Dossier

Gianni Pittiglio. Arte a tavola: Medioevo e Rinascimento

18/04/19

Gianni Pittiglio è uno storico dell’arte laureatosi all’Università “La Sapienza” di Roma (2000), dove ha conseguito il diploma di specializzazione in storia dell’arte medievale e moderna (2004) e il dottorato di ricerca (PhD, 2018), con una tesi dal titolo Le immagini della Divina Commedia. Tradizione, deroghe ed eccentricità iconografiche tra XIV e XV secolo. Dal 2000 è in organico nel Ministero per i Beni le Attività Culturali e lavora a Roma, presso la sede centrale del Collegio Romano.

Tra le sue principali pubblicazioni, per lo più a carattere iconografico, si segnala il progetto in quattro volumi sull’Iconografia Agostiniana, di cui sono finora stati pubblicati i primi due (Dalle origini al XIV secolo, 2011; Il Quattrocento, 2015). Ha tenuto conferenze, partecipato a diversi convegni, tra cui quelli di Firenze e Tours del Dante visualizzato, collaborato con alcune riviste (Arte.it, Galileo, Sapere) ed è stato docente presso il Master’s Degree in Augustinian Studies and Spirituality​ dell’Institutum Patristicum Augustinianum (2014-16).

 

A TAVOLA DALL’ANTICHITA’ AL RINASCIMENTO: CIBI, STRUMENTI E TRADIZIONI NELLE OPERE D’ARTE

 

Gianni Pittiglio

La tavola imbandita, nel nostro immaginario, rimanda immediatamente ad una concezione di casa e familiarità o quantomeno di convivialità, come testimoniano eloquentemente i prefissi di “con-vivio” e “sim-posio”, termini che in latino e greco indicano proprio quell’idea di stare “insieme”. Se, però, proviamo a pensare alla sua prima raffigurazione nella storia, l’ovvietà si trasforma in un bel quesito storico, che vale la pena scandagliare.

Tralasciando alcune raffigurazioni egizie ed etrusche, partiamo dall’età classica e da quella fonte iconografica pressoché inesauribile rappresentata dagli affreschi di Pompei, che ci raccontano gli usi e i costumi culinari degli antichi romani attraverso le immagini. È lì, infatti, che troviamo scene di banchetti che ci mostrano ricchi uomini in tunica, e donne al loro fianco, adagiati su triclini, o tavole ricche di stoviglie preziose. Siamo nel primo secolo dopo Cristo – l’incendio che devastò ma allo stesso tempo permise di conservare quel patrimonio in maniera così unica avvenne nel 79 – e il vino è indubbiamente il grande protagonista di queste scene. Anfore, boccali, coppe sono poggiati sui tavoli o stretti tra le mani dei commensali, in composizioni in cui le licenze bacchiche fanno da contorno a quanto rappresentato.

 

Una testimonianza eccezionale, invece, è quella del sito archeologico di Egnazia, in Puglia, a metà strada tra Bari e Brindisi sul versante adriatico, dove nel 1978 venne trovata una terracotta risalente al II-III a.C. raffigurante una scena di Banchetto funerario , altra consueta occasione nella Grecia antica e nella Roma imperiale per simposi, durante i quali si celebravano i defunti alternando al cibo, canti, danze e dialoghi eruditi. Quelli che in epoca pagana erano noti come parentalia vennero poi mutuati dai cristiani e presero il nome di refrigeria, stigmatizzati come retaggi pagani dai padri della Chiesa, tra cui sant’Agostino – «ebrietates et luxuriosa convivia» (Epistulae, XX, 6) –, furono soppressi dal Concilio di Cartagine del 397.

Allo stesso tempo, però, la pittura classica ha conservato anche una serie di nature morte, diremmo oggi, con un’espressione seicentesca invalsa fino a noi, quelle still life degli inglesi o bodegàn per gli spagnoli, che all’epoca erano semplicemente degli xenia, i doni di ospitalità scambiati vicendevolmente tra chi accoglieva e chi veniva accolto, segno tangibile dell’inclinazione spirituale del mondo greco a riguardo. Ne restano vari esempi nelle pittura pompeiane, con ceste o vasi di fichi, noci, pere, uva, formaggi e latte, ma anche con lepri, anatre, pesci, pane, castagne, ecc. .

