Dossier

Carla Cucchiarelli . Le scarpe rotte

12/10/17

Carla Cucchiarelli – giornalista, vicecaporedattore del TGR Lazio, scrittrice, appassionata di tematiche sociali e di arte. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: “Perché le mamme soffrono. Storie vissute nell’universo salvamamme” (Armando editore, 2009) con Vincenzo Mastronardi e Grazia Passeri; il romanzo “Ho ucciso Bambi” (Zeroundici edizioni, 2012), la drammatica vicenda di un artista in “Quella notte a Roma” (Iacobelli editore, 2013) e l’autobiografia non autorizzata di Monna Lisa in “No, la Gioconda no” (Compagnia editoriale Aliberti, ebook 2015). Un suo racconto è nel libro “Streghe d’Italia o presunte tali 2” (Fefè Editore, 2014)

Il grande mostro non è ancora arrivato in redazione, nessun robot può per il momento sostituire il lavoro del giornalista, anche se il New York Times profetizza che, entro 15 anni, il 90 per cento degli articoli saranno scritti da un computer. Con una veloce ricerca in rete già si trovano Wordsmith (letteralmente “la buona penna”) un software capace di elaborare dati e tradurli in testi e Articoolo, startup israeliana che invece attinge da testi pubblicati sull’argomento rielaborandoli. Il robot che scrive un buon inglese è già utilizzato in America, ma per il suo corretto funzionamento serve sempre l’ausilio umano, quanto alla creazione israeliana presenta molti limiti, in particolare il rischio continuo di plagio. È stata la tecnologia che conosciamo e usiamo quotidianamente, invece, a cambiare negli ultimi anni il lavoro dei giornalisti, a farlo crescere e, allo stesso tempo, a metterlo in crisi

Siamo tutti giornalisti

La prima nota, un lancio scarno, essenziale, di quelli che fanno gelare il sangue, poi le immagini, la diretta, la gente che rilancia messaggi sui social network, persino la polizia che interviene per smentire alcune false indicazioni. Una data su tutte, la notte del Bataclan, a Parigi. Era il 13 novembre del 2015, come fu per le Torri Gemelle a New York, come in molti altri episodi simili, siamo stati dentro la notizia, l’abbiamo vissuta sulla pelle, ne abbiamo provato le ferite, l’impotenza, la rabbia, l’empatia. Quel non riuscire a venirne fuori. Siamo stati tutti lì e contemporaneamente a casa, a preparare la cena, a parlare con gli amici, a morire sotto inutili spari, a vivere due vite nello stesso momento. “Ascolta come mi batte forte il tuo cuore” scriveva Wislawa Symborska. Siamo stati tutti davvero, per un attimo, Charlie Hebdo o le vittime della strage di Nizza.

Succede allo spettatore, come al giornalista. Si piange, cercando di non farsi notare, seguendo un funerale per lavoro, raccontando una strage, la vita dei senza tetto, degli immigrati costretti a vendere borsette finte sul Lungotevere e a morire d’infarto per evitare il sequestro della merce. Vieni trascinato in un fatto di cronaca, nella vita di un altro, ne rimani prigioniero. “Lei ha le scarpe sporche come tutti noi, qui ad Amatrice” dice il sindaco Sergio Pirozzi abbracciando la giornalista del telegiornale regionale della Rai, Isabella Di Chio, che per mesi è rimasta a seguire la ricostruzione post terremoto nel reatino, dormendo e mangiando con gli sfollati. Sono le scarpe la chiave di volta. Si diceva così una volta: “Devi avere le scarpe rotte per fare il giornalista”, era la metafora di un modo di fare informazione garibaldino, di un impegno in prima linea, con il cronista che camminava tutto il giorno per la città cercando le fonti. A me capitava, seguendo un processo importante, di sognarlo la notte, di vedermi in aula o catapultata in mezzo agli investigatori. Una volta, però, prima dell’avvento dei social network, delle reti all news, a essere dentro la notizia era solo il giornalista, con il suo taccuino, le sue scarpe sporche, i suoi dubbi. Oggi ci siamo tutti, nel bene e nel male, con il nostro passato, i nostri pregiudizi, la nostra carica di aggressività quotidiana.  Così è successo che piano piano si sono spente le edicole perché i giornali non si vendono più, molti quotidiani hanno acceso le telecamere, così come le agenzie d’informazione. Serve l’immediato, il “qui ed ora” per raccontare l’evento, perché già il mattino dopo sarà superato dai fatti, da quanto si è vissuto e appreso in rete.

E se da un lato questo porta il mondo dell’informazione – giornalisti di carta stampata, dei siti on line e della televisione – a potenziare le proprie conoscenze, a studiare tecnologie, a confrontarsi con mezzi sempre più aggiornati, dall’altro rimane insostituibile il compito di chi racconta, di chi si sporca comunque le scarpe, di chi dedica il proprio tempo alla ricerca di notizie e spunti da offrire al pubblico. Uno dei protagonisti del film La giusta distanza di Carlo Mazzacurati suggerisce un’altra chiave di volta della professione: “La giusta distanza è quella che un giornalista dovrebbe saper tenere tra sé e la notizia: non troppo lontano da sembrare indifferente, ma nemmeno troppo vicino, perché l’emozione a volte può abbagliare.”

L’amico computer

Ho iniziato a fare questo lavoro scrivendo gli articoli a macchina, per trovare materiale d’archivio impiegavo ore. Poi ho imparato a usare il computer, a leggere i take di agenzia sullo schermo, a usare i motori di ricerca che mi rilanciano in un minuto più di quanto potrò mai leggere. Ho cominciato a vedere i video su You Tube, a inseguire le notizie sui social network, a comunicare direttamente con i telespettatori, a ricevere critiche e complimenti. Il mio lavoro di giornalista è cambiato, come sono cambiata io in questi trenta e passa anni, come è cambiata la televisione. Oggi la tecnologia ci fornisce strumenti meravigliosi che, da un lato hanno facilitato il mestiere, dall’altro sottratto fascino alla professione. A chi lavora in televisione, come me, si sono aggiunti nuovi passaggi legati al digitale, a chi lavora nella carta stampata, a volte, l’onere di imparare a usare la telecamera.

Le scarpe rotte però rimangono, sono il cuore del rapporto tra il giornalismo e il suo pubblico. Perché una cosa è essere sul posto dove avviene il fatto e un’altra è osservare dalla televisione o attraverso i messaggi di chi scrive sui social network, perché una cosa è lavorare per ore a cercare di capire dove sia il problema e un’altra è ascoltare una soluzione preconfezionata. Rimane la giusta distanza. Lo scegliere, per esempio, le immagini da trasmettere per non urtare la sensibilità del telespettatore o quella della vittima e dei suoi familiari, le parole da usare per non scatenare odio o creare tensione, il rispetto verso i protagonisti di una vicenda, il cercare di presentare le possibili sfumature per fornire all’utente la possibilità di valutare i fatti. Continuo a pensare che il giornalismo sia un lavoro etico, con il compito fondamentale di dare informazioni corrette, per favorire una crescita collettiva. Persino mettendosi nelle scarpe di un altro.