Cultura e Società

“The Whale” di D. Aronosfky. Recensione di R. Valdrè

4/03/23
"The Whale" di D. Aronosfky. Recensione di R. Valdrè

Autore: Rossella Valdrè

Titolo: “The Whale”

Dati sul film: regia di Darren Aronosfky, USA, 2022, 117’

Genere: drammatico

Parole chiave: eccesso, lutto, nostalgia, corpo, omossessualità

Charlie è uno stimato professore universitario di letteratura, tiene corsi on line molto apprezzati dai suoi studenti, ma la finestra zoom del suo schermo è nera, Charlie non si mostra: insegna al buio, nascosto. A nulla sembra valere una profonda cultura che lui solo possiede in quella provincia profonda, a meno che non si nasconda nel suo appartamento, baricentro e punto di attrazione in cui si svolge l’intera scena del film, nell’arco di cinque giorni.

Tratto dalla pièce teatrale di Samuel D. Hunter, “The Whale” deve infatti gran parte della sua forza espressiva alla scelta di aver affidato tutta la narrazione all’unico spazio dell’appartamento, claustrum protettivo ma anche prigione, nido di memorie e specchio di una soggettività che, come dice Charlie, “si è lasciata andare”. Si intende spesso, con quest’espressione di uso comune, un preciso scenario psicoanalitico: Eros si indebolisce nel gioco per la vita, varie ragioni come i traumi, logorio, le perdite, ne causano il disimpasto e il posto è vinto progressivamente dal suo antagonista Thanatos, e una delle vie attraverso cui ciò può accadere è sotto le spoglie di un intenso piacere: un eccesso, una dipendenza, una droga. È anzi, da sempre, una delle vie più utilizzate dagli uomini, menzionata da Freud ne Il disagio della civiltà (1929) come una delle modalità per affrontare il male di vivere. Piacere particolare, che sfocerà nel dispiacere: l’al di là del piacere.

Il regista avrebbe potuto scegliere la figura del tossicodipendente da eroina, da nuove droghe, o l’alcolista, figure molto frequentate dal cinema, ha invece scelto per Charlie la deriva dell’obeso, una dipendenza oscena che non è mai, neppure oggi e soprattutto oggi, riconosciuta come tale, a cui non si riconosce il beneficio di un passato traumatico, della sofferenza che ha portato lì, alla droga più a portata di mano, il cibo, e il cibo a poco prezzo, quello cosiddetto spazzatura, di cui il corpo si fa immondo gabinetto.

“The Whale”è il finale di una storia, tenero e splendidamente interpretato da Brendan Fraser, dell’eccesso come cura di un lutto.

Charlie è un uomo di mezza età che ha perso tutto, nell’aver perso l’uomo di cui era innamorato e per il quale ha abbandonato la famiglia, alla quale era ugualmente fortemente legato; ma questo amore omosessuale non gli viene perdonato, la figlia gli è sottratta e ora, adolescente rabbiosa, Charlie non ha altro desiderio che lasciarle un’eredità, morale e materiale, prima della morte. Nonostante gli insulti della vita, Charlie è un uomo che ha fiducia nella parola e nel pensiero; la parola letteraria percorre tutto il film, lo apre e lo chiude con l’immagine della balena di Melville, simbolica lotta tra Bene e Male, lotta nella quale si dibatte lui stesso, romanzo che ha sempre colpito la sua fantasia e inaspettato aggancio con la figlia.

