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14 -15 Maggio 2015, TRIESTE, Convegno Internazionale Passaggi di memoria. La trasmissione generazionale del trauma.

4/08/15

Report a cura di Monica Marchionni

Passaggi di memoria. La trasmissione generazionale del trauma.

Grazie alla segnalazione della collega Ambra Cusin nella Mailing List SPI ho sentito il richiamo a partecipare al Convegno internazionale “Passaggi di memoria. La trasmissione generazionale del trauma” organizzato dalla Provincia di Trieste il 14 e 15 maggio 2015. Le due giornate di studio rientravano nel percorso di “valorizzazione della cultura e della storia del territorio, di recupero e conservazione della memoria collegata alle vicende dell’area di confine” avviato dall’amministrazione provinciale nel 2012. L’obiettivo era di riflettere sui meccanismi della memoria, sul significato della testimonianza, sulle modalità di elaborazione dei traumi, con particolare attenzione al passaggio della memoria alle seconde e terze generazioni.  L’approccio è stato multidisciplinare con una centralità dell’aspetto psicoanalitico oltre che storico e il linguaggio semplice, chiaro ed evocativo.  Il programma era articolato in tre le sessioni: Trasmissioni e accoglimenti, Sopravvivenze e negazioni e Governare il trauma, moderate dai professori Giacomo Todeschini, Anna Maria Vinci e Gloria Nemec. Interventi di esperti e studiosi di livello internazionale tra i quali si segnala la partecipazione di Christoph U. Schminck Gustavus dell’Università di Brema, Christoph Cornelissen dell’Università di Francoforte e di Dina Wardi, psicoterapeuta israeliana che si occupa da anni dei sopravvissuti della Shoah. Della Società di Psicoanalisi Italiana si segnalano le relazioni di Paolo Fonda e Ambra Cusin.

La prima sessione è stata aperta da A. Casellato dell’Università Cà Foscari di Venezia. “Storie di famiglia: un esperimento tra ricerca e didattica” nel quale gli studenti hanno indagato nella propria famiglia quale fosse il ricordo più antico che li riguardasse, costruendo così un “atlante delle storie di famiglia da cui trarre deduzioni riguardanti la “gittata” della memoria (nello spazio e nel tempo), i temi ricorrenti, le modalità in cui avviene il racconto nel contesto familiare e le ragioni per cui alcuni racconti vengono tramandati e altri taciuti.

È seguito l’intervento di Jael Kopciowski, Psicologa e psicoterapeuta di Trieste – “La percezione del passato come strumento di crescita personale”. Focus sul collegamento con il passato nella prospettiva di visualizzare il futuro: senza la percezione del passato non è possibile visualizzare il futuro né vivere in maniera equilibrata il presente. La relazione dell’uomo con la realtà passa attraverso gli organi di senso e anche se il “senso del tempo” non passa da tali organi, attribuisce agli eventi una specifica identità e li rende unici. La mente ricorre tanto alla percezione spaziale quanto ai ricordi per creare un senso del futuro. Contemplare il futuro è “mettere in default la nostra mente”: pensiamo al futuro almeno 59 volte al giorno, 1 volta ogni 16 minuti di veglia. Chi ha memoria biografica povera fatica a immaginare il futuro.

