Dossier

Il dialogo aperto

9/12/15

MARIO ROSSI MONTI
psichiatra, Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana (SPI) Presidente del Centro Psicoanalitico di Firenze (CPF).Ordinario di Psicologia Clinica 2 presso il Corso di Laurea Magistrale in Psicologia Clinica dell’Università di Urbino Carlo Bo,Responsabile Scientifico del Centro per la Ricerca, Formazione e Intervento in Psicologia Clinica (CERSPIC)

CHIARA TARANTINO
psicologa clinica. Ha curato e tradotto: Seikkula J. a cura di Chiara Tarantino, 2014, Il dialogo aperto. L’approccio finlandese alle gravi crisi psichiatriche.  Giovanni Fioriti Editore

In Lapponia dagli anni ’90 i servizi psichiatrici pubblici si sono dati una organizzazione innovativa che va sotto il nome di Metodo del Dialogo Aperto (Open Dialogue – OD) volta al trattamento delle gravi crisi psichiatriche, con particolare attenzione agli esordi della patologia schizofrenica. Questo modello è stato sviluppato da Jaakko Seikkula (Seikkula J. a cura di Chiara Tarantino, 2014, Il dialogo aperto. L’approccio finlandese alle gravi crisi psichiatriche.  Giovanni Fioriti Editore.)  e si inserisce in una tradizione psicopatologica che ha sempre privilegiato la possibilità di comprensione degli esordi psicotici in relazione alle vicende di vita del soggetto e a eventuali esperienze di carattere traumatico. Questa tradizione risale al concetto di psicosi psicogena reattiva di Wimmer e affonda le radici in quella corrente della psicopatologia tedesca che, con Ernst Kretschmer, aveva fatto del “delirio di rapporto sensitivo” il paradigma della comprensibilità di esperienze deliranti apparentemente incomprensibili. Il metodo del dialogo aperto è figlio di questa importante tradizione che ha introdotto un principio dinamico in una psicopatologia tendenzialmente monolitica e fissista e rappresenta il naturale sviluppo di teorie e pratiche che risalgono alla fine degli anni ’60 (il Trattamento adattato al bisogno di Yriö Alanen). Il gruppo di ricerca finlandese diretto da Alanen (1993) dette vita nel 1968 al “Turku Schizophrenia Project” con l’obiettivo di sviluppare un modello di trattamento psichiatrico pubblico destinato a pazienti schizofrenici e alle loro famiglie caratterizzato da estrema adattabilità e flessibilità (di metodi e strumenti): l’idea di una terapia “su misura” per le psicosi schizofreniche era emersa a partire dalla constatazione della radicale eterogeneità delle forme cliniche della schizofrenia e dalla conseguente necessità di integrare tra loro interventi prima ritenuti antitetici. Il primo passo era stato rappresentato da un importante progetto di formazione degli operatori psichiatrici di tutti i livelli che avevano partecipato a un training multiprofessionale in terapia familiare della durata di tre anni. A causa del fatto che i  docenti del Training erano di formazione psicoanalitica si era realizzata fin da subito una situazione singolare e creativa nella quale una prospettiva di carattere sistemico-familiare si era intrecciata con una prospettiva psicoanalitica. Alanen (Alanen Y. ,1993,  La schizofrenia. Le sue origini e il trattamento adattato al bisogno. Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2005)

1993) aveva rilevato come questa combinazione di competenza psicoanalitica e sistemica avesse rappresentato fin dall’inizio un grande vantaggio, sia nel corso del training sia nel successivo sviluppo del modello di intervento che utilizzava un setting allargato di tipo familiare.

A partire da quella esperienza, nel corso degli ultimi venticinque anni, pratica clinica e ricerca hanno continuato a intrecciarsi in Lapponia, anche  grazie al rapporto costante  tra sistema sanitario  e università. Questo dialogo tra pratica, ricerca, accademia e servizi pubblici ha prodotto una moltitudine di evidenze cliniche che conferiscono autorevolezza e consistenza all’OD grazie anche alla pubblicazione dei primi studi dai quali è emersa una alta percentuale di guarigioni psicopatologiche e sociali insieme con una diminuzione del tasso di cronicizzazione (Balter M. (2014) Talking Back to Madness. Science, Vol. 343 no. 6176 pp. 1190-1193).

