Dossier

Fabio Benfenati. L’arte del ricercare. Creatività nell’arte e nella ricerca scientifica

11/10/17

Fabio Benfenati – Center for Synaptic Neuroscience and Technology – Istituto Italiano di Tecnologia, Genova, Italy  professore ordinario di Neurofisiologia presso la Scuola di Scienze Mediche e Farmaceutiche dell’Università di Genova e Direttore di ricerca dell’Istituto Italiano di Tecnologia dal 2006, dove attualmente dirige il Center for Synaptic Neuroscience and Technology. Laureato in Medicina e Chirurgia a Bologna nel 1979, si è successivamente specializzato in Neurologia presso la stessa Università con una borsa dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Ricercatore universitario presso l’Istituto di Fisiologia Umana dell’Università di Modena dal 1983 al 1991, professore associato di Fisiologia Umana presso la II Università di Roma dal 1992 al 2000, è professore ordinario dell’Università di Genova dal 2000. Dal 1983 al 2000 ha trascorso numerosi periodi di lavoro all’estero, dapprima al Karolinska Institutet di Stoccolma nel laboratorio dei proff. Kiell Fuxe e Thomas Hokfelt e in seguito per un lungo periodo alla Rockefeller University di New York, presso il laboratorio del Prof. Paul Greengard, premio Nobel 2000. Oggi, oltre all’impegno presso IIT, mantiene il proprio insegnamento all’Università di Genova ed è Foreign Adjunct Professor presso la Rockefeller University. Fabio Benfenati è un esperto riconosciuto nel campo della trasmissione sinaptica. Utilizzando una combinazione di tecniche sperimentali che includono biologia cellulare, biochimica, biofisica, live imaging, elettrofisiologia e biologia molecolare e che prevedono la creazione di modelli murini alterati geneticamente, il Prof. Benfenati ha studiato i meccanismi della comunicazione sinaptica, le modalità con cui la trasmissione ed elaborazione delle informazioni nelle reti neurali viene modulata in risposta a stimoli ambientali e come questi meccanismi risultano alterati nelle patologie del sistema nervoso come epilessia e autismo. Ha inoltre sviluppato tecniche innovative per interfacciare i neuroni con smart materials con applicazioni in campo neuroprotesico. Fabio Benfenati è autore di oltre 200 pubblicazioni in prestigiose riviste scientifiche internazionali che includono Science, Nature, PNAS, Cell e Neuron. E’ stato Presidente della Società Italiana di Neuroscienze e della Italian Physiological Society e presiede attualmente il Collegio dei professori ordinari di Fisiologia. 

INTRODUZIONE

Nei dizionari di filosofia si legge: “La creatività è una capacità individuale, potenzialmente presente nei campi più diversi che consiste nel cogliere i rapporti fra cose o idee in modo nuovo o nel formulare intuizioni non previste dagli schemi di pensiero abituali o tradizionali”. Le idee si ritiene emergano da quella zona intermedia tra il mondo interno e quello esterno, questo limbo o zona franca dove tutto è lecito, che non appartiene totalmente né al soggetto, né alla realtà esterna. Zona di confine e di passaggio, dove avvengono tutti i processi creativi. Lo studio della creatività nell’arte e nella scienza è caratterizzato da una varietà di domande chiave, quali la natura del processo creativo, se esistono diversi tipi di creatività e quali sono le basi neuronali della creatività.

La capacità di essere creativi è una delle più importanti caratteristiche degli esseri umani. In linea generale, i processi creativi non si riferiscono solo alle arti e alla scienza, ma anche ai mondi della tecnologia, insegnamento, comicità, affari, relazioni interpersonali e molti altri domini dell’espressione umana. Il concetto di creatività si riferisce tipicamente all’improvvisa comparsa di qualcosa di nuovo che ha, in senso lato, risvolti positivi per la società. Anche se l'”Eureka” sembra comparire all’improvviso dal nulla, è in realtà il prodotto di un retroterra culturale che l’individuo ha assimilato dalla società in cui vive.

La creatività nell’arte potrebbe essere vista come un caso particolare della creatività generale, in cui la capacità innovativa si coniuga strettamente con il talento artistico. Generare opere d’arte sembra essere un’attività esclusiva della specie umana. Tuttavia, anche se vi è la convinzione che la capacità creativa dipenda direttamente dallo sviluppo della corteccia cerebrale, non è stata finora identificata nessuna specifica area cerebrale, circuito, emisfero che sia responsabile della creatività e del talento artistico. Le funzioni creative sembrano emanare dall’attività globale del nostro cervello e non vengono compromesse in caso di lesioni cerebrali.

FILOGENESI DELLA CREATIVITÀ

Vista secondo una prospettiva biologica ed evoluzionistica, la creatività come “innovazione” non è esclusiva della specie umana. Lo studio del comportamento degli animali ci testimonia multipli esempi di creatività e/o innovazione. Ad esempio, le cince in Inghilterra avevano imparato a perforare la carta stagnola che sigillava le bottiglie di latte per alimentarsi, un comportamento innovativo che si è rapidamente diffuso. Analogamente, le scimmie hanno imparato a privare le patate dalla sabbia lavandole nell’acqua del fiume, o a usare le ossa come armi per la caccia, come illustrato nell’indimenticabile sequenza iniziale “The dawn of man” di “2001, a space odyssey” del grande regista Stanley Kubrick. La creatività umana ha quindi delle componenti che provengono dal lungo percorso dell’evoluzione della nostra specie. Questo sembra confermato dalle creazioni pittoriche di Congo, uno scimpanzè di due anni dotato di un talento particolare che fu studiato approfonditamente da Desmond Morris, un etologo inglese. Morris insegnò a Congo a dipingere tenendo il pennello tra indice e pollice. Nelle sue opere, ammirate da Picasso, Dalì e Mirò, Congo dimostrò di avere un preciso senso dello spazio e delle differenze cromatiche, rispetto dei limiti della tela e consapevolezza del completamento dell’opera (Dipinto dello scimpanzè Congo (da: Desmond Morris, The Biology of Art, 1962)). 

 

 

LE BASI NEUROFISIOLOGICHE DELLA CREATIVITÀ

La creatività è un momento di non-linearità, discontinuità, momentaneo conflitto tra pensiero e percezione che ci fa intravedere nuovi rapporti tra le cose, entrare in una nuova dimensione portandoci a un’espansione dei nostri sensi e permettendoci di uscire dagli schemi prestabiliti. La creatività richiede anche flessibilità cognitiva e capacità di generare ricche associazioni tra elementi del sapere comune anche molto distanti fra loro. Per queste ragioni, non vi è una sede cerebrale precisa o un singolo circuito neuronale responsabile delle attività creative. La creatività emerge dall’attività della corteccia associativa, termine con cui si definiscono ampie aree di neocorteccia nell’uomo che non sono connesse direttamente con il mondo esterno (cioè non ricevono afferenze sensitive e non impartiscono comandi motori), ma formano una rete di comunicazione che mette in contatto tutte le diverse aree della corteccia anche molto distanti tra loro. Da questa rete associativa, in cui sono rappresentati il passato (memoria), il presente (percezione), il futuro (comportamento), l’attenzione e il valore (spazio di lavoro globale) si ritiene emerga l’espressione della creatività

 

Alcuni studi di risonanza magnetica funzionale hanno dimostrato l’esistenza di correlazioni tra capacità creativa e spessore della corteccia orbito-frontale di sinistra, giro angolare, lobulo parietale inferiore di sinistra e corteccia del cingolo di destra. L’insieme di queste aree distanti fra loro e appartenenti a distinti emisferi suggerisce che la connettività neurale e lo spazio di lavoro globale sia una componente fondamentale del processo creativo. A conferma di questa ipotesi, lo sviluppo della creatività lungo l’evoluzione è parallelo allo sviluppo della corteccia associativa che, scarsamente rappresentata nei carnivori, si espande nei primati e aumenta esponenzialmente nel passaggio dai primati all’uomo. Inoltre, malattie neurologiche come Parkinson o ictus, che colpiscono distinte aree cerebrali, non sembrano alterare significativamente l’espressione della creatività. Anche se la casistica dei casi di lesioni cerebrali negli artisti è non è molto ampia, l’esame della produzione artistica dopo il danno neurologico ha rivelato una sostanziale prosecuzione della loro produttività artistica, talora in modo prolifico e con creatività preservata. Uno studio ha riportato che circa 45 su 55 casi di artisti con danno cerebrale unilaterale o diffuso hanno continuato la loro produzione artistica con le stesse tematiche e stile (Zaidel, 2005), dimostrando che creatività, talento, idee, concetti e attività cognitiva simbolica sono diffusamente implementate nelle varie aree cerebrali e che non esiste un singolo centro responsabile della creatività artistica.

LE BASI COMUNI DI RICERCA ARTISTICA E RICERCA SCIENTIFICA

L’atto creativo per eccellenza è quello dell’artista che compie la sua opera. Nel concetto di atto creativo è insito un altro termine assai sfuggente: quello di novità e quindi di unicità e irripetibilità. La novità che si richiede a un atto perchè sia creativo pone anche un altro problema: quello del caso che può favorire l’artista a cogliere i rapporti fra le cose o le idee in modo nuovo o nel formulare intuizioni non previste dagli schemi di pensiero abituali o tradizionali. D’altra parte, scoperte scientifiche che hanno rivoluzionato la nostra conoscenza e il nostro modo di guardare il mondo, pur rappresentando delle vette che appaiono irraggiungibili del pensiero umano, non hanno il carattere dell’irripetibilità, ma solo dell’improvvisa propulsione in avanti lungo una strada già tracciata. La scoperta della relatività o della struttura del DNA sono sicuramente traguardi geniali raggiunti da scienziati che sono riusciti a liberarsi da tradizione e pregiudizi, ma sarebbero state ugualmente raggiunte, magari anni o decenni dopo, da altri scienziati nel procedere inarrestabile della conoscenza umana.

Mentre la ricerca artistica si affida alla capacità dell’artista di guardare “oltre” di aprirci un mondo nuovo, di farci affacciare a realtà enigmatiche come l’infinito o l’eternità, la ricerca scientifica mira a espandere la nostra percezione verso l’infinitamente grande o l’infinitamente piccolo, costruendo delle leve che permettono di aprire la superficie della realtà e vedere cosa c’è al di sotto, come si è generata, quale sarà il suo futuro. Tutti noi siamo limitati nell’estensione e profondità della percezione da limiti obiettivi della nostra sensibilità verso i colori, i dettagli, la distanza o le frequenze del suono. Ricercare, nell’arte e nella scienza, è insomma espandere la nostra percezione. A questo riguardo, un recente studio condotto utilizzando la risonanza magnetica funzionale su un campione di artisti e scienziati sottoposti a prove di associazione di parole, non solo ha confermato che il processo creativo attiva multiple aree cerebrali, ma che artisti e scienziati attivano le stesse aree cerebrali durante il processo creativo (Andreasen et al., 2012).

Intuizione e creatività sono concetti che vengono abitualmente associati all’espressione artistica nelle sue varie forme. Cosa si può dire della loro applicazione alla ricerca scientifica? Arte e Scienza sono attività da un lato profondamente diverse, dall’altro simili per quanto riguarda l’aspetto del “ricercare”. La Scienza non crea; piuttosto, cerca di dissezionare il creato e di carpire il progetto che ne sta alla base. E’ quindi, in sé, un processo inverso a quello della creazione artistica. Tuttavia, il decifrare una struttura ignota partendo da una sua piccola parte, talora infinitesima come in un puzzle, e di cercare di comprendere un progetto scritto in un linguaggio ignoto, necessita di intuizione, di una sorta di Stele di Rosetta che ci faccia guardare le cose sotto una diversa prospettiva o in una diversa dimensione. A questo riguardo, Francois Jacob, premio Nobel per la Medicina nel 1965 ha scritto: “La scienza in biologia non si propone di spiegare l’ignoto con ciò che è noto, come in certe dimostrazioni matematiche. Essa mira a giustificare ciò che si osserva con le proprietà di ciò che si immagina, a spiegare il visibile con l’invisibile, ed evolve con l’evoluzione dell’invisibile, con il ricorso a nuove strutture nascoste, a nuove proprietà ipotetiche”.

Queste considerazioni identificano le seguenti basi comuni del “Ricercare” artistico e scientifico: il farsi delle domande non ovvie, colmare un vuoto esistente, cercare di soddisfare un impulso interiore, di dare significato all’esistenza, espandere la nostra percezione, sperimentare ed esplorare per fare avanzare la conoscenza. Sia la ricerca artistica, sia quella scientifica hanno la finalità di produrre emozioni (come ha detto Richard Feynman, Nobel per la Fisica nel 1965: “L’emozione è la vera molla della ricerca scientifica”) e di generare bellezza e armonia. La creazione di bellezza è una sensazione comune nel campo della Scienza. Il grande matematico Henri Poincaré ha detto “Lo scienziato non studia la natura perché è utile; la studia perché ama studiarla, e ama studiarla perchè è bella“. Marie Sklodowska Curie premio Nobel per la Fisica nel 1903 e per la Chimica nel 1911 ha scritto “Io sono di quelli che pensano che la scienza ha una grande bellezza. Uno scienziato nel suo laboratorio non è soltanto un tecnico: è anche un fanciullo posto in faccia ai fenomeni naturali che lo impressionano come una fiaba. Se io vedo intorno a me qualcosa di vitale, è precisamente questo spirito d’avventura che va di pari passo con la curiosità” e Richard Feynman Per coloro che non conoscono la matematica, è difficile percepire il sentimento di bellezza, la profonda bellezza della natura. C’è stato un momento in cui ho capito come funzionava la natura. La teoria aveva eleganza e bellezza“.

RAPPORTI TRA ARTE E SCIENZA

Un discorso particolare deve essere fatto a proposito degli intensi collegamenti e fertilizzazioni reciproche tra il mondo dell’arte e quello della scienza. Sia la ricerca artistica che quella scientifica sono stimolate dal progresso e dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche. Ma i rapporti tra loro sono ancora più profondi. L’arte del Novecento, in particolare, è stata profondamente influenzata dalla scienza, nel senso che gli artisti si sono interessati alle scoperte scientifiche e talora hanno perfino collaborato con gli scienziati dell’epoca.

Pablo Picasso ha creato nel 1907 “Les Demoiselles d’Avignon“, una pittura innovativa che contiene in sé i semi del Cubismo, ma che è anche profondamente ispirata ai recenti sviluppi della matematica, della scienza e della tecnologia (Pablo Picasso (1907) “Les Demoiselles d’Avignon” e Wassily Kandisky (1910) Primo acquerello astratto). Il volto dei personaggi appare contemporaneamente di faccia e di profilo, come fosse una proiezione da una quarta dimensione spaziale dalla quale è possibile guardare una scena da tutte le possibili prospettive.

Wassily Kandinsky ha prodotto la prima opera d’arte astratta nel 1910 che non contiene nulla di quanto vediamo nel mondo reale in cui viviamo. Si ritiene che Kandinski sia stato influenzato non tanto dalla quarta dimensione temporale, ma dall’inter-convertibilità tra materia ed energia sancita dall’iconica equazione di Einstein E=mc2. Il fatto che l’energia che è diffusa si possa convertire in massa (che nella nostra mente è localizzata) porta l’artista all’interpretazione di una realtà completamente amorfa.

Se ci soffermiamo sul dipinto di Salvador Dalì “Persistenza della Memoria” del 1931 , guardando gli orologi deformati e stanchi possiamo percepire la deformazione del tempo prevista dalla teoria della relatività, secondo la quale il tempo scorre più lento e dilatato negli orologi in movimento rispetto agli orologi a riposo.

 

 

Anche la geometria a più dimensioni ha affascinato Dalì, come si può osservare nel dipinto “Crocefissione” del 1954. Invece di dipingere Cristo su una croce di legno, Dalí lo immagina sospeso su un ipercubo composto da otto cubi che simulano la forma della croce, ma che in realtà esprimono la rappresentazione dello sviluppo, nello spazio tridimensionale, di un solido che si studia nella geometria della “quarta dimensione”, il tesseratto, ossia un solido (avente come “facce” otto cubi) che non è possibile vedere, essendoci preclusa la quarta dimensione, ma solo intuire . L’uso di un ipercubo per la croce è stato interpretato come un simbolo geometrico per la natura trascendentale e multidimensionale della divinità. Così come il concetto di Dio esiste in una dimensione difficilmente accessibile o comprensibile per la percezione umana, l’ipercubo esiste in quattro dimensioni spaziali, ugualmente inaccessibile alla mente umana.

Una relazione molto stretta lega il Cubismo con la Fisica dei quanti. Niels Bohr (Premio Nobel per la Fisica nel 1922), uno degli inziatori della meccanica quantistica secondo la quale, ad esempio, un elettrone può essere al tempo stesso una particella e un’onda, era un grande amante dell’arte, e del Cubismo in particolare. Come nel caso dell’elettrone, i dipinti cubisti vanno oltre la percezione a tre dimensioni, alterando la certezza degli oggetti e rivelandone le ambiguità. Bohr era conscio che i dipinti cubisti rappresentano la scena come se uno vi camminasse intorno e la campionasse in sequenze successive, in analogia al principio di complementarietà e d’indeterminazione, pilastri portanti della meccanica quantistica.

Strettissimi, anche se in larga parte inconsapevoli, sono i rapporti tra arte e neuroscienze della percezione. Gli artisti sono neurofisiologi inconsapevoli, creano immagini che mettono alla prova il nostro sistema visivo, lo portano oltre i confini della realtà quotidiana. Non solo nella citata “Persistenza della memoria“, Dalì allude alla trasformazione dei nostri ricordi con il passare del tempo, attraverso i continui processi d’immagazzinamento, richiamo e riconsolidamento delle memorie che avvengono nel nostro cervello, ma nel dipinto “Disintegrazione della persistenza della memoria” allude al disgregarsi dei ricordi quando si passa dal fisiologico oblio alla incapacità di creare nuovi ricordi (amnesia; ).

Così come Dalì è stato ispirato dalle teorie della memoria, così i futuristi sono riusciti a rappresentare movimento e dinamismo in opere statiche che tuttavia vanno a stimolare quella parte di corteccia visiva che è deputata all’analisi dei rapporti spaziali tra soggetto e ambiente e al relativo movimento . E così i Fauves, che usano colori irreali per rappresentare soggetti reali, sfidano le nostre aree visive che analizzano colore e oggetti e che associano ad ogni oggetto un colore invariante.

In ultima analisi, nel momento magico della scoperta situato al confine sfocato tra Arte e Scienza, gli scienziati e gli artisti seguono simili linee concettuali. Nel caso di Einstein e Picasso, è stata la scoperta di una nuova estetica: per Einstein, Feynman e Dirac l’estetica del minimalismo; per Picasso, l’estetica di ridurre le forme alla geometria, che sarebbe poi diventata la base del Cubismo.

LE MACCHINE POSSONO ESSERE CREATIVE?

I computer possono essere creativi? Le proprietà cognitive più elevate, ivi inclusa la creatività, sono il prodotto delle proprietà emergenti dall’enorme complessità del sistema nervoso dei primati e dell’uomo. Per questa ragione, un computer che nell’hardware non riesca a emulare la complessità del cervello umano, non dovrebbe esprimere creatività. E’ tuttavia possibile, mediante sofisticati softwares che imitano i processi di apprendimento propri dei circuiti nervosi (reti neurali), generare risultati non prevedibili rispetto alle condizioni di partenza e che talora sono difficilmente distinguibili da opere genuine dell’ingegno e della creatività umana.

Nel 1965, periodo in cui computers con meno prestazioni di un comune laptop riempivano intere stanze, un ingegnere con il nome di A. Michael Noll, lavorando a Bell Telephone Laboratories nel New Jersey, pensò di utilizzare il computer, non solo per risolvere complesse equazioni, ma anche nel campo artistico,. Noll amava le opere di Piet Mondrian, in modo particolare le sue “Composizioni con linee“, una serie di dipinti che Mondrian aveva creato fin dal 1917. Noll formulò un algoritmo in grado di collegare punti casualmente dislocati nello spazio con linee orizzontali e verticali, per poi confrontarlo con il quadro originale. L’indagine coinvolse un centinaio di persone di elevata cultura all’interno dei Laboratori Bell e il risultato fu sorprendente: solo il 28% delle persone furono in grado di riconoscere l’opera autentica e, una volta svelata la paternità dell’opera, il 59% delle persone preferiva l’opera generata dal computer per una maggiore casualità nel disegno, percepita come espressione di maggiore creatività (Noll AM, 1966).

 

Da allora, gli algoritmi nel campo delle immagini e della musica sono diventati molto più sofisticati. E sono stati prodotti algoritmi in grado di generare musica classica nell’ambito delle timbriche e del senso estetico dei grandi musicisti che costellano la storia della musica. David Cope, uno scienziato informatico e musicista, è stato un pioniere in questo campo, creando un algoritmo per generare musica di Bach, Vivaldi, Chopin, Beethoven, Mahler che appare, alla nostra percezione uditiva, praticamente indistinguibile dalle opere originali.

 

Negli ultimi anni, la computer art è diventata parte integrante dell’espressione artistica contemporanea. L’artista e ricercatore informatico Scott Draves, autore dell’algoritmo “Electric Sheep” che produce immagini in continua trasformazione, ha affermato: “Io credo che con la computazione si possa riprodurre l’intero processo creativo, e che, alla fine, anche i computers abbiano un’anima“.

CONCLUSIONI

Albert Einstein (I fondamenti della ricerca, 1918) afferma che: “Una delle ragioni che spingono l’uomo all’arte e alla scienza è il desiderio di sfuggire alla desolata tristezza e alle sofferenze della vita quotidiana….L’uomo cerca di formarsi, secondo le proprie esigenze, un’immagine del mondo semplice e chiara e si sforza di trionfare sul mondo reale sostituendolo in una certa misura con questa immagine. È ciò che fanno, ciascuno a suo modo, il pittore, il poeta, il filosofo speculativo, il naturalista”. Il fine più alto dello scienziato, secondo Einstein, “è quello di pervenire a leggi elementari universali che permettano la ricostruzione dell’universo per via deduttiva. Nessuna via logica conduce a queste leggi universali: soltanto l’intuizione, fondata sull’esperienza, può condurci a esse“.

La storia della Scienza ci insegna che i grandi avanzamenti nella storia della ricerca sono spesso attribuibili a un attimo in cui lo scienziato riesce a “vedere un certo fenomeno sotto una luce e una prospettiva diversa, dandogli un diverso significato. Tuttavia questa caratteristica, essenziale e integrante in molte delle scoperte dei secoli scorsi, si sta sempre più disperdendo. Oggigiorno, tutto è molto più prevedibile e la ricerca tende a scorrere lungo binari ben tracciati. Il genoma è sequenziato, sono stati identificati i principi evolutivi degli acidi nucleici e delle proteine, è possibile individuare la funzione di una proteina sulla base della sequenza o degli effetti della sua privazione. Tutto ciò, se da un lato facilita e accelera enormemente il progresso e l’avanzamento delle nostre conoscenze, dall’altro lascia sempre meno spazio all’intuizione e alla creatività.

Bombardati come siamo da un carico enorme di informazioni, viene a mancare nella ricerca odierna quella leggerezza creativa essenziale a produrre avanzamenti significativi. Come Italo Calvino (Lezioni Americane, 1988) ci indica la strada per riacquistare la leggerezza perduta: “Nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Nell’universo infinito della letteratura s’aprono sempre altre vie da esplorare, nuovissime o antichissime, stili e forme che possono cambiare la nostra immagine del mondo… Ma se la letteratura non basta ad assicurarmi che non sto solo inseguendo dei sogni, cerco nella scienza alimento per le mie visioni in cui ogni pesantezza viene dissolta…”