Conclude la prima giornata Paolo Fonda, Psicoanalista della Società di Psicoanalisi Italiana e Direttore dell’Istituto Psicoanalitico per l’Est Europa con una “Riflessione sui conflitti interetnici da un punto di vista attuale”.  Analizzando alcuni aspetti della dinamica dei gruppi a Trieste, evidenzia il processo storico di demitizzazione dell’ideale di “Nazione” e il prospettarsi di nuovi schemi mentali nel vissuto della gruppalità. Trieste è uscita malconcia dal secolo che si è chiuso. Relegata ai margini di territori produttivi e in prossimità di confini instabili e incandescenti, ha visto declinare il proprio ruolo che si era sviluppato rigogliosamente nel secolo precedente. Le due guerre mondiali e ideologie estreme l’hanno ridotta per decenni ad uno psichismo da nevrosi traumatica: ripetere continuamente e stereotipamente i traumi subiti, con la difficoltà a pensarli ed elaborarli per poterli superare, con il conseguente impoverimento della creatività. Più o meno implicitamente i miti sulle nazioni contengono il fuorviante concetto di “genus”, cioè dell’origine comune dei suoi membri, una parentela genetica dei suoi membri che determina “chi è dei nostri e chi non lo è”. Mentre il concetto di “identità nazionale” si può basare su diversi elementi -la lingua, i territori, i confini, gli interessi economici- nel Ottocento e nel Novecento la “Nazione” è stata iper-idealizzata e deformata con l’attribuzione di un valore trascendentale, eterno e astorico, a giustificazione dei movimenti nazionalistici espansionistici. L’attuale relativizzazione del concetto consente di passare da un pensare primitivo- che lo stato è proprietà della nazione- a un concetto più maturo e più complesso- che lo stato è proprietà dei cittadini indipendentemente dalla loro appartenenza etnico linguistica. Alla fine del Novecento i confini sono stati definiti (trattato di Osimo, 1975) ed accettati, ma anche in una certa misura superati con l’entrata della Slovenia e presto della Croazia nella Unione Europea. Le ideologie totalitarie paranoidi del fascismo e comunismo escono di scena e un fattore decisivo è stata la caduta del Muro di Berlino. L’integrazione europea può ispirare un certo ottimismo circa la possibilità di riscoprire la multiculturalità che a Trieste è stata di casa per secoli, fino al primo dopoguerra quando è stata imposta la monoculturalità e si è smesso di parlare, oltre che all’italiano, anche lo sloveno e il tedesco. In una atmosfera più libera gli sloveni possono valorizzare ciò che hanno assorbito della cultura italiana, riconoscendo gli elementi italiani del proprio mondo interno, così come la propria specificità di sloveni nati e vissuti in Italia nonché gli elementi di diversità nei confronti degli sloveni della Slovenia. Così gli italiani possono entrare in contatto con la cultura slovena, croata e del mondo slavo in generale, come anche con a volte le loro radici slave.  Ora né gli italiani né gli sloveni per queste -che in un assetto schizoparanoide erano percepite come- “impurità” si sentono minacciati nella loro appartenenza e identità di gruppo. Anzi ciò diventa elemento di arricchimento e di sfida poiché il lasciarsi compenetrare dall’altro-diverso o il permettersi di scoprire che dentro di noi c’è sempre stato implica il confronto con il non conosciuto che a volte può essere angosciante. Segnalo in merito che  Paolo Fonda ha pubblicato un contributo dal titolo “Il perturbante come l’altro interiore” all’interno del volume AA.VV (2010) Il perturbante nella storia. Le foibe Uno studio di psicopatologia della ricezione storica. QuiEdit

