Dossier

Alcuni brani dall’articolo di Marianne Leuzinger-Bohleber

6/03/12

 

Traduzione a cura di Maria Grazia
Vassallo Torrigiani

The Medea Fantasy. An unconscious determinant of psychogenic
sterility.

Marianne Leuzinger- Bohleber, Int. J. Psychoanal. (2001) 82, 323-345

 

“Abstract. L’autrice comincia sottolineando come i miti siano sempre stati
potenti veicoli di proiezione  di
fantasie inconsce ubiquitarie. Avendo rilevato l’importanza di alcuni
protagonisti maschili dei miti Greci nelle teorie di Freud, osserva che le loro
controparti femminili esercitano un uguale fascino, e suggerisce che il mito di
Medea per come è trattato da Euripide può essere invocato per illuminare una
fantasia inconscia centrale, individuata alla base della frigidità e sterilità
psicogena di parecchie delle sue pazienti. La manifestazione di questa “Medea
fantasy” è illustrata da un resoconto clinico in cui viene analizzato un sogno.
L’autrice riassume la storia di Medea come è narrata da Euripide, e prova a
darne una interpretazione analitica, richiamando l’attenzione  agli aspetti di “verità inconscia” inerenti
al mito che risultavano condivisi da tutte le pazienti del gruppo. Un caso
clinico mostra poi come la progressiva comprensione ed elaborazione di questa
fantasia abbia prodotto nella paziente un cambiamento nell’ esperienza della
femminilità, consentendole di diventare madre. Viene postulato che primitive
fantasie sessuali e ricordi rimossi di traumi relativi alle prime relazioni
oggettuali, quali la depressione materna, si combinino con ubiquitarie fantasie
corporee nel produrre l’inconscia Medea fantasy.”

( continuo la traduzione selezionando alcuni brani del lavoro)

“In relazione alle loro idiosincratiche e traumatiche primitive esperienze
oggettuali, ciascuna delle mie pazienti aveva sviluppato differenti forme della
Medea fantasy, benché le seguenti caratteristiche di questa “verità inconscia”
mi sembrano comuni a tutte loro. La propria femminilità, per ciascuna di queste
pazienti, significava inconsciamente “potere di vita e di morte”. Ciò è
connesso con angosce arcaiche relative alla propria distruttività, incluso il
potenziale impulso ad uccidere il proprio bambino. Il corpo femminile è
esperito con notevole ambivalenza o sostanzialmente ripudiato, dal momento che
si associa a fantasie corporee prevalentemente negative. Le funzioni del corpo
femminile non sono percepite come piacere, o potere, bensì come qualcosa di
perturbante, inaffidabile, potenzialmente distruttivo. I genitali femminili
sono inconsciamente simboli di “sanguinosa distruzione”, di una occulta
distruzione che colpirà non solo loro, ma anche il pene che li penetrerà e i
bambini potenziali. In più, il proprio corpo femminile è sentito inconsciamente
come appartenente alla madre, e non a se stesse. Questo è anche il contesto
degli attacchi inconsci alla generatività del corpo materno e – in una
identificazione con quest’ultimo – agli stessi (potenziali) prodotti della
propria femminilità.

In aggiunta, il fatto di essere donna ( sia in termini di passione sessuale
che di maternità) è esperito come dipendenza dal partner maschile e dal padre
del (potenziale) figlio. Questo dà conto di un sentimento di impotenza e di
profonda ferita, che a volte può provocare una intensa invidia del pene (come
nel caso clinico di Mrs. B) e un’ansia panica per la possibilità di essere
ingannate e abbandonate. Sia la sessualità che la maternità sono perciò
conflittuali, e in fantasia sembrano associarsi al pericolo di perdita di
confini tra il sé e gli oggetti, e di essere sommersi da incontenibili affetti
libidici e/o aggressivi. In particolare, la combinazione di sessualità e
maternità, è sentita come minaccia sia per il sé che per l’oggetto, e viene
associata a “morte” e “depressione” (perdita del sé). Tutte le pazienti erano
inconsciamente convinte che solo un unico essere potesse sopravvivere  incolume alla gravidanza o al parto: o la
madre o il figlio; o il sé o l’oggetto.

La sterilità psicogenetica e la frigidità erano le possibili conseguenze
della inconscia Medea fantasy nel gruppo di donne che descrivo in questo
lavoro.”

………..

“Va richiamata l’attenzione al fatto sorprendente , emerso nel corso del
trattamento psicoanalitico, che tutte le dieci donne avevano in comune un certo
numero di tratti biografici di un certo peso – esperienze traumatiche che
avevano sovrastimolato le loro inconsce fantasie primitive infantili, con gli
impulsi sessuali e aggressivi a queste associate. Queste esperienze includevano
traumi rilevanti durante la fase edipica (perdita del padre, brusco allontanamento
dal paradiso edipico, ” danno” ai rivali edipici dovuto a malattia, divorzi
distruttivi e il probabile, narcisistico abuso materno durante l’adolescenza e
così via).

Un altro sorprendente tratto comune che emerse durante questi lunghi
trattamenti, fu che le madri di tutte queste donne avevano sofferto di severa
depressione durante il primo anno di vita
delle pazienti, e si erano sottoposte a lunghi trattamenti con farmaci
antidepressivi. Questi seri disturbi depressivi
materni  avevano profondamente
segnato, in queste pazienti,  il
primitivo sviluppo del sé e i processi di integrazione degli impulsi istintuali
primitivi libidici e aggressivi. Fonagy et al. descrivono in dettaglio le
patologie del sé che bambini con madri depresse devono sviluppare come strategie
di sopravvivenza: …

Come mostra il materiale clinico, le pazienti si erano identificate
inconsciamente con il “corpo morto, femminile” delle loro madri depresse, e
questo aveva rappresentato una determinante della loro sterilità psicogenetica.
In aggiunta esse avevano operato una scissione rispetto ai propri impulsi
primitivi libidici e aggressivi, escludendoli di fatto in tal modo da un
successivo processo di differenziazione e sviluppo psichico. Questi impulsi si
erano combinati -nella inconscia Medea fantasy – con arcaiche, ubiquitarie  fantasie corporee, di un sè  distruttivo, divorante  e pieno di invidia. Di conseguenza, in
fantasia, le pazienti attribuivano la depressione materna ai propri impulsi
distruttivi: immaginavano di aver provocato con la loro invidia, rabbia,
disperazione, la distruzione dell’oggetto materno capace di dare nutrimento.
Gli impulsi e fantasie scisse, psichicamente
non integrate, hanno condizionato il successivo sviluppo psichico. Per
esempio, con questa configurazione sullo sfondo, i  processi di individuazione e separazione sono
diventati una battaglia tra la vita e la morte: da una parte, nell’evenienza di
una nascita (o di una gravidanza), o il sé o l’oggetto – ma non entrambi – sarebbero
potuti sopravvivere; e d’altro canto, la separazione dall’oggetto primario
significava o la distruzione del sé che cercava la propria individuazione, o
dell’oggetto primario (depressivo). Per questo motivo, inconsciamente, per
queste pazienti il proprio stesso corpo apparteneva alle loro madri, dal
momento che i confini tra il sé e l’oggetto erano rimasto in gran parte non
differenziati.”

………..

“Le pazienti qui descritte sembravano utilizzare il loro corpo come
protezione contro ulteriori traumi: la loro frigidità e sterilità psicogena
costituivano un baluardo contro una vicinanza fisica ” fusionale” con un
oggetto d’amore, che veniva associato alle traumatiche esperienze della
relazione con l’oggetto primario per quanto riguarda gli ambiti della
sessualità, della femminilità e della maternità. Un altro elemento degno di
nota è che , per queste pazienti, era stato virtualmente impossibile compensare
il trauma precoce vissuto con l’oggetto primario “morto” e non empatico, in
quanto i padri si erano mostrasti scarsamente disponibili durante la primitiva
fase di triangolazione, aggiungendo un ulteriore difficoltà al processo di
separazione dall’oggetto primario ( vedi Rotmann, 1978; Herzog, 1994 ).Molti
dettagli biografici suggeriscono che le madri di queste pazienti avevano cominciato
ad uscire dalla propria depressione durante il secondo anno di vita delle
figlie, ed avevano facilitato uno sviluppo prematuro e compensatorio delle
istanze di autonomia delle loro bambine, cosicché i conflitti arcaici
distruttivi in queste pazienti sembravano essere confinati prevalentemente alle
fantasie relative alla femminilità. Per esempio, tutte loro mostravano un buono
sviluppo cognitivo (cf. la “saggezza” di Medea). Nell’infanzia, avevano
mostrato un notevole interesse nei cosiddetti giochi e attività da maschietti,
piuttosto che in quelli da bambine, (cfr. Mayer, 1991) – cosa che senza dubbio
segnala il radicamento pregenitale della intensa invidia del pene di queste
donne. Per loro, il mondo dei padri e dei maschi, appariva per molti versi più
rassicurante di quello delle madri e delle femmine. Come nel caso di Mrs. B, queste
bambine hanno tuttavia cercato di separarsi da una ” pericolosa madre arcaica”
attraverso una identificazione con il padre pregenitale: il pene paterno
(anale) divenne così simbolo di riparazione della perfezione narcisistica,
simbolo di un oggetto non danneggiato (per questo cfr. Chasseguet-Smirgel,
1988).  Tuttavia i padri, che in realtà
sembrano essere stati spesso deboli o assenti, probabilmente hanno offerto alle
loro figlie troppo poco per permettere a queste arcaiche fantasie compensatorie
di differenziarsi. Oliner (2000) ha descritto analoghi processi di
identificazione con il padre preedipico in un altro gruppo di donne, da lei
caratterizzato come “cattive madri”.

I traumi affrontati durante la fase edipica una volta ancora vennero a
sconvolgere il fragile equilibrio di queste bambine:  si riattivarono gli impulsi arcaici scissi,
conferendo al conflitto edipico le qualità espresse nel mito di Medea. I punti
focali divennero di nuovo assassinio e suicidio – originati da vendicatività,
gelosia e rabbia narcisistica. L’unica via di fuga, dunque, apparve essere la
fuga dal “triangolo edipico” …. “