
Parole chiave: femminicidi, psicoanalisi, femminismo, femminile-maschile, violenza sociale, politica, istituzioni, pensiero necessario, mito e metodo
Abstract
Nell’articolo si parla di un fenomeno sociale drammatico non solo italiano, i femminicidi, con un focus sul nostro habitat umano e sulla nostra società. Si ragiona secondo un punto di vista psicoanalitico, in contatto con altre sensibilità sociali, in particolare con il mondo femminista di studi sul genere. Nessuna tesi possibile qui ma spunti di riflessione umana e clinica, a partire dallo sconcerto e dai pensieri che questi omicidi di donne suscitano. Si discute intorno alle istituzioni, la famiglia, la legge, l’educazione e alla loro crisi come elemento di vulnus sociale che di questi eventi delittuosi è intreccio e sfondo. Si introduce l’elemento politico come idea di necessità, a partire dai corpi delle donne, a significare l’umano vivere all’interno di un consesso e di una comunità. Si usa poi il mito e la letteratura per raccontare possibilità diverse, altri modi di abitare psichicamente e socialmente il femminile-maschile, prefigurazioni di un in comune, che è interno al più generale discorso sul metodo che l’autrice sta portando avanti dentro un gruppo nazionale di ricerca della SPI, il Gruppo Psicoanalisi e Ruolo Pubblico.
Sui femminicidi e sulla violenza
Loredana Betti
“…credo che esista tutt’oggi un tipo di maschilità normativa che resta ben descritta dall’analisi che proposi e che, soprattutto, resta dominante a livello sociale.”
Judith Butler, Che mondo è mai questo? (2022)
“Negli uomini che uccidono le donne la violenza è direttamente proporzionale alla loro vulnerabilità psichica. Un senso profondo di impotenza accompagna i loro sentimenti di amore, per cui vogliono sbarazzarsene, diventando spietati.”
S. Thanopulos, La solitudine della donna (2018)
Da dove e da cosa partire quando si affronta un tema umano, sociale e politico così importante, il femminicidio, e anche drammaticamente urgente? Partire da noi è la prassi che il movimento femminista ha promosso ma è anche la postura psicoanalitica che abbiamo quando, a partire dalla clinica, proponiamo le nostre riflessioni.
Ecco quindi che il nostro modello, la psicoanalisi, ci aiuta a congiungere due punti di vista, quello psicoanalitico e quello femminista che, dato il tema che tratteremo, debbono potersi dare forza e anche metodo. La cronaca la conosciamo, ma prima qualche precisazione.
Ho scritto questo articolo qualche mese fa, sull’onda di un femminicidio di cui mi avevano colpita certe caratteristiche che avevano a che fare con il sospetto di complicità della madre del ragazzo omicida, su cui le indagini degli inquirenti sono ancora in corso. Lo ripropongo ora, anche se quella cronaca che lo ispirò è stata tragicamente superata dal più recente femminicidio di Martina Carbonaro, quattordicenne di Afragola, le cui caratteristiche sposterebbero su altri temi caldi le mie considerazioni.
Forse le colorerebbero di emozioni ‘nere’, se possibile ancora di più ora, dato che man mano che questi delitti aumentano, per paradosso niente si muove, nessuna misura operativa, culturale, educativa e sociale a contrasto. Un’inazione collusiva spaventosa, un’impotenza che ci afferra a caldo dentro lo scandalo dell’evento, l’ennesimo, e l’orrore dei dettagli. E il dolore che proviamo è diffuso a raggiera e pervasivo, a partire da quello insopportabile degli intimi delle vittime, per arrivare a tutte e tutti noi e ci satura l’anima.
Ripropongo quindi quanto scrissi, spinta allora dall’omicidio di Ilaria Sula, uccisa da Mark Samson nel marzo scorso, nello spirito di contribuire a proporre pensiero, attenzione, preoccupazione per un tema tragico che ci vede coinvolte come donne e poi come psicoanaliste.
