Dossier

Una poetica del terrore: Timbuctu (Le chagrin des oiseaux) di Abderrahmane Sissako – Francia, Mauritania 2014

3/03/15

ROSSELLA VALDRE’

è psichiatra e psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana e IPA, si occupa da molti anni di cinema e psicoanalisi. Membro del CGP dove ha collaborato all’insegnamento di ‘teoria psicoanalitica’ e CTU presso il Tribunale per i Minorenni.
Pubblicazioni:‘La lingua sognata della realtà. Cinema e psicoanalisi nell’esplorazione della contemporaneità’ (Antigone, 2013); ‘Cinema e violenza.Banalità del Male nel cinema contemporaneo’ (Liguori, 2014); ‘On Sublimation: a path to the destiny of desire, theory and treatment’ (Karnak 2014, in italiano Mimesis, in press): ‘L’Altro. Diversità contemporanee. Cinema e psicoanalisi nel territorio dell’alterità’ (Borla, 2015, in uscita).

Presentato all’ultimo Festival di Cannes, approda alle sale italiane l’opera di uno dei Maestri del cinema africano, Abderrahmane Sissako, Timbuctu. In giorni come questi, in cui l’espandersi dell’avanzata e degli attentati del terrorismo islamico conosce una nuova, inquietante recrudescenza, il film è occasione benefica, artisticamente rigorosa e poetica, di aprire uno scenario metaforico su ogni tipo di terrore.
Siamo nel villaggio di Timbuctu (ricreata dal regista in Mauritania): la vita semplice e pacifica degli abitanti rimasti è sconvolta dall’insediamento di un gruppo d’integralisti islamici che, in maniera progressiva, tenace, sorda a ogni richiamo e a tratti persino vagamente grottesca, impongono all’inerme popolazione ogni genere di divieto e violenza, in nome della parola del Profeta.
Vietato ascoltare musica, conversare sulle porte, giocare a calcio; imposti alle donne guanti, velo e matrimoni obbligati: ogni forma di vita, di vitalità soggettiva e corale, è soppressa, annientata, mentre si eseguono punizioni corporali con lapidazioni e frustrate, uccisioni di chi “trasgredisce” sulla pubblica piazza. Da uno di questi fatti di cronaca ha preso spunto il regista, una coppia che fu lapidata perché portatrice della colpa inaccettabile, agli occhi degli integralisti, di non essere sposati. Ma il fatto di cronaca – certamente, uno dei tanti in un paese sperduto dell’Africa sahariana, che non fa notizia e non muove mobilitazioni internazionali – è solo parzialmente inserito nella narrazione attraverso uno dei personaggi, il pastore Kidane e la sua famiglia, che è ucciso con la moglie, straziato dal dolore non della morte in sé, ma di lasciare sola e “non protetta” l’amatissima figlia. La vicenda di Timbuctu, infatti, è vicenda corale, che non indugia nella singola psicologia di ciascun personaggio pur facendone sottilmente intuire i movimenti profondi: dietro alle poche parole di un popolo attonito e smarrito, lo spettatore coglie la ferma dignità, il radicamento in valori, legami e affetti che fortemente stridono con la brutalità della Polizia islamica, quasi ‘condannata’ a sua volta, da un regolamento autoimposto, a sparare dai tetti, a circolare senza sosta sull’immancabile Toyota nel piccolo perimetro sabbioso tra le dune del villaggio.
Si colgono tratti psichici anche sull’altro versante, quello degli integralisti,: la quasi grottesca, come detto, difficoltà a capirsi anche tra loro per l’incessante differenza di lingue che percorre come un fil rouge tutto il film, denotando sul piano concreto la diversa provenienza dei reclutati del terrore, com’è noto, sia in senso più metaforico uno dei punti psicologici a mio avviso più acuti del film: la perenne incomunicabilità, l’assenza di quel linguaggio condiviso che è alla base della civiltà e dello strutturarsi dei gruppi umani. Il nodo conflittuale del linguaggio si lega all’altro vertice psicoanalitico con cui possiamo leggere il film: il simbolo.
Timbuctu non è la narrazione del terrore in un villaggio nordafricano, ma è metafora rigorosa, che non cede a proclami urlati né indugia sulla facile rappresentazione della violenza, di ogni terrorismo. L’abuso, il sopruso, la sopraffazione sono gli stessi di quanto può accadere in un Occidente forse distratto, sottovalutante, a cui il regista lancia, con la forza dell’arte e della potenza visiva cinematografica, un prezioso grido d’allarme.
Vicenda metaforica poiché carica, fin dalla scena d’apertura che vede gli integralisti sparare a una gazzella che corre in libertà (che ritroviamo in chiusura), d’immagini simboliche, spesso affidate ad animali, così importanti per la vita del villaggio di cui condividono la stessa sorte e natura. Prima ancora che l’atto scontato e finale dell’uccisione, come ogni regime terroristico ciò che si prefigge è l’umiliazione dell’altro, il suo annientamento come soggetto: “non ucciderla, sfiancala!”, gridano sparando alla gazzella. Sfiancala. Come rispondono gli abitanti di Timbuctu a questo crudele ‘sfiancamento’? Tentando una mite ma ferma, resistenza che potremmo definire simbolica. E’ centrale la splendida scena della partita di pallone giocata senza pallone; sorretto da una perfetta fotografia e dalle musiche di Amine Bouhafa, Sikkako ci offre un filo speranza che ben si lega allo statuto psicoanalitico: l’opposizione del simbolico, del pensiero, del gioco creativo al concretismo brutale della violenza. Il gioco deve continuare, così come il canto della donna sotto i colpi di frustra, così come la fuga finale della figlia di Kidane verso un’ipotetica isola di libertà. I soppressi non rispondono qui alla violenza con violenza; non ne hanno i mezzi, la tradizione (il regista non si scaglia, infatti, contro l’Islam moderato che governa la vita del villaggio): rispondono con una dignità che è frutto della consapevolezza di radici e legami condivisi e che trova la sua espressione e sintesi nella poetica scena della partita dove è contenuto un duplice messaggio di possibile salvezza. L’uso del simbolo (il pallone che manca) al posto dell’oggetto, il valore della memoria (hanno sempre giocato) e il gioco come processo creativo winnicottiano, si pongono silenziosamente come unico contraltare alla violenza. Insistiamo sull’importanza del simbolo, della palla giocata anche se non c’è, quale valore psichico eminentemente umano, funzione del pensiero che per il filosofo Cassirer ordina e dà senso alla molteplicità sensibile grazie al linguaggio, al mito e alla conoscenza per astrazioni quali funzioni originarie della psiche.
Poiché linguaggio e formazione del simbolo sono, nella vita inconscia, profondamente legati, ecco che la metafora di Timbuctu assume una sua forza non solo poetica e rappresentativa, ma anche finemente psicologica: la miglior risposta al terrore, al non-pensiero, all’accecamento dottrinario che droga le coscienze, consiste nell’antidoto, faticoso e incerto, di persistere nella libertà e nel pensiero. La libertà, e con questo concludo, è faticosa, e gli uomini possono essere tentati di ricorrere ai facili rifugi delle certezze date, dei dogmi che escludono l’esercizio della scelta: da qui, l’incalzante fortuna degli integralismi, della paranoia come rassicurante interpretazione del tutto, di una scissione che radicalizza in buoni e cattivi per sfuggire alla complessità della vita. Non è molta, anzi è assai esigua, la nostra letteratura sul fenomeno, ma lo psicoanalista franco-tunisino Fethi Beslama (2012, 2014) ci ricorda come la potenza seduttiva dell’integralismo islamico consista proprio nel proporsi come la sola voce possibile, l’Unico, il solo Dio, la certezza contro i dubbi delle nostre laiche coscienze occidentali. E’ il fascino mortifero di ogni ideologia identitaria che comporti la sottomissione come unica possibilità di rapporto alla verità e che si fondi sulla cancellazione dell’alterità, di cui la rimozione della femminilità è l’espressione più forte ed emblematica(1).
A questo fascino perverso delle certezze, dell’Uno, l’Occidente è chiamato “psicoanaliticamente” a rispondere non solo reagendo e difendendosi, ma continuando a giocare la partita.
“E’ la sottomissione. L’idea sconvolgente e semplice, (…) che il culmine della felicità umana consista nella sottomissione più assoluta” (M. Houellebeck, Sottomissione)

Bibliografia
-Benslama F. (2012): La psicoanalisi alla prova dell’Islam. Il Ponte ed, Firenze
-Benslama F. (2014): Dichiarazione di non sottomissione, Poiesis, Alberobello
-Cassirer E. (1961): Filosofia delle forme simboliche. La Nuova Italia, Firenze

(1)Si veda: Recalcati M.: Quei ragazzi terroristi in fuga dalla libertà. La Repubblica, 7 Febbraio 2015