli pag. 192 e pag. 194). I sentimenti, nelle lettere, vengono espressi col bon ton della società coeva: uso di diminutivi familiari, soprattutto all’inizio e nella chiusa, il tutto accompagnato da un clima salottiero come di discorsi educati col sentore di passioni smorzate e l’impiego di toni mai troppo acuti e frementi; Licy parla dei propri pazienti, Giuseppe delle letture che riscopre. E l’amore? Forse, chiosando l’autrice, si trattò di un fiume carsico destinato a erompere in tempi e modi prestabiliti, soprattutto quando, morta donna Beatrice nel 1946, Alessandra poté trasferirsi a Palermo. E non sappiamo quanto di autobiografico Tommasi di Lampedusa facesse esprimere al principe Fabrizio di Salina ne “Il Gattopardo”: “Certo l’amore. Fuoco e fiamme per un anno, cenere per trenta”.  La lettera dell’11 febbraio 1943 dà conto del doppio fuoco cui si sentiva esposto Giuseppe in vista di una possibile convivenza di sua madre e di sua moglie entro la dimora palermitana: “ho troppa fiducia nel buon senso delle due signore che vi soggiorneranno. Sono certo che esse non vorranno innestare una minuscola guerra civile …” (pag. 155). E’ l’unico accenno a donna Beatrice che il figlio compie entro l’epistolario come a voler occultare e proteggere con pudore il loro rapporto complesso e irrisolto.

Il 5 aprile 1943 casa Lampedusa verrà distrutta dalle bombe “portate dall’Atlantico”; circa un anno dopo, il castello di Stomersee sarà espropriato dai bolscevichi e trasformato in una scuola di formazione agraria.

L’esperienza psicoanalitica di Alessandra non è un tema minore tanto nell’epistolario quanto nella vita della coppia. Appare un elemento trasformativo che si intona al temperamento volitivo della baronessa. Licy è aperta al mondo e alle nuove conoscenze, mentre suo marito la ascolta con rispettosa attenzione. La Wolff aveva frequentato per quattro anni l’Istituto di psicoanalisi berlinese diretto da Karl Abraham; si era sottoposta all’analisi personale con Felix Böhm, all’analisi didattica con Max Eitingon e a una supervisione con Hans Liebermann. Trasferitasi a Vienna, aveva conosciuto Sigmund Freud. Nel 1936 Edoardo Weiss approvò la sua associatura alla SPI, di cui diverrà presidentessa dal 1954 al 1959. Entro le missive di Licy compaiono accenni alla vita della ricostituita Società e al primo congresso tenuto nel 1946 a cui lei stessa collaborò insieme con Nicola Perrotti, Cesare Musatti, Emilio Servadio, mentre nel 1950, in occasione del secondo congresso, non mancò di rendere partecipe Giuseppe dell’aria di scissione (poi rientrata) che spirava entro la SPI con l’accenno a “Perrotti fondatore di un nuova scuola” (pag. 175).

La casa, molto più di una dimora per Giuseppe, anzi luogo da ricostituire in sostituzione di quello in cui era nato, diverrà l’edificio di via Butera in faccia al mare del Foro Italico palermitano (Palazzo Lampedusa alla marina) dove Alessandra riceverà i pazienti e dal quale diffonderà in Sicilia per la prima volta il linguaggio della psicoanalisi. Qui vive tuttora il musicologo Gioacchino Lanza Tommasi, figlio adottivo dei Lampedusa.

Chiudiamo il libro con la sensazione di essere entrati nell’intimità dei protagonisti, ma non di averla violata, quasi i due coniugi abbiano voluto fare partecipi i lettori delle loro vicende, accogliendoli non solo entro le dimore di famiglia, ma anche negli spazi di un’esistenza che, per quanto riservata in vita, è divenuta argomento di studio e di discussione in morte: unica familiarità possibile con chi ha fatto dei propri gesti un palcoscenico ricco di comunicazioni scambiate con discrezione all’interno della coppia, ma realmente rivolte, quasi in trasparenza, al mondo esterno.

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