Scrivevo qui che i circa 150 femminicidi all’anno in Italia, dato ISTAT (www.Istat.it), non nascono in un mondo sociale neutro, che non dovrebbe stupirsi quindi delle faglie di violenza sulle donne e invece dovrebbe rintracciare, nelle manifestazioni violente ed eccedenti divenute metodo di relazione, le forme estreme di comportamenti violenti gravi, divenuti leciti, dilagati in modo strisciante nella società e improntati, anche nella normale comunicazione, alla possibilità di dare la morte, alla guerra reale, normalmente contemplata come inevitabile, senza un ‘katechon’ che freni e che porti ragioni utili a fare altro, a metodi alternativi di condursi. Un pensiero ‘unico’ che ci sta mangiando mente ed anima, che non esplora metodi di differenza, rigetta un pensiero femminile femminista, perché culturalmente minoritario e ostativo al mainstream quando parla e prepara parlamenti interiori, democrazie con altre logiche, uscite dal demone guerriero, che questo pensiero critico considera tutt’altro che stato di necessità ed inevitabile.
Non c’è oggi nel consesso sociale nessun argine all’agire impulsivo che sia culturalmente e politicamente utile, la disperazione bianca, quieta e diffusa che ci invade non trova riparo né dispositivi di ascolto. Parliamo certo tra di noi di opportune misure e pratiche professionali, formule psico e psicoanalitiche, ciò che occorre fare ci appare davanti agli occhi ma poi sappiamo bene quanto anche al nostro interno, mondo interno profondo, mondo societario nostro compreso, siamo ben lontani e lontane dal fare esperienza di un pensiero che cura, contiene, nutre, argina.
Questo tempo distruttivo e drammatico colonizza tutti, psicoanalisti compresi. Il femminile poi, la questione del femminile, rimane ferita aperta, psichica, culturale, istituzionale. Facciamo bene ad occuparcene e non credo che ci siano sedi giuste per farlo, ogni sede e ogni tempo essendo giusto. E’ anche affare di etica personale e professionale, direi.
Quindi ora procederò a riallacciarmi allo scritto che composi su quella spinta, alla fine forse buono anche qui per tenere bassa la rabbia, proporre spunti di pensiero, diverse logiche sociali del condursi tra di noi, ma soprattutto a indicare necessità di attenzione e quel ‘tenerci’ che spero promuova altra attenzione, altra espressione.
Facevo nello scritto, che d’ora in poi riporto com’era, riferimento alla dinamica di quel femminicidio del mese di marzo, l’omicidio di Ilaria Sula, dentro un ‘copione’ con molte ridondanze e similitudini con altri femminicidi. E dicevo che la dinamica è in fondo la stessa, che si trattava e si tratta, in fondo anche ora, della morte (reale e simbolica) di due giovani annientati entrambi, anche se in modo diverso e senza equivoci di responsabilità, con un carnefice omicida, lui, che uccide lei, la vittima, che lo rifiuta.
In altri casi analoghi l’età cambia, i protagonisti sono più adulti, ma la dinamica rimane questa: il rifiuto di lei alla relazione amorosa, a fatica uso la parola, rifiuto che il ragazzo (l’uomo) non accetta, sembra motivare il gesto omicida. E’ il sentirsi respinto che innesca nel maschio una reazione di rabbia violenta che spinge ad uccidere.
Poi, in questo caso, è adombrata una variante criminale che necessita di altre riflessioni intorno al maschile (paterno) e al femminile (materno). La madre del ragazzo omicida, Mark Samson, è indagata per complicità nell’occultamento e forse nel trasporto del corpo morto della ragazza, che per una intera settimana è giaciuto in una discarica.
Questo fatto, pur con tutte le cautele che richiedono le indagini in corso, insieme alla recente sentenza a carico di Filippo Turetta, omicida di Giulia Cecchettin un anno fa’, che ha condannato il ragazzo all’ergastolo solo per uno dei tre capi di accusa, la responsabilità dell’atto omicida premeditato, cassandone due, la crudeltà e il reato di stalking, ha ampliato il mio campo di lavoro, anche stimolata dalle molte proteste alla sentenza Turetta, della famiglia, del movimento femminista, da parte di vari ambiti sociali, intravedendo questi nella sentenza cecità e insensibilità istituzionale.