Il Dialogo Aperto si serve attualmente di 6 squadre mobili di intervento sulla crisi (per una popolazione di 72000 abitanti) incaricate di organizzare e condurre il trattamento per ogni nuovo caso di esordio psicotico. Ogni équipe è composta da un gruppo multiprofessionale di operatori (psichiatri, psicologi, psicoterapeuti, infermieri…) che, ad ogni nuova richiesta di aiuto, organizza il primo incontro al domicilio del paziente entro 24 ore dalla richiesta. A questi incontri partecipano il paziente, i membri della famiglia e i membri significativi della rete sociale del paziente che vengono selezionati con l’aiuto del paziente stesso e dei suoi familiari, secondo una logica per la quale la risoluzione dei problemi non può prescindere dai contesti sociali nei quali il problema è sorto. Chi riceve la telefonata si occupa di costituire il team che dal primo incontro si assume la responsabilità di accompagnare e seguire il paziente per tutto il tempo necessario alla soluzione della crisi e in qualsiasi setting (se è necessaria una fase di ospedalizzazione lo stesso team organizzerà incontri di dialogo aperto nel reparto ospedaliero). Offrire un aiuto immediato e tempestivo permette di ridurre notevolmente il periodo di psicosi non trattata (Duration of Untreated Psychosis), uno dei fattori maggiormente connessi alla prognosi del disturbo.

Tutte le persone coinvolte negli incontri divengono potenziali partner competenti nel processo di analisi, pianificazione e cura. Nello spazio che si crea tra i partecipanti al dialogo, ognuno esprime, con la propria voce, la personale visione del problema contribuendo a generare una nuova comprensione condivisa che va al di là della cognizione che ogni singolo partecipante, inclusi i membri dello staff, ha della crisi in atto. Il team non pianifica anticipatamente i temi dell’incontro che scaturiscono invece naturalmente nel momento presente, assecondando la “pressione” esercitata dalla presenza di tutti gli attori coinvolti. L’obiettivo è fare emergere, nello spazio di dialogo tra i partecipanti, una nuova rappresentazione della situazione problematica e un linguaggio co-costruito e condiviso per esprimerla. Per muoversi in questa direzione è necessario, fin dall’inizio, dare fondamento a una relazione sicura, magari anche con il ricorso, nei primi 10-12 giorni, a incontri giornalieri.

Le conversazioni sviluppate in maniera condivisa sono più importanti dei temi e dei contenuti che vengono affrontati e l’interazione, per tutto il tempo, si basa sulla possibilità che chiunque si senta ascoltato e degno di ricevere risposta: ogni frase pronunciata si configura come una risposta a qualcosa che è stato detto prima, in un flusso continuo che si nutre dei contributi di tutti e non ignora la parola di alcuno. Un elemento fondamentale utile a mantenere questa condizione fluida è rappresentato dalla capacità degli operatori di tollerare condizioni di incertezza, senza agire immediatamente nella direzione della chiusura di un discorso tramite decisioni operative affrettate e premature. Un atteggiamento che richiama da vicino la “capacità negativa” descritta da Keats e ripresa da Wilfred Bion per indicare la necessità in psicoanalisi di lasciare la mente aperta alle diverse possibilità: di fronte ad atteggiamenti o pensieri in contraddizione tra loro, è essenziale lasciare aperto uno spazio nel quale si possa sviluppare una tensione tra le posizioni in gioco.

Nel metodo del Dialogo Aperto tutto quello che riguarda il percorso terapeutico è discusso apertamente, in presenza di tutti. Non sono previste riunioni separate per “pianificare” il trattamento per i membri dell’équipe.  Tutte le questioni e le decisioni inerenti il trattamento vengono discusse all’interno degli incontri lasciando che ognuno prenda parte alla conversazione. Alla dimensione dell’ascolto responsivo, che fa da sfondo continuo al lavoro di gruppo, si associa la dimensione della conversazione riflessiva. La dimensione dell’ascolto responsivo si fonda sulla centralità dell’ascolto e sull’idea, tratta dal filosofo russo Michail Bachtin (Bachtin M.(1981), The dialogic imagination. University of Texas Press, Austin), al quale Seikkula si è fortemente ispirato, che per l’essere umano non esista niente di più terribile della mancanza di una risposta: la parola cerca sempre l’ascolto, è volta alla  comprensione rispondente, al rispondere alla risposta in una circolarità che si autoperpetua all’infinito. Le parole del paziente psicotico vengono invece spesso ignorate e incontrano in risposta solo il silenzio: se queste parole non si inseriscono in una dimensione dialogica e polifonica (come quella che il  metodo del dialogo aperto promuove) restano intrappolate in una condizione di incomprensione e isolamento che consolida il delirio come discorso monologico. La dimensione della conversazione riflessiva si esplicita invece nel gruppo quando membri del Team discutono idee, affermazioni, osservazioni, atteggiamenti dei membri del gruppo davanti a tutti i partecipanti. Una posizione che aiuta a ricordare che, anche nel setting psicoanalitico, l’interpretazione non è da pensare soltanto nei termini del dire qualcosa a qualcuno, ma anche in quelli del dire qualcosa davanti a qualcuno.