Nella seconda sessione, Ambra Cusin, Psicoanalista della SPI, con “Miriam, Ester, Adriana… memorie del futuro. Storie di nascondimento” parte dal dolore e dalla difficoltà di raccontare, concentrandosi su quello che si è costretti a dimenticare, piuttosto che su ciò che si ricorda. Esplora, con emozionanti flash clinici, il livello di nascondimento necessario per sopravvivere alla violenza traumatica delle tragedie della Shoah, delle Foibe, degli esodi degli Istriani. Questi ultimi eventi spiccano nel non venire mai citati dai numerosi autori italiani, anche psicoanalisti, che si occupano dei genocidi e massacri del 900. Quanto questo “patto denegativo” come lo definirebbe Kaes – alleanza inconscia a livello di macro gruppo sociale che stabilisce ciò che deve rimanere nascosto-  risente delle politiche di questi ultimi settant’anni, si chiede Cusin. Molto dolore e molte storie sono rimaste inascoltate perché intrappolate in una contrapposizione schizoparanoide di ideologie incapaci di dialogare tra loro. Una paziente parla “di sentire in sé un vuoto, infinito, come una buca profondissima senza fine, un qualcosa che cade, come se avesse la sensazione di pareti”. Viene da chiedersi se qualche evento traumatico possa essere accaduto alla famiglia della paziente -le cui origini si collocavano sul confine tra Italia e Ex Jugoslavia negli anni terribili delle stragi delle Foibe- ma anche semplicemente nel contesto socio politico in cui i genitori sono cresciuti. Forse una memoria violenta e traumatica potrebbe essere stata depositata nell’inconscio della paziente e proprio ora apparire in uno spazio di pensabilità? Emerge il discorso sul transgenerazionale.  Con “nascondimento”, Cusin intende uno spazio psichico della memoria sottratto alla medesima, negato e scisso, tenuto rigorosamente separato, reso impensabile con una sorta di patto denegativo. Conosciuto, ma non libero di essere pensato, come direbbe Bollas, fatto di singoli ricordi senza che sia possibile il collegamento tra di loro. Il nascondimento colpisce il collegamento tra singoli ricordi e quindi il significato dei medesimi. Cusin differenzia metodologicamente l’interpretazione dello storico dall’interpretazione dello psicoanalista che deve discernere la realtà esterna da quella interna che non è documentabile.  La frase “memoria del futuro” di Bion (1957) con la sua sintesi evocativa ricorda come, ad esempio, il genocidio che sta avvenendo nel mediterraneo, alimenterà memorie traumatiche che potranno essere raccontate solo tra decine di anni. Cusin rammenta agli storici che le testimonianze che si raccolgono in analisi sono tutt’altro che obiettive, ma è il modo con cui vengono deformati i ricordi che è d’interesse nell’analisi.  Alcune donne, di cui si accenna, sono molto anziane ed hanno attraversato la seconda guerra mondiale. Il vertice di questo intervento è sugli aspetti incistati e mai affrontati che solo alla fine della vita possono divenire racconto. Per esempio “Miriam” figlia di sopravvissuti alla Shoah, solo recentemente ha fatto dei collegamenti tra singoli ricordi spezzettati, riuscendo a mettere in dubbio le “versioni familiari”, creando interessanti e inquietanti intrecci. Riconosce che i dinieghi effettuati per anni sui propri ricordi sembrano ripetere le operazioni di nascondimento che i suoi genitori avevano adottato come strategia di sopravvivenza. Per esempio da neonata l’avevano registrata all’anagrafe come “figlia di madre ignota” per nascondere le origini ebraiche. Il nascondimento è la protezione che Miriam ha adottato per evitare il pensiero della violenza depositata nella sua vita, attraverso i vissuti negati dai suoi genitori, ed è grazie a questo nascondimento protettivo che è riuscita a sviluppare la forza che le ha permesso di dare senso alla sua storia. Ma quanto le è costato questo nascondimento? Per approfondire: Ambra Cusin, G. Leo (a cura di), Psicoanalisi e luoghi della negazione, 2011, ed. Frenis Zero.

È seguito un intervento di Guido Alfani, della Università Bocconi di Milano, “le crisi di mortalità e le trasmissione della disuguaglianza in Italia tra medioevo e Età moderna”. La trasmissione di cui si parla è quella delle disuguaglianze sociali – tema molto attuale- e di come essa è stata influenzata dalle crisi di mortalità (delle principali pestilenze del medioevo).

Molto appassionante l’intervento di Giovanni Contini, della Soprintendenza Archivista per la Toscana, “Shoah, stragi di civili, deportazione: i figli delle vittime”. Sono recenti le ricerche storiche relative alle stragi di civili italiani nel 1944-45. Nelle interviste i sopravvissuti mostrano come la memoria del massacro sia rimasta incombente e come abbia condizionato la memoria personale e le rappresentazioni collettive della comunità di riferimento. Emoziona il racconto di come in alcuni paesini toscani in cui erano avvenute stragi per opera dei nazifascisti oggi nessuno ne parlasse mentre in altri paesini limitrofi che condividevano lo stesso passato traumatico, esso fosse l’argomento prevalente e ingombrante. Oggi l’attenzione della ricerca storica si rivolge alle seconde e terze generazioni dei sopravissuti alla deportazione politica e alle stragi di civili.

