Cultura e Società

“La zona d’interesse” di J. Glazer. Recensione di A. Meneghini

5/03/24
"La zona d’interesse" di J. Glazer. Recensione di A. Meneghini

Parole chiave: Perversione, Diniego, Estraniamento, Shoah

Autore: Alessandra Meneghini

Titolo del film: “La zona d’interesse”

Dati sul film: regia di Jonathan Glazer, 2023, USA, UK, Polonia, 106′

Genere: drammatico, storico

Ipnotico e imperdibile. Questi sono gli aggettivi che affiorano alla mente già durante la visione di questo film. Su un ordito sensoriale fatto principalmente di suoni e di immagini il regista tesse la trama di una quotidianità familiare ordinariamente quieta e felice. In una di quelle brevi e sfuggenti estati nord europee, Glazer ci introduce nelle giornate di un’affiatata coppia e dei suoi bambini, che si muovono gioiosi tra gli interni di una deliziosa villetta e l’esterno di un giardino a dir poco paradisiaco. Un nugolo di domestici solleciti si affaccenda per garantire loro ogni genere di comodità. Le ore del giorno scorrono serene, scandite dai ritmi presenti in qualsiasi famiglia del secolo scorso: l’impegno a scuola dei bambini, il lavoro del marito e la cura della casa da parte della moglie.

Tra una gita domenicale al lago e le chiacchiere delle donne di casa, lo spettatore inizia ad avvertire vagamente dei suoni lontani: un abbaiare di cani, degli spari, un treno che arriva. Poco alla volta la scena si allarga e scopriamo un muro di cinta al di là del quale si intravvedono un alto camino e degli edifici scuri, squadrati.

Non vedremo mai il campo di concentramento di Auschwitz, se non attraverso il riflesso dello sguardo del suo comandante, Rudolf Höss, lo stesso padre di famiglia che abbiamo già imparato a conoscere mentre legge le favole alle sue bambine.

Perno del funzionamento familiare degli Höss è il compatto diniego della realtà esterna, attraverso il bastione psichico rappresentato visivamente dalle mura che separano, ma al contempo uniscono in un abbraccio mortifero l’amena villetta e il campo di sterminio: una separazione “conosciuta non pensata” (Bollas, 1987) tra interno ed esterno, garante della felicità domestica e, per questo, “zona di interesse”.

È “zona di interesse” anche per lo psicoanalista: la pellicola sembra infatti visualizzare il concetto freudiano di scissione dell’Io e quindi il funzionamento perverso: “Da un lato (il bambino), (…) rifiuta la realtà e non si lascia proibire nulla; dall’altro, riconosce il pericolo della realtà e assume su di sé (…), sotto forma di sintomo patologico, la paura di quel pericolo” (Freud, 1938, pagg. 557-558).

È proprio la paura, incarnata dal vagare notturno nelle stanze della casa della figlioletta degli Höss, che introduce l’elemento perturbante nella quieta e appagante vita familiare. Un’angoscia infantile apparentemente inspiegabile che si insinua silenziosamente nella villetta con la complicità del buio, quando i bei fiori del giardino non si vedono e quando le voci familiari tacciono, rendendo più friabile il muro della scissione tra interno ed esterno. Un’angoscia-segnale quindi, da tacitare prontamente con la lettura delle favole, controparte simbolicae sintomatica di un altro segnale, rappresentato da quel fumo che sale dai camini del campo accanto, silenzioso testimone dell’ecatombe in atto appena oltre il muro di cinta, che tutti guardano, ma che nessuno vede.

Apparentemente perfetta, la famiglia del comandante necessita della mortifera contiguità del campo di sterminio per preservare al proprio interno un’armonia pre-conflittuale. Non a caso, i coniugi Höss sono ritratti nell’intimità nella loro camera stesi specularmente su letti identici posti uno accanto all’altro, dove una rassicurante quanto indifferenziata affettività prende il posto del minaccioso erompere della pulsione. D’altronde, è dalle ceneri degli ebrei bruciati nei forni adiacenti che si nutrono gli stupendi fiori colorati del giardino, sconvolgente metafora visiva del funzionamento perverso, dove è sempre l’altro che viene fatto soffrire in vece del soggetto.

Complice un ordine di trasferimento che, inaspettato, giunge dalle alte gerarchie naziste minacciando di rompere l’incantesimo domestico, gradualmente si aprono delle faglie nella monocorde armonia familiare. Si insinuano così nella scena domestica i comportamenti maltrattanti della signora Höss verso la servitù, la ricerca di un piacere clandestino da parte del marito, il godimento sadico con cui uno dei figli rinchiude il fratellino nella serra, frammento questo che richiama suggestivamente “Il nastro bianco” di Michael Haneke (2009).

Glazer riesce a veicolare attraverso le immagini e i suoni, più che attraverso le parole, schegge di realtà progressivamente più taglienti che sembrano bucare in vari punti il massiccio diniego familiare, come una diga, dalle cui fessure si infiltrino poco a poco la percezione del vuoto identitario e dell’orrore.

Con un ulteriore tocco creativo, il regista fa comparire in sequenze di negativo fotografico una sconosciuta bimbetta che, muovendosi come in un sogno, raccoglie nottetempo delle mele e le posa nei luoghi di lavoro dei prigionieri affinché si sfamino: emblematica raffigurazione visiva della nevrosi che, riconoscendo depressivamente la realtà, si pone come “la negativa della perversione” (Freud,1905, pag.477).

Lo sguardo di Glazer sul microcosmo della famiglia Höss è asciutto e cristallino. Coinvolge magistralmente lo spettatore, che rimane letteralmente inchiodato alla poltroncina della sala cinematografica, conducendolo quasi per mano nel farsi silenzioso testimone e contenitore di quei vissuti di straniamento e di oscura angoscia evacuati così pervicacemente dai personaggi del suo film nonché da un’intera generazione e, forse, non solo da quella.

BIBLIOGRAFIA

Bollas C. (1987). L’ombra dell’oggetto. Roma, Borla, 1989.

Freud S. (1905). Tre saggi sulla teoria sessuale. O.S.F. 4.

Freud S. (1938). La scissione dell’Io nel processo di difesa. O.S.F. 11.

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