Su questo la mia riflessione, fatti salvi gli aspetti legali e la correttezza formale della sentenza, su cui non entro, si dirige verso quei parametri di ‘sensibilità’ socio-politica, già ampiamente da altre istituzioni ignorati e mi pare che la sentenza Turetta e il caso Samson focalizzino l’attenzione all’elemento istituzionale e sociale che permea tutte queste vicende, rivelandone la crisi, i malintesi, la debolezza di bastione protettivo, dentro legami fragili e invertiti di senso, che innescano nelle persone un vissuto di abbandono, di profonda solitudine e, come nella sentenza a carico di Filippo Turetta, un’idea della Giustizia che amministra ma disattende l’umano.
Questa desertificazione istituzionale avviene a cominciare dalla famiglia e qui sorge la domanda su quale amore materno sia, malinteso amore materno, quello che, nel caso della sospetta complicità della madre di Mark Samson, collude con la perdita di ragione e vuole proteggere ad ogni costo il figlio dal cadere, sprofondando poi tutti, simbolicamente e realmente, nel buio di una discarica, insieme al corpo giovane della ragazza morta. Questo corpo di donna però non è metafora ma drammatico reale che chiude, con la morte, ogni possibile accesso al simbolico delle differenze, del dolore, del non essere scelti e comunque rimanere vivi e vive, seppure nel difetto che ci costituisce.
Il potere delle madri rimane nell’atto creativo della vita generata e della vita rappresentata. Il dono del simbolico sopporta la perdita di potenza, l’accettazione del limite e dell’assenza, della mancanza che causa dolore, del sopravvivere potendo non vincere.
Questo fallimento, delle micro istituzioni e delle macro, in primis la famiglia, fa dire spesso: “Ma dov’è il maschile?”, oppure: “Sempre le madri, ma i padri?”.
Sociologicamente e politicamente decostruiti nella funzione, sopravvivono oggi i padri in forme confuse, sbiadite, anche se ancora forti di poteri statuali e culturali.
Non riconosciuti pubblicamente falliti nel metodo patriarcale di conduzione del mondo (ci vuole tempo, anche se è sotto i nostri occhi il fallimento del sistema bellicista, che fa dell’attacco al legame la forma del dispositivo del comando) essi vivono nelle famiglie, istituzioni fondative di ogni cosa nel mondo occidentale, abitando poco le menti di chiunque.
I padri non stanno simbolicamente nelle teste con chiarezza di referenti, tantomeno in quelle delle madri.
E questo è un problema non piccolo, che conta molto per esempio nel caso Samson, dove emerge un malinteso senso dell’amore materno, che non trova contenimenti simbolici, in un vacuum di regole, psichicamente intese, che orientino al limite di ciò che è lecito.
Perché è scomodo, forse impossibile per le donne e per gli uomini vivere con una metà di sé impotente, mutilata la parte che nella bisessualità costitutiva freudiana era diretta alla presenza, nel medesimo individuo, dei due principi, maschile e femminile, compensanti uno le falle dell’altro e le generative qualità che mancano.
L’assenza di un elemento di confronto confonde i corpi e le menti, spinge a fraintendere vicinanza, amore, cura, protezione. Senza un accesso al simbolico, che trasformi l’attaccamento primario in evoluzione e separazione, si creano alleanze perverse e sistemi educativi che equivocano appartenenza e omertà, intimità e collusività, sopravvivenza e sopraffazione. La voce dell’Altro, che trasforma il piacere immediato in “segno, a riconoscere il seno come oggetto separato” (P. Aulagnier, 1994) appare piuttosto flebile, se non assente.
Rimanendo nel nostro specifico della psicoanalisi, quindi, penso si tratti anche di capire come questo aspetto dell’immaginario sociale e politico-istituzionale degenerato impatti nei nostri modelli, e poi l’uso che ne possiamo fare, cercando di articolare un discorso che non può che stare sul limite, tra la clinica, le riflessioni a partire da questa e le turbolenze storiche drammatiche che non possono non interrogarci, in quanto psicoanaliste di questo mondo.