Un termine con cui spesso Charlie interroga la piccola girandola di personaggi intorno a lui è “disgustoso”: mi trovi disgustoso? Intanto, la televisione annuncia la vittoria di Donald Trump. Charlie rappresenta l’individuo che raccoglie in sé tutte le proiezioni di scarto dell’universo conservatore: gay, colui che rompe la famiglia tradizionale, grasso. Un peccatore. Uno che cede alla carne, al sesso e alla gola, ossia alla pulsione. Un debole, senza volontà, senza autostima. Che si procura da sé il suo male, il massimo della vergogna nell’etica americana che spinge al progresso. Come ha scritto la saggista Roxanne Gay sul New York Times all’uscita del film al Festival di Venezia, dove fu acclamato, occorre allo spettatore un certo lavoro empatico per immedesimarsi nel personaggio. L’eccesso e la mancanza vanno insieme ma, nel caso dell’obeso, la seconda si nasconde sotto il primo e sembra non urlare più nessuna pretesa. Mentre altre figure dell’eccesso sono state nel tempo associate anche al genio e alla sregolatezza, ad artisti, scrittori e musicisti, nessun genio si associa all’obeso, nessuno di noi vorrebbe riconoscervisi: egli è sempre l’altro, è lui lo sporco, l’avido, il pigro, l’incontinente, è un abisso che tutti temiamo e di cui abbiamo orrore, e alla maggior parte di pubblico non tende a suscitare empatia o tenerezza, nonostante si tratti di un soggetto devastato dalla perdita, a cui ha fatto fronte suicidandosi lentamente con l’eccesso. Come ci ricorda Freud in L’Io e L’Es (1922), poiché “l’Io è soprattutto un Io corporeo”, quando il corpo si modifica così massicciamente, l’Io si modifica: Charlie è un uomo colto e sofisticato ma essendo un grande obeso si sente ed è percepito come una bestia immonda, o al meglio come un bambino ingordo, un egoista. Solo l’amica infermiera gli è accanto, ha cura del suo corpo e ne rispetta la volontà di morire.

Darren Aronofsky è un regista che sa come trattare il corpo; di tutti i suoi film, questo è quello più in linea con “The Westler” (Leone d’Oro nel 2008), dove un vecchio lottatore di wrestling tornava sulla scena: corpi che raccontano di una sconfitta, una resa, eppure insieme una presenza, una forza, una personalità.

Altra frase ricorrente nei pochi personaggi che bussano alla porta di Charlie è che “vogliono aiutarlo”: l’altro, che prima lo ha respinto, apparentemente soccorrevole sarebbe desideroso di salvarlo. Ma l’anima del personaggio vede, da un lato, una radicale libertà — vivere e morire a modo mio — dall’altro la presenza di una struggente nostalgia, che permea tutto il film e si condensa nel ricongiungimento nel ricordo e ad un mitico ritorno  al tempo perduto.

L’eccesso, in tutte le sue forme di cui l’obesità credo sia la più infrequente per la vergogna che perseguita il corpo dell’obeso, il cosiddetto fat shaming, abita la stanza d’analisi. Il troppo di cui il paziente non sa fare a meno, che sia sostanza, gioco, sesso, cibo, tutte queste o alternativamente una o l’altra a seconda delle fasi della vita. Fame di oggetti, anche persone se usati come sostanze, affligge molti pazienti e molte persone in genere. Spento un eccesso, spesso il bisogno si sposta su un altro. I lutti, e i lutti cumulativi soprattutto, sono spesso l’occasione scatenante. Tutti i personaggi del film, tuttavia, vivono perdite, e non sembra che l’eccesso curi, sebbene illuda come un balsamo tra i più seducenti e a portata di mano, capace di inebriare e silenziare il corpo, con le sue dolorose tensioni, le urgenze interne, di creare un nirvana, laddove la parola non sembra essere sufficiente, sebbene estremamente benefica. Il film risulta così dominato dal contrasto tra l’eccesso del corpo pulsionale e la costante presenza della parola poetica, sua sublimazione; ancora una volta il cinema, attraverso le immagini di poche giornate finali della vita di un uomo, porta lo spettatore al cuore della natura umana, della sua irriducibile complessità.

Bibliografia

Freud S. (1922). L’Io e l’Es. O.S.F., 9.

Freud S. (1929). Il disagio della civiltà. O.S.F., 10.

Chi ha letto questo articolo ha anche letto…

Riccardo Lombardi. Il corpo strumento per vivere e comprendere. Video-intervista di Anna Migliozzi

Leggi tutto

Le dimensioni traumatiche dell’esperienza psichica. Una breve riflessione. T. Bastianini

Leggi tutto