La seconda sessione si è conclusa con una toccante ricostruzione storiografica supportata da foto e filmati di Cristoph U. S. Gustavus della Università di Brema, Germania. “Testimonianze seppellite. Osservazioni sui valori e limiti della oral history”. La storiografia per tanti anni ha trascurato la testimonianza orale, tranne che quella dei “protagonisti” illustri. Recentemente invece la “oral history” è divenuto un nuovo trend della storiografia. Gustavus è riuscito a dare voce viva e calda alle testimonianze di persone umili che descrivono le tragedie della guerra e i crimini commessi contro i civili. Dato che i giuristi ritengono il testimone non sempre come una prova valida e attendibile, le testimonianze orali sono confrontate con l’inventario archivistico e le ricerche svolte in Polonia, Italia e Grecia. Gustavus ha promosso un commovente incontro tra un barbiere italiano che era stato un deportato politico al campo di concentramento di Brema con una abitante di Brema con cui egli aveva avuto dei contatti umani nel periodo della deportazione. Su questi temi consiglio il libro di Schminck Gustavus Christoph U. (1994), Mal di Casa. Un ragazzo davanti ai giudici (1941-1942).  Bollati Boringhieri.

La terza sessione si apre con l’intervento molto atteso di Dina Wardi, psicoterapeuta di Tel Aviv, Israele. “Transizioni del trauma della Shoah. Le candele della memoria”. Nella relazione viene descritta la frattura intervenuta dopo la shoah nella continuità e nella trasmissione della memoria e identità a livello collettivo, familiare e personale nei sopravvissuti stessi, dei loro figli e anche nei loro nipoti. I sopravvissuti che si sono salvati fisicamente ed emotivamente da una disintegrazione totale hanno adottato dei meccanismi di difesa (diniego, repressione ed isolamento emotivo…) che hanno in parte impedito l’elaborazione del lutto. Le tre componenti centrali nell’identità dei sopravvissuti sono: identificazione con la morte (in generale e specificatamente con i parenti più vicini che sono spariti o morti); identificazione con la vittima; identificazione con l’aggressore. Nella seconda generazione, “le Candele della Memoria” sono i figli e le figlie dei sopravvissuti a cui i genitori hanno inconsciamente assegnato il ruolo della riabilitazione emotiva e mentale dell’intera famiglia. Questa trasmissione attraverso meccanismi proiettivi e di identificazione ha creato una identità frammentata e confusa -in un groviglio di parenti morti- nel mondo interno delle Candele, tanto più per coloro che portavano i nomi dei morti. Nel lungo e doloroso percorso terapeutico (individuale e di gruppo) le candele cercano di rompere il silenzio cercando informazioni, leggendo e aprendo un dialogo coi genitori. Riescono a ricostruire le immagini dei morti come figure vive, specifiche e complete e il dialogo interiore con loro crea la possibilità di elaborare gradualmente un processo di lutto e di separarsi dalla morte e dai morti. L’integrazione delle identità della Candele si completa dopo che identificano ed elaborano le tre componenti d’identità che hanno interiorizzato dai genitori. Il dialogo tra queste tre componenti frammentate gradualmente permette un sé più solido e una identità più definita.  Le esperienze terapeutiche, significative anche dal punto di vista della ricerca psicoanalitica– sulle terapie di traumi estremi e sui diversi tipi di setting-  sono descritte nel famoso libro di Dina Wardi(1992), Memorial Candles, reperibile solo in inglese ma anche in e-book.

Cristoph Cornelissen, Università di Francoforte, Germania “La cultura della memoria della seconda guerra mondiale e dell’olocausto in Germania: fasi, generazioni, storiografia”. Una prima fase, fino a metà degli anni ’70, fu caratterizzata da un silenzio pubblico che attribuiva la responsabilità dei crimini di guerra e lo sterminio degli ebrei solo a Hitler e al suo entourage. Seguì una seconda fase di ricerca sui criminali e sulla collaborazione delle istituzioni statali, tuttavia passò molto tempo prima che le sofferenze delle vittime furono oggetto di interesse pubblico. Questo processo dura tuttora e non si può dire completato. La relazione delinea la svolta avvenuta nel confronto con un passato scomodo mostrando come sia mutata l’immagine del passato con il cambiare delle generazioni, la “cultura della memoria” tedesca. I rappresentanti della politica tedesca visitano ora “i luoghi delle stragi” in Italia e in Grecia, ma ciò non significa che la civiltà tedesca sia disposta ad assumere completamente e finanziariamente la responsabilità per le conseguenze dell’occupazione tedesca.

Ha concluso il convegno Cristiana Facchini, della Università degli Studi di Bologna, “Memoria e Trauma. Tradizione ebraica e riflessioni teoriche”. Intervento suddiviso in tre parti. Nella prima viene analizzato come l’ebraismo ha costruito forme di ricordo e strutturato la memoria collettiva attraverso l’interpretazione della Bibbia, divenuto testo sacro, e l’organizzazione del tempo rituale. La Bibbia ebraica, insiste sul ricordo (zakhor), ma invita altresì alla sua messa in scena. La tradizione religiosa ebraica offre anche una riflessione su eventi “traumatici” di carattere collettivo, come la distruzione del tempio, che personale, come le storie connesse ai personaggi emblematici, come Mosè, David, o tragiche come quelle dei profeti. Storie che offrono uno sguardo sulla gestione del trauma. La seconda parte è invece dedicata alla costruzione rituale e al suo rapporto con la memoria collettiva. In particolare l’analisi di certi riti come Pesach e Purim mostra come essi abbiano veicolato messaggi resistenza o registrazione di eventi traumatici. Infine nella terza parte vengono condivise alcune riflessioni sul rapporto tra ebraismo e Shoah ricollegandosi alla riflessioni contemporanee su trauma e memoria e post-memoria.

Personalmente ritengo che i contributi del convegno siano estremamente attuali in questi giorni di complessa crisi di identità e coesione della Unità Europea nel pensare e affrontare la drammatica emergenza della Grecia, giorni anche di commemorazione del ventesimo anniversario del massacro a Srebrenica in Bosnia – considerato il peggior massacro in Europa dopo la fine del Terzo Reich-  e delle quasi quotidiane stragi dei migranti nel mediterraneo.

Potete trovare il programma, gli abstract e scorrere la galleria fotografica del convegno al sito

http://www.provincia.trieste.it/opencms/opencms/it/provincia/rapporti-istituzionali/memoria/Convegno-2015/

In questo sito nei prossimi mesi saranno pubblicati gli interventi integrali.

Il progetto è realizzato e sostenuto dalla Provincia di Trieste in collaborazione con Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Trieste; Comune di Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte; IRSML-FVG, Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia, Trieste;ANPI, Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, Trieste; ANED, Associazione Nazionale ex Deportati, Trieste;ANPPIA, Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti, Trieste;AVL, Associazione Volontari della Libertà, Trieste;SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, Trieste; IRCI, Istituto Regionale Cultura Istriana, Trieste;Federazione Associazioni Esuli Istriani, Fiumani e Dalmati, Trieste; Unione degli Istriani, Trieste.

In SpiPedia:

vedi la voce Trauma precoce cumulativo

vedi la voce Trauma/Psicoanalisi

In Report/Materiali: 15 Novembre 2014, TRIESTE, Integrazione e scissione

In Dossier: Psicoanalisi e Guerre

In Dossier: Ancora Strategie di Pace

 

 

 

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