Se consideriamo quanto la psicoanalisi ha detto circa il femminile, a partire dai casi clinici di Freud (1892-1895), che hanno presto slittato dal trauma reale, gli abusi, verso le fantasie delle pazienti e poi continuando nella letteratura nostra, vediamo come spesso i legami sociali, che a partire dal corpo delle donne intessono trame di prevaricazioni e soprusi, non sono stati presi in troppa considerazione.
E non solo perché quello psicoanalitico è comunque un modello che nasce per occuparsi di casi individuali, non di un collettivo, ma perché anche la cultura psicoanalitica ha risentito della dominanza del modello culturale patriarcale, che del corpo delle donne ha sempre fatto oggetto e merce, culturalmente subalterno e misconosciuto, se non nel suo valore d’uso e di scambio.
Detto questo è vero anche che ci sono psicoanaliste e psicoanalisti che hanno scritto e scrivono intorno al femminile (Mitchell, J. (1976) e hanno usato anche nella clinica punti di vista sul genere e di genere, a partire dai quali maturare pensieri di differenza e un modo diverso di guardare alle cose sociali.
Un modo narrativo e di legame, piuttosto che farsi la guerra, che assume profondamente la responsabilità e la contraddizione del conflitto inter-sessi, dove “sarà quella ‘parte femminile’ non assunta dall’uomo, ch’egli con ogni mezzo dovrà padroneggiare e controllare.” (N. Abraham-M. Torok, 1993).
Questo modo di condursi non è irrilevante ai nostri temi. Quando parliamo del femminile infatti non intendiamo solo ragionare sulle vicende del genere o dei generi come fosse questione ‘locale’, tema da ‘riserva’, da trattare collateralmente al tanto che accade o da considerare unicamente nelle vicissitudini della cronaca e della nostra clinica.
Pensiamo invece di ragionare in grande, a farne un tema del metodo nostro di condurci, dentro alternative sociali possibili e uno studio critico che potrebbe cambiare qualcosa, migliorarci nella psicodinamica sociale forse, se, a partire da noi, volessimo considerare politico il nostro personale, universalizzare e collettivizzare i patrimoni, genetico e culturale, che abbiamo in dotazione e magari, per esempio, dentro il pensiero critico, attingere dai racconti letterari e dal mito per ispirarci alla trasformazione di quel modello che, a oggi, ha fallito l’obbiettivo evolutivo novecentesco. Che era di portare tutti noi da qualche parte a crescere di umano, piuttosto che estenuarci e poi estinguerci, destino cui le guerre e le vicende antropologico-ambientali della terra-pianeta sembrerebbero, se non si inverte la via, destinarci.
Per questo fine pensiamo ora all’importanza di valorizzare Shaharazad, eroina narratrice di “Le mille e una notte” (1997), vs Ulisse, eroe guerriero della”Iliade” e eroe nostalgico della”Odissea”.
Un metodo sociale e collettivo quello di Shaharazad, che a partire dalla propria salvezza, sopravvivere, fa del bene di tutte la sua cifra.
Lei, con la sua narrazione mai compiuta, infinita, che dilata il tempo creando attesa, incanta il tiranno.
Si offre al compito di salvare tutte dal despota capriccioso, incantandolo con il suo durare e restare nella trama delle sue storie vincolari e così, nel legame, curandolo dalla sua smania omicida di sopprimere i corpi delle donne, di cui diffida e di cui teme, nel tradimento, l’abbandono.
L’eroismo non bellico di Shaharazad, dentro le storie delle “Mille e una notte”, ci somiglia, penso.
Genera e rigenera una narrazione di noi, la cui qualità simbolica cambia anche la qualità dispotica di un maschile che in fondo non ci conosce, o almeno conosce di noi solo ciò che simmetricamente, nella logica maschile, appare come troppo auto-riferito, nella possibilità di essere o semmai sembrare autosufficienti, donne e madri potenti e mai davvero bisognose di altri.
