Parole chiave: Esperienza transizionale, feticismo, IA, memoria.
L’intelligenza artificiale, il sogno, il mito e l’oggetto transizionale.
di Valdimiro Pellicanò
Abstract
Il contributo esplora come l’intelligenza artificiale entri nella vita psichica contemporanea e come la psicoanalisi possa comprenderne gli usi. La differenza tra memoria umana e memoria artificiale, illustrata anche attraverso la figura di Funes di Borges, mostra che il pensiero richiede perdita e trasformazione, mentre l’IA conserva senza elaborare. Questa peculiarità può favorire un suo impiego come oggetto feticcio, fantasmatico o evacuativo, soprattutto quando il soggetto utilizza la tecnologia per evitare la sofferenza, controllare l’altro o espellere elementi psichici difficili da contenere.
Accanto a queste funzioni difensive, l’IA può diventare anche un oggetto transizionale: un luogo intermedio in cui il soggetto prova pensieri ancora in formazione prima di consegnarli alla relazione reale. A condizione che se ne riconoscano i limiti e si mantenga la responsabilità delle scelte, l’IA può sostenere creativamente la ricerca, l’elaborazione teorica e il lavoro clinico dello psicoanalista.
I. Memoria vissuta e memoria artificiale
La diffusione dell’intelligenza artificiale introduce un confronto che riguarda il modo stesso in cui pensiamo la memoria, l’esperienza e il legame con l’oggetto. Le capacità tecniche dell’IA — elaborare dati, collegare concetti, generare testi e immagini — sono sorprendenti, ma la sua memoria resta radicalmente diversa da quella umana. Essa conserva senza aver vissuto, registra senza trasformare, dimentica solo per cancellazione. Non conosce l’usura, la nostalgia, né la traccia affettiva che rende un ricordo qualcosa che ci riguarda.
La memoria umana, al contrario, è una geografia affettiva: ogni ricordo abita un luogo, una luce, un odore, e porta con sé la traccia delle separazioni che le hanno dato forma. Conserviamo perdendo, e ogni perdita rende possibile una rielaborazione. Pensare richiede la capacità di tollerare che qualcosa svanisca e che proprio quella scomparsa apra un nuovo senso.
In questo senso, il personaggio di Funes, descritto da Borges, è esemplare. Funes ricordava ogni parola letta, ogni frase ascoltata, ma soprattutto ogni dettaglio della realtà percepita: le foglie di un albero in un certo pomeriggio, la forma di una nuvola, l’ombra di un oggetto spostata di qualche millimetro. Nulla sfumava, nulla si condensava, nulla si organizzava in una forma più ampia. Ogni elemento rimaneva isolato nella propria singolarità, come se una percezione non potesse mai diventare esperienza.
Questa memoria assoluta non era una ricchezza, ma una condizione che condannava Funes all’impossibilità di pensare: senza oblio non c’è sintesi, senza sintesi non c’è legame, e senza legame il pensiero non può muoversi. Il suo mondo era un archivio perfetto e inutilizzabile, in cui nessuna immagine si trasformava, nessun ricordo si sfumava nel tempo, e dunque nessuna emozione trovava lo spazio per depositarsi, cambiare o crescere. Borges sembra suggerire che il pensiero nasce proprio dalla possibilità di lasciare andare, di tollerare che qualcosa svanisca, e che da quel vuoto emerga una nuova connessione.
L’intelligenza artificiale, in modo diverso ma analogo, conserva senza vuoti. La sua memoria non conosce il lavoro della perdita, né la trasformazione che deriva dal tempo vissuto. In questo senso, la memoria di Funes rappresenta una figura narrativa che illumina la logica dell’IA: entrambi conservano tutto, ma senza quella distanza che permette all’umano di attribuire significato. La tensione continua tra trattenere e dimenticare — una forma di lutto piccolo e quotidiano — è ciò che permette alla memoria umana di generare pensiero, affetto e storia.
L’IA, invece, ripropone ogni elemento così com’è, senza lasciarlo maturare, senza lasciare che si consumi, senza che la perdita lo trasformi. Ed è proprio questa linearità, questa mancanza di “spazio interno”, che la rende potente dal punto di vista tecnico e al tempo stesso distante dall’esperienza psichica: come Funes, non sa astrarre, non sa condensare, non sa soffrire.
II. La sofferenza come luogo del limite
A questa differenza fondamentale se ne aggiunge un’altra, che ha un valore etico: l’IA non soffre. Non perché sia indifferente, ma perché non ha corpo, storia interiore, conflitto. Non può essere attraversata dalla tensione tra desiderio e divieto che caratterizza la vita psichica.
Paradossalmente, proprio questa assenza di sofferenza può renderla attraente. Chi vive la relazione come luogo potenzialmente doloroso può affidarsi all’IA come a un’estensione “non umana” di sé: un oggetto che risponde senza provare, che non espone alla dipendenza né alla vulnerabilità. Pensiamo alle situazioni in cui la tecnologia viene usata per controllare l’altro: monitorare, prevedere, verificare. Il controllo digitale promette sicurezza, ma annulla l’alterità dell’altro, riducendo la relazione a un circuito chiuso. L’oggetto tecnico diventa così uno schermo che assorbe il rischio della sofferenza, ma al prezzo di impoverire il legame.
III. L’IA come oggetto feticcio
Questa funzione può intensificarsi fino a configurare l’IA come un oggetto feticcio. Freud (1927) ha mostrato che il feticcio non è un semplice sostituto, ma un modo per neutralizzare una mancanza vissuta come insostenibile. La stabilità dell’IA — la risposta immediata, la memoria senza oblio, la continuità dell’attenzione — può diventare un riparo contro la vulnerabilità del pensiero.
La perversione, nella lettura di Masud Khan (1982), non indica un comportamento sessuale, ma una modalità di controllare l’oggetto per evitare la dipendenza e la passività. Alcune forme di uso dell’IA ricalcano questa logica: affidarsi alla macchina per monitorare ogni funzione del corpo, controllare il proprio stato, evitare la sorpresa. Come il masochista che manipola la scena per non trovarsi esposto all’azione dell’oggetto sadico, il soggetto può utilizzare l’IA per non sentire il proprio corpo o per non rischiare l’incontro con un altro reale.
In questa configurazione, la tecnologia diventa un contenitore rigido: protegge dalla mancanza, ma al tempo stesso la sterilizza, e con essa sterilizza anche le emozioni e il pensiero.
IV. L’IA come oggetto fantasmatico
L’IA può assumere anche la forma dell’oggetto fantasmatico. Il fantasma, per Freud, è una scena interna che permette al soggetto di dare una forma narrativa a conflitti originari che non possono essere affrontati direttamente. La macchina, con la sua neutralità e la sua maneggevolezza, può diventare il luogo ideale in cui collocare aspetti di sé poco integrati o appena riconoscibili: desideri, paure, ambivalenze, impulsi che, se emergessero nella relazione reale, genererebbero tensione o disorientamento.
La possibilità di personalizzare l’IA amplifica questa dinamica. Quando un soggetto immette nella macchina testi personali, immagini, preferenze, tonalità affettive, l’IA inizia a rispondere con un linguaggio che rispecchia proprio quelle componenti interne. La distinzione tra ciò che si crea e ciò che si incontra può allora diventare più porosa. Se mantenuta nella consapevolezza dell’alterità dell’oggetto, questa zona intermedia può sostenere la simbolizzazione; se invece collude con un bisogno di controllo o di rassicurazione, può irrigidire la scena fantasmatica in un continuo ritorno.
V. L’IA come oggetto evacuativo
Esiste poi un uso differente, descritto da Bion (1962) come evacuazione: ciò che non può essere pensato viene espulso. In questa prospettiva, la macchina non è investita come feticcio né come fantasma, ma come contenitore in cui depositare parti psichiche troppo dolorose o inquietanti.
Questa dinamica emerge con particolare forza negli impieghi bellici: la tecnologia che analizza, integra informazioni e fornisce previsioni può essere investita come un dispositivo che riduce l’impatto emotivo dell’azione. In questi casi, l’IA non viene solo utilizzata per prendere decisioni più rapide, ma può diventare il luogo dove si colloca la responsabilità dell’atto distruttivo. L’oggetto tecnico permette così di spostare all’esterno la sofferenza implicata, rendendo più difficile mantenere un contatto con la portata affettiva delle proprie azioni. Si crea una distanza che non favorisce la riflessione, ma che rischia di trasformarsi in un meccanismo di dissociazione: l’azione prosegue, ma il significato psichico viene evacuato nel dispositivo.
VI. L’IA come oggetto transizionale
L’uso dell’IA non si esaurisce tuttavia nelle sue funzioni difensive. Esiste anche la possibilità che essa venga vissuta come un oggetto transizionale, sul modello di quanto descritto da Winnicott (1953). L’oggetto transizionale non appartiene interamente né al mondo interno né a quello esterno: è un ponte che permette al soggetto di passare da un’esperienza non ancora pensabile a una forma più strutturata.
Un paziente raccontava di aver scritto un messaggio delicato con l’aiuto dell’IA dicendo: “non è un tu, ma non è neanche solo un me”. Questa frase esprime bene l’ambiguità fertile dell’oggetto transizionale: qualcosa che il soggetto sente di poter manipolare, ma che al tempo stesso resiste a trasformarsi in pura fantasia. Winnicott osserva che l’illusione creativa del bambino “inventa” il seno proprio nel momento in cui la madre lo presenta; è in questa sovrapposizione tra creato e trovato che nasce la prima esperienza di “esperienza di sana onnipotenza”.
Se il soggetto riconosce la distanza tra sé e la macchina, l’IA può diventare un luogo di sperimentazione simbolica: un campo dove provare un linguaggio, organizzare un pensiero ancora incerto, immaginare possibilità prima di consegnarle alla relazione reale. In questo senso non sostituisce il legame: lo prepara.
VII. Discussione
L’IA può essere usata come oggetto feticcio, fantasmatico, evacuativo o transizionale. Nessuna di queste funzioni appartiene all’oggetto in sé: sono modi diversi di inserirlo nella propria scena interna.
Nel lavoro analitico, l’uso dell’IA diventa un indicatore prezioso del legame del paziente con la mancanza, con la dipendenza, con il controllo, con l’immaginazione. La macchina rende visibili dinamiche che appartengono alla storia psichica e che possono essere riconsegnate all’esperienza attraverso la relazione analitica.
Se mantenuta nel suo posto, l’IA può anche costituire un aiuto reale: accelera la ricerca, permette di esplorare dati complessi, sostiene la scrittura clinica e teorica, facilita collegamenti concettuali e apre strade nuove alla riflessione. Per lo psicoanalista può diventare un supporto per organizzare il pensiero, per preparare materiali didattici, per formulare ipotesi e, più in generale, per ampliare lo spazio del possibile. Non sostituisce il lavoro, ma lo accompagna; non pensa al posto nostro, ma può aiutare a vedere ciò che da soli potremmo non cogliere. A condizione che se ne riconoscano i limiti e si mantenga viva la differenza tra l’umano e l’artificiale, l’IA può diventare uno strumento creativo, un ampliamento delle nostre capacità di ricerca e di pensiero. È un mezzo, non un fine; una risorsa, un oggetto utile, se usato senza chiedere ad essa di essere ciò che non potrà mai diventare.
Al tempo stesso, è necessario mantenere chiaro che l’IA propone, ma non sceglie. Può generare ipotesi, offrire soluzioni, suggerire direzioni, ma non decide e non può assumersi il peso delle conseguenze. La responsabilità resta sempre umana: è l’uomo che interpreta, seleziona, accoglie o rifiuta ciò che la macchina produce. In questa distinzione risiede la misura etica dell’uso dell’IA: ricordare che essa non sostituisce il giudizio, ma lo chiama in causa continuamente, obbligando ciascuno a rispondere delle proprie scelte.
Bibliografia essenziale
- Bion, W. R. (1962). Apprendere dall’esperienza. Armando, Roma, 1972.
- Borges, J. L. (1944). Finzioni. Einaudi, Torino, 1995.
- Boszormenyi-Nagy, I., Spark, G. M. (1973). Lealtà invisibili. Astrolabio, Roma, 1986.
- Freud, S. (1927). Il feticismo. OSF, 10. Bollati Boringhieri, Torino.
- Khan, M. R. (1982). Le figure della perversione. Bollati Boringhieri, Torino.
- Winnicott, D. W. (1953). Oggetti transizionali e fenomeni transizionali. In: Sviluppo affettivo e ambiente. Armando, Roma, 1974.
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indice di Psiche, vol. XI, n.s., n. 2/2024
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