Dossier

In cammino con i migranti

5/03/15

Riflessioni sulle origini della sofferenza nelle popolazioni migranti a partire dall’esperienza di un ambulatorio pubblico di neuropsichiatria infantile

ANGELA ROMANO

neuropsichiatra infantile, allieva (IV anno) della scuola quadriennale di psicoterapia ad indirizzo sistemico-relazionale e orientamento etnosistemiconarrativo.

“Ci sono sempre falsi profeti. Ma nel caso della psichiatria è la profezia stessa ad essere falsa, nel suo impedire, con lo schema delle definizioni e classificazioni dei comportamenti e con la violenza con cui li reprime, la comprensione della sofferenza, delle sue origini, del suo rapporto con la realtà della vita e con la possibilità di espressione che l’uomo in essa trova o non trova. “
F.Basaglia

Lavoro da circa 10 anni come neuropsichiatra infantile presso una struttura sanitaria pubblica che accoglie prevalentemente migranti, e in questi anni ho avuto l’opportunità di incontrare bambini e bambine, uomini e donne, ragazzi e ragazze non accompagnati/e provenienti da molte regioni del mondo. Gli immigrati sono un gruppo sociale molto eterogeneo e di conseguenza non è possibile pronunciare sul loro conto affermazioni generali e generalizzanti. Nella mia esperienza ho conosciuto prevalentemente migranti forzati che hanno dovuto affrontare nel loro paese o durante il viaggio migratorio violenze, torture, maltrattamenti, o sono stati testimoni di violenze e torture. Quando si pensa al migrante si tende a concentrarsi, di solito, sul momento della fuga, questa si accompagna invece ad una costellazione di perdite multiple, ed è il più delle volte preceduta da altri avvenimenti traumatizzanti come bombardamenti, sparatorie, massacri, catture, prigionia, separazioni, sevizie, morte. La fuga stessa è di per sé un avvenimento traumatizzante, vissuto generalmente in condizioni d’insicurezza, precarietà e rischio. I fuggiaschi inoltre, approdati in un paese ospite, si trovano poi inchiodati in uno status esistenziale e in seguito anche giuridico, che si rivela esso stesso traumatogeno. In cambio della sopravvivenza precipitano in una situazione di esistenza e diritti sospesi, di continuo transito, che reitera, anche se a un livello meno radicale, la situazione di esclusione e violenza in cui sono passati prima e durante la fuga, una specie di limbo per morti viventi. Nei migranti si concentra quindi un accumulo di rotture, perdite materiali e simboliche della patria, della terra, della casa, della cultura, del lavoro, in sostanza il crollo del tessuto sociale nel quale sono nati, e in cui si erano ricavati uno spazio proprio. A questa sofferenza si aggiunge l’estrema difficoltà di formare un’altra residenza.

Nella maggior parte dei casi la segnalazione all’ambulatorio di neuropsichiatria infantile, presso il quale lavoro, è stata effettuata da insegnanti, servizi sociali, operatori dei centri di accoglienza o di associazioni che sono in contatto diretto con i migranti che si attivano quando “ritengono che stiano male. Stare male significa, nel linguaggio degli operatori, che gli assistiti abbiano dei problemi psicologici”, in genere problematiche emotivo – comportamentali che vanno dall’estrema chiusura ed isolamento dall’ambiente, all’aggressività ripetuta nei confronti del contesto in cui vivono. Al migrante viene comunemente attribuito il ruolo di vittima, ancorché di rappresentante di culture subalterne alla nostra, e questo indipendentemente dalla consapevolezza o da possibili idee preconcette che possono avere gli stessi operatori. Questa situazione è molto frequente e viene definita “etichettamento ambiguo”. “L’ambiguità consiste nell’idea, radicata a fondo nelle menti di noi occidentali, di poter osservare e descrivere queste situazioni da un punto di vista neutro e oggettivo. Siamo spesso noi occidentali, che tanto amiamo descriverci come soccorritori – dimentichi degli orrori dello schiavismo, delle colonie, e delle guerre umanitarie – tra i principali attori di pratiche di fragilizzazione. Viviamo in quella che può essere definita “l’era del salvatore”; secondo Losi, ad essere celebrato in guerra non è più l’eroe, di Omerica memoria, bensì il soccorritore. La guerra dei Balcani è individuabile come la fase storica in cui si verifica il passaggio epocale: la visibilità non è più delle grandi gesta eroiche, dei duelli come nell’Iliade, ma di un nuovo protagonista dell’epoca moderna: il soccorritore. “L’ambiguità del soccorritore consiste nel voler migliorare le condizioni dell’immigrato senza tenere conto delle sue capacità ed aspirazioni che lo potrebbero liberare da un rapporto di dipendenza”.

Un esempio pratico. Z. è un giovane Bengalese di 17 anni, viene inviato dal responsabile di un Centro di Accoglienza per minori non accompagnati perché conduceva una vita sempre più isolata e mostrava disturbi alimentari (episodi di vomito ciclici), inappetenza, insonnia.
Nella fase iniziale della consultazione, Z. si presentava marcatamente inibito, con un atteggiamento corporeo di chiusura, facies ipomimica, tic motori semplici facciali, vigile ed orientato nello spazio e nel tempo, con un eloquio ben organizzato e umore orientato alle basse polarità. Il giovane sembrava essere trascinato in seduta, come se continuasse a seguire una strada tracciata da altri e non propria. Nella narrazione iniziale di sofferenza Z. racconta di aver subito la scelta/decisione del padre e dell’intera famiglia paterna rispetto alla migrazione in Italia, il progetto migratorio sarebbe stato pensato, finanziato ed imposto dal padre per ragioni di tipo economico. L’infanzia sembra essere stata costellata da deprivazione affettiva, grave disagio socio-economico e violenza intra familiare, la strada della migrazione forzata di tipo economico sembra, al padre, l’unica via d’uscita per il giovane figlio. In questa prima narrazione il giovane Z. si posiziona fortemente come vittima, sia all’interno della famiglia di origine, che ora in Italia nel gruppo appartamento, rispetto soprattutto ai pari Egiziani – da cui sembra subire continue angherie e provocazioni. Il vissuto è di un profondo senso di colpa verso il padre e gli zii paterni che vivono a Roma perché, pur essendo in Italia da febbraio ’14, per via della minore età, non ha ancora potuto cominciare a lavorare. Il tema del lavoro e della possibilità di contribuire economicamente al pagamento del debito contratto dalla famiglia lasciare la propria terra, e quindi al sostentamento della famiglia in Bangladesh – rappresenta un motivo di dolore. Sono, inoltre presenti, sentimenti di inutilità ed impotenza, perdita d’interesse nel fare le cose e nello stare con gli altri, diminuzione di energia, facile stancabilità, basso appetito associato a nausea e vomito per numerosi cibi, insonnia con frequenti risvegli. Nelle sedute si è lavorato attraverso l’utilizzo della biografia narrativa e del genogramma (riflessione della piccola storia – familiare nucleare – all’interno della grande storia – contesto geopolitico bengalese ed italiano) alla de-costruzione del ruolo/identità di vittima ed alla ri-costruzione di Z. come “eroe” all’interno di una storia così costellata da eventi traumatici. Il lavoro di ri-posizionamento di Z. come “eroe” e non come vittima ha permesso al giovane Z. di narrarsi in modo diverso e rispetto alla sua vita e le sue relazioni in Bangladesh (“ero il punto di riferimento di amici per l’acquisto di materiale tecnologico in quanto riconosciuto come esperto, buoni risultati scolastici) e rispetto alla vita e relazioni in Italia “I miei zii mi chiedono consigli sempre per telefonini e computer ed applicazioni informatiche varie perché considerato esperto, a scuola vado molto bene, meglio di tutti i ragazzi egiziani”.

La narrazione ed il racconto del proprio percorso autobiografico svolgono una funzione di “holding” della sofferenza: uno strumento per ricollocare gli eventi in un ordine ed in una costellazione di senso; un momento di ri-organizzazione dei progetti e dei desideri a lungo termine, spesso bloccati o spezzati nel percorso migratorio. Se si lavora sugli aspetti che precedono l’evento traumatico, sulla vita precedente, abbiamo spesso la possibilità di immaginare un aggiustamento alla nuova situazione e un progetto futuro.

Nel considerare le narrazioni di sofferenza non si può operare una scissione tra individuo e sociale, tra interno ed esterno ma occorre, a mio parere, considerare, come suggerisce Bateson, ogni interazione umana “ecologicamente” come una “danza di parti interagenti.” E’ necessario quindi tenere presente che ogni nostro agire, sentire e pensare rappresenti un vivo segmento di una più ampia dinamica relazionale che attimo per attimo ci affida gli uni nelle mani degli altri. La psicoanalista Maire Balmary ha scritto: “L’umano non è malato singolarmente, ma in relazione con gli altri”, e anche il suo possibile “guarire” ha luogo soltanto “tramite la relazione ad altro”.
La comprensione delle problematiche relazionali viene ricondotta comunemente a dimensioni non relazionali ma intraindividuali da un lato (pulsioni, affetti, pensieri), e socioculturali dall’altro (codici simbolici, rappresentazioni collettive o familiari). Individuo e società, soggetto e cultura, azione e struttura, attore e sistema, cittadino e città, eros e civiltà, e così via: configurazioni binarie del nostro pensare, nelle quali l’attenzione su quel che accade attimo dopo attimo tra gli individui, tra i soggetti, tra i cittadini, e così via, non diventa per lo più attenzione a una dimensione terza, relativamente autonoma (danzante), delle nostre vicende quotidiane.
Come si posiziona, dunque, il terapeuta all’interno dello spazio terapeutico?
Secondo Natale Losi il terapeuta si mette in relazione con diversi altri soggetti: la rete del mondo visibile (famiglia, amici, comunità); la rete di altri saperi ( i guaritori tradizionali e tutte le espressioni di capacità di cura di altre culture), la rete del mondo invisibile: dei, spiriti, antenati, mondo dei morti. Al centro della pratica clinica c’è la relazione, l’incontro tra persone in uno spazio in cui c’è posto per le storie e per il riconoscimento della competenza e del sapere altro del paziente.

Cosa vogliono i migranti? Come tutte le persone vogliono essere ascoltate e riconosciute come persone. Il riconoscimento, in generale, in ogni nostra ‘scena’ di vita quotidiana (fin dalla nascita), dell’altro uomo, della propria dipendenza vitale (nel bene come nel male) dallo sguardo-specchio dell’altro uomo, diventa allora una condizione indispensabile al possibile riconoscimento dell’altro, della sua soggettività e della sua irriducibile differenza. Ciò che temo nella relazione con i migranti è la paura di non essere in grado di accogliere, capire, comprendere la loro sofferenza perché, nella maggior parte dei casi, si tratta di persone che hanno vissuto storie di una violenza e un dolore inenarrabile molto molto lontano dalla mia esperienza di vita. Su cosa lavoro, dunque, all’interno della relazione terapeutica? Mi viene in aiuto, a tal proposito, un passo tratto dal libro di Italo Calvino “Le città invisibili” :

L’imperatore chiede “raccontami di questi mondi che io non potrò mai vedere, raccontami di queste città, delle città invisibili che io non potrò mai visitare”. “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.
Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.
Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno e farlo durare e dargli spazio.”