Così ovviamente non è, ma dentro un’educazione tossica di cui tutte e tutti siamo il prodotto e il pregiudizio, non c’è ragione, né c’è spazio per il pensiero critico.
Si eseguono passi, schemi, e dentro un’apparente, solitaria libertà, adulterata e liberista, si rimane in realtà tutti ai blocchi. Nessuna evoluzione, nessun movimento fuori dal copione, o così sembra, perché poi sappiamo che così non è, e sono proprio i costi alti, socialmente imposti, del nostro vivere davvero libere che stiamo qui considerando.
Cosa fa intanto Ulisse con il suo cavallo a Troia? Ulisse inganna, mente sul dono ai Troiani stremati da dieci anni di assedio, si introduce nel falso cavallo, lui e i compagni, e penetra, nella città e nei corpi dei nemici di cui farà scempio.
Ulisse vince, è un eroe, astuto e celebrato, ma quanto costa anche questa vittoria? Nei suoi dieci anni successivi, raccontati nell’ Odissea, gli anni dell’espiazione e del nostos, del dolore del ritorno, della purificazione dagli orrori compiuti prima di tornare a casa, ci sarà modo di trovare lacrime e vivere il dolore, per recuperare quella trama narrativa che Penelope con la sua tela ha tessuto nel tempo immobile dell’attesa.
Si rimetterà in moto il tempo quando sia Ulisse sia Penelope riprenderanno con sé le parti che erano mancate.
Non si finisce la tela senza un principio interiore organizzato che guidi l’ordito, non si recupera possibilità umana di compassione senza trovare il proprio domestico avere cura.
Ulisse, nella reggia dei Feaci, si racconta, vede se stesso e piange.
Così rimette in moto il suo tempo, quello del ritorno alla casa di Itaca. Qui vivrà nel suo seguito, invecchierà finalmente, e poi morirà.
Questa possibilità deve essere data agli uomini e alle donne, andando oltre ma non tacendo “la violenza dell’organizzazione dei rapporti sociali”(S. Thanopulos, 2018).
Bibliografia
Abraham, N. Torok, M. (1993) La scorza e il nocciolo. Roma, Borla
Aulagnier, P. (1994) La violenza dell’interpretazione. Roma, Borla
Butler, J. (2022) Che mondo è mai questo?. Bari, Laterza-Tempi Nuovi
Freud, S. Casi Clinici (1892-95) OSF I, Torino, Boringhieri 1967
Mitchell, J. (1976) Psicoanalisi e femminismo. Torino, Einaudi
Mahdi, M. S. (a cura) (1997) Le mille e una notte. Torino, Einaudi-Gli Struzzi
Omero (1999) Iliade. Milano, Rizzoli
Omero (2010) Odissea. Milano, Rizzoli
Thanopulos, S. (2018) La solitudine della donna. Macerata, Quodlibet
Per approfondire i temi trattati si suggerisce la lettura dei seguenti testi:
Amati Sas, S. (2019) Ambiguità, conformismo e adattamento alla violenza sociale. Milano, F. Angeli
Bartolomeo, F. (2024, a cura di) Inchiesta con analisi statistica sul femminicidio in Italia. Roma, Ministero di Giustizia
Buttarelli, A. (2007) Sovrane. L’autorità femminile al governo. Milano, Il Saggiatore
Cacciari, M. (2013) Il potere che frena. Milano, Feltrinelli
Fraire, M. (2023) La porta delle madri. Napoli, Cronopio-Rasoi
Freud, S. (1905) Tre saggi sulla teoria sessuale, OSF IV, Torino, Boringhieri 1970
Haraway, D. J. (2019) Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto. Roma, Nero
Irigaray, L. (1994) La democrazia comincia a due. Milano, Bollati Boringhieri
Kristeva, J. (2006) Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione. Milano, Spirali
Lippi, S. Maniglier, P. (2024) Sorellanze. Per una psicoanalisi femminista. Milano, Derive e Approdi
Muraro, L. (1991) L’ordine simbolico della madre. Roma, Editori Riuniti
Zambrano, M. (2021) Per l’amore e per la libertà. Bologna, Marietti
Vedi anche: