Dossier

Leggerezza – L’eclissi della memoria

10/11/14

 

a cura di Marcello Turno

Il racconto lo avevo letto molto tempo fa, ma faccio fatica a ricordare sia il titolo sia l’autore. Isaac Asimov, probabilmente. Faccio fatica a ricordarlo perché è appunto passato troppo tempo, decenni, e la mia memoria, come capita a chi ha accumulato letture, incontri, esperienze, mostra ogni tanto dei cedimenti. Il ricordo c’è, ma appare sfumato, intriso della nebbia di altri ricordi. Non è un problema, ma mi rendo conto, con il passare degli anni, che avrei voluto trattenere tutto, ma evidentemente nei circuiti neuronali qualcosa ogni tanto deve essere sacrificata. Il racconto, cui facevo riferimento, narra di un gruppo di ricercatori alle prese con un grande calcolatore (si chiamavano così i computer nel secolo appena passato) sul cui gigantesco visore apparivano una serie di numeri. Qualcosa accadde per cui il calcolatore smise di funzionare. I ricercatori si trovarono, di conseguenza, in grande difficoltà nel portare a termine il loro compito, poiché non ricordavano i passaggi matematici con cui procedere. In loro aiuto venne l’anziano uomo delle pulizie, il quale tirò fuori dalla tasca del camice da lavoro un pezzo di legno che chiamò matita e cominciò a fare strani segni su un foglio di carta, portando a termine il calcolo che era rimasto interrotto.
Non so se sia andata proprio così, ma per me, ora, è importante ricordarla così. L’uomo delle pulizie che fa strani segni sul pezzo di carta diventa per anni un pensiero balocco che ogni tanto cattura la mia attenzione. Forse il punctum, direbbe Roland Barthes, proprio perché sollecita costantemente una riflessione: non tutto ciò che appartiene al passato, in disuso, vecchio, è da buttare. La matita e l’anziano uomo delle pulizie rappresentano, in quel momento critico, una risorsa preziosa. Ma ciò che porta a riflettere è anche l’incapacità di un gruppo di ricercatori di portare a termine dei calcoli, magari affidandosi a grafemi come radici quadrate, assi cartesiani, logaritmi e integrali e solo perché si è deciso di “delegare” a un computer lo sviluppo del problema.
Ciò che appare chiaro è che la società di oggi sembra fortemente delegare omettendo la capacità di guardare al passato. Pensiamo a una sorta di Candid camera in cui una persona qualsiasi si accosta con l’automobile al marciapiede per consultare una cartina stradale o il vecchio stradario che corredava l’elenco telefonico. È chiaro che questo gesto, sicuramente familiare per molti di noi, possa suscitare una curiosità da fenomeno da baraccone. Qualcuno, premurosamente può consigliarci di usare il navigatore. In una circostanza come questa, appunto, ci viene suggerito di abbandonare il nostro orientamento spaziale, di lasciar perdere di cercare somiglianze fra il luogo in cui siamo e la mappa, di evitare di sforzarci di capire… ecco, appunto, delegare è anche non pensare. Questo asserto è un problema cruciale per i digitali nativi che, abituati a chiedere aiuto alla moderna tecnologia, già mostrano difficoltà a prendere decisioni importanti. Forse la presenza di un anziano tutor che metta a disposizione la memoria delle esperienze vissute può essere determinate per la continuità di un sapere in generale. Senza far menzione di molte discipline, incluse la psicoanalisi, la cui modalità di trasmissione del sapere appare ancora più delicato.
Tornando alla scena di prima, a osservarla bene, presenta alcuni paradossi. Un gruppo di ricercatori che non ha memoria delle cose passate perché nessuno le ha loro trasmesse, un anziano signore che ricorda modi di procedere che non sono più in uso. Un gruppo di giovani con una memoria che si è eclissata dietro nuovi saperi, un signore anziano con una memoria antica conservata. Ma il racconto mostra qualcosa di più: un’inquietante visione del futuro, dove si pensa che ciò che è sia vecchio sia naturale venga perduto.
All’origine di questo concetto esiste un errore di fondo: l’immagine dell’anziano è sostanzialmente negativa e strettamente legata ad un’impressione di isolamento, solitudine, dipendenza, indigenza, declino intellettuale ecc. Si confonde molto spesso la vecchiaia patologica con l’invecchiamento, che per se non è una malattia, ma un fenomeno biologico proprio di ogni organismo vivente. Si tratta l’anziano come un bambino, senza comprendere che alcuni fenomeni di regressione comportamentale sono legati a una serie di frustrazioni che la persona anziana vive per certe limitazioni generate dall’invecchiamento fisiologico e da life events che condizionano la vita: il pensionamento, le perdita di persone care, gravi patologie e via dicendo. Di conseguenza le generazioni contemporanee, schiave di una mentalità produttivistica, ritengono che l’anziano e il suo mondo siano, in blocco, superati e non abbiano più niente di interessante da proporre. Invece per le persone anziane, la memoria e la capacità di evocare ricordi rappresentano un bene prezioso. Ma forse occorre anche riflettere su di un altro punto: sono gli adulti che corrono verso qualcosa di indefinito e vivono l’anziano come un ostacolo da rimuovere dalla memoria. Spesso è l’adulto che teme l’anziano. Il giovane, nel suo sguardo verso il futuro, si sente immortale e vive il vecchio come fosse un personaggio di un film.

Vecchiaia e memoria godono di una sorta di corrispondenza diretta. La persona anziana teme di perdere la memoria o le memorie, le nuove generazioni corrono il rischio di non far nulla per preservarla, né si preoccupano di conservare quelle antiche. Ma la cultura del passato ai giovani chi la trasmette? Ricordiamoci che la memoria è anche l’elemento base delle nostre funzioni superiori: il pensiero, il linguaggio, le emozioni. L’individuo si identifica quasi costantemente con la propria memoria perché la memoria governa l’accesso al tempo vissuto, alle esperienze positive e negative della vita ed è l’elemento base per intelligere. È, di conseguenza, la capacità che ciascuno di noi più teme di perdere; senza memoria siamo disintegrati, corriamo il rischio di essere un corpo che vaga nel nulla. È questo il motivo per il quale le malattie cerebrodegenerative sono così temute; senza memoria perderemmo il controllo di ogni cosa, dalla capacità di compiere i nostri movimenti più elementari (quelli che abbiamo imparato sin da piccoli) alla capacità di riconoscere gusti, odori, colori, oggetti, i visi dei nostri cari e all’impossibilità di rievocare le nostre emozioni.

Il trinomio vecchiaia/memoria/emozioni deve essere stato per Samuel Beckett un punto di riflessione importante, tanto è vero che gli ha permesso di creare Krapp, bizzarro personaggio protagonista del monologo Krapp’s last tape (Beckett, 1959). Krapp è un anziano signore che presenta, nella messinscena, un viaggio nella memoria attraverso il supporto di un oggetto straordinariamente innovativo all’epoca dello scrittore: un magnetofono. Krapp, colto da una sorta di sindrome ossessiva, ha trascorso parte del suo tempo a incidere su nastro magnetico i fatti della sua vita e le sue impressioni, in una sorta di diario registrato. In occasione del suo compleanno – come è sua abitudine – usa riascoltare le bobine registrate da giovane e si appresta a registrarne a sua volta una nuova. Nella parte finale dell’opera Krapp registra il suo ultimo nastro, ultimo perché egli è ormai giunto, lucidamente consapevole, alla conclusione della sua vita e non gli resta altro che attendere la morte.
Il monologo, seppur denso di una sua angoscia caratterizzante, che nasce dalla coazione a ripetere l’ascolto dei nastri e dalla critica a cui Krapp sottopone, a posteriori, la sua vita, è, pur tuttavia, un monologo rassicurante perché, dopotutto, quello che è stato vissuto è stato registrato nella memoria del magnetofono. Krapp, grazie a questo espediente, cioè grazie all’uso del magnetofono, ha la facoltà di tornare indietro, rievocare la storia della propria vita e criticare quello che ha fatto.
Quale terribile sensazione si prova nel momento in cui si comprende che quello che si sta vivendo è il momento dell’ultimo riascolto e che poi ci sarà la fine. Beckett ci traccia il quadro della inevitabilità della sofferenza causata dalla percezione e consapevolezza della fine, della fine di qualcosa, e qui sta il punto, non inevitabilmente la fine della vita.
L’angoscia di Krapp che sa di registrare il suo ultimo nastro, e che sa di compiere la sua ultima rievocazione del contenuto di quelli precedenti, è la stessa angoscia che si può percepire nelle persone, sì affette da demenza, ma con ancora un ultimo barlume di coscienza di sé che drammaticamente le porta a comprendere che stanno perdendo qualcosa di più fondamentale del solo vivere: la memoria, il ricordo delle emozioni, il senso della propria identità. Presagiscono che il loro magnetofono non funzionerà più, che non potranno rievocare, che dovranno rinunciare a quella rassicurante coazione a ripetere: l’ascolto della loro memoria.
Allora fortunato sarà considerato colui che potrà ancora scovare ricordi ed emozioni nelle stanze della propria memoria mentre la demenza tende a prosciugare dal di dentro la nitidezza dei ricordi, trasforma la personalità, rende le persone irriconoscibili agli altri e a se stessi e ne sovverte la vita.
Per i critici teatrali del tempo, Krapp rappresenta solamente “la migliore espressione beckettiana della solitudine umana”, la solitudine è l’unico sintomo riconosciuto nella vicenda del protagonista perché siamo storicamente molto lontani dal fenomeno esplosivo dell’allungamento della vita e certe patologie che provocano un deterioramento delle funzioni cognitive sembrano rare e ancora non si pensa che siano “età correlate”. L’unico “sintomo” della vecchiaia di Krapp è la sua solitudine e se in questa solitudine egli ha il conforto del suo magnetofono e dei suoi nastri, i malati di demenza non possiedono registratori né bobine da poter riascoltare. È stata tolta loro la capacità di rievocare, resta in loro una solitudine disperata e priva della consolazione di poter richiamare alla mente la propria vita, manca in loro quella che fu la considerazione di Beckett rispetto all’origine autobiografica del suo monologo: “Forse i miei migliori anni sono finiti”, e razionalmente aggiunge “… Ma non li rivorrei indietro…”. L’angoscia che spesso appare disegnata sul volto dei pazienti dementi è forse proprio una “incosciente consapevolezza” dell’horror vacui che neanche Beckett era riuscito a presagire.
Nell’osservare le persone ammalate di Alzheimer o di altre demenze ci si chiede che tipo di ricordi, che barlumi di coscienza o di emozioni essi possano avere. Cosa ricordano del loro passato e in che modo? Qual è la natura del ricordo che più sovente si affaccia nel break down neuronale? Cosa rimane di più? Un odore, un’immagine, un suono o forse solo un’emozione? E se è un’emozione, che tipo di emozione e come può essere rievocata?
Il richiamo a Beckett non è casuale, forse perché ho sempre ritenuto che L’ultimo nastro di Krapp sia una sorta di omaggio all’esperienza analitica vissuta con Bion. Infatti questa è l’unica opera in cui Beckett dà un’indicazione precisa della durata della messa in scena. Un tempo limitato, proprio come una seduta d’analisi. Del resto come non possiamo considerare quest’opera come la seduta analitica che abbraccia tutto il corso emotivo della vita?
Nello strano paradosso della vita di oggi, per una persona affetta da patologia dementigena, la memoria è un esoscheletro, rappresentato dalla cerchia affettiva parentale e amicale. La presenza, l’empatia, il prendersi cura possono considerarsi una memoria virtuale, aggiuntiva, uno strumento evocativo di ricordi di vita e di emozioni che pian piano si affievoliscono.
Un uomo di 75 anni affetto da una grave demenza, afasia, pacing, irritabilità, intollerante al contatto fisico, in grado talvolta di riconoscere la moglie e le persone che con gentilezza e serenità cercano di entrare in contatto lui, manifesta uno stato d’ansia quando gli si rivolgono determinate domande cui risponde con una “insalata di parole”. Questa persona, che nella sua vita lavorativa è stato un operaio, è dotato di una spiccata sensibilità artistica, e per molti decenni si è recato con la moglie in vacanza in un paese straniero fino a comprenderne la lingua, conquistare amicizie e ottenere gratificazione della sua espressione artistica in quei luoghi lontani. Nei colloqui che si svolgono fra lo specialista, la consorte e lui, la sua partecipazione è quasi sempre un vano tentativo di pronunciare delle frasi devastate dall’afasia, mentre solo nei momenti in cui vengono evocati i giorni felici trascorsi all’estero o si parla della qualità della sua arte, il vecchio signore, senza dire una parola, assente con il capo e piange in silenzio.

Marcello F. Turno
Membro associato SPI
Docente di Psicogeriatria – Dipartimento di Scienze umane – Università Lumsa