 

Rientrano nella stessa categoria i cosiddetti “pavimenti non spazzati”, gli σάρωτονοἶκος, o semplicemente ἀσάρωτον, mosaici pavimentali che riproducevano scarti di cibo per committenti che in questo modo ostentavano la propria ricchezza. Risaliva al II a.C. quello che Plinio il Vecchio descrive nella città di Pergamo, creato dall’artista Sosos, purtroppo perduto, ma ce ne restano altri due esempi: uno trovato a Roma nella Vigna Lupi, della stessa epoca, oggi ai Musei Vaticani, in cui vediamo resti di pollo, ricci di mare, verdure, frutta secca e persino un topolino che sta per mangiare una noce; l’altro proveniente dal Foro di Cesare di Aquileia, del I a.C., oggi al Museo Nazionale, con lische di pesce e molluschi oltre quanto già presente nell’altro .

Un esempio di come durante un banchetto fosse pratica comune gettare i resti a terra è visibile in un mosaico di III secolo, conservato nel castello di Boudry, in Svizzera, che mostra un gruppo di commensali romani mangiare grossi tacchini e bere dalle bottiglie, rigorosamente sdraiati, mentre il pavimento è disseminato di ossi, lische, ecc., per la felicità di un gatto che si aggira nella sala .

 

Se di nature morte si tornerà a parlare solo a partire dalla fine del Cinquecento e, ancor meglio, nel Seicento, spesso con riferimento alla vanitas insita nella corruttibilità e deperibilità del cibo – si pensi alla famosa Canestra di frutta che Caravaggio dipinse per Federico Borromeo (fig. 10) – il passaggio dal paganesimo al cristianesimo come religione dominante, naturalmente, modificò profondamente i contesti figurativi e, per vedere scene con tavole apparecchiate e cibo, bisogna soprattutto cercare nelle storie vetero e neotestamentarie. Fatta, quindi, eccezione per alcuni clamorosi affreschi con i Banchetti degli dei (es. Raffaello a Villa Farnesina, Giulio Romano a Palazzo Te, i Carracci a Palazzo Farnese, ecc.), la mente va a soggetti quali l’Ospitalità di Abramo, il Convito di Baldassarre e quello di Assalonne, le Nozze di Cana, la Moltiplicazione dei pani e dei pesci, e, principalmente, l’Ultima Cena, il più frequente di tutti.

Le origini iconografiche della tavolata più celebre della storia dell’arte sono riscontrabili nelle catacombe romane, dove negli arcosoli di alcuni cubicoli si ripete l’immagine del “banchetto celeste”, equiparato all’agape, parallelo ebraico-cristiano del simposio pagano, dal quale però si differenziava nel consumo di vino. L’immagine riprendeva le parole evangeliche di Matteo, «il regno di Dio è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio» (22, 2), e di Luca, «beato chi mangerà il pane nel regno di Dio». Nelle catacombe dei SS. Pietro e Marcellino , infatti, alla mensa compaiono tra gli altri Agape e Irene, due fanciulle i cui nomi, Amore e Pace in greco, fanno supporre per loro una valenza allegorica di virtù nel Paradiso. Nelle catacombe di San Callisto e in quelle di Santa Priscilla, invece, i commensali sono sette, un dettaglio che ha fatto ipotizzare sia rappresentata la fractio panis effettuata da Cristo sulla riva del lago di Tiberiade, durante la terza apparizione successiva alla Resurrezione, che i vangeli descrivono avvenuta proprio davanti a sette apostoli .

Ma cosa appare a tavola nelle raffigurazioni dell’Ultima Cena?

La presenza di pane e vino è dominante per la loro connessione eucaristica al corpo e al sangue di Cristo, ma il primo è spesso elemento basilare per evidenziare la figura di Giuda, cui è destinato il boccone offerto da Gesù, che nei vangeli precisa «colui che mangia il pane con me, ha levato contro di me il suo calcagno» (Gv 13,18), oppure «colui che ha intinto con me la mano nel piatto, quello mi tradirà» (Mt 26, 23; Mc 14, 17-20).

 

E non a caso proprio con la mano nel piatto è colto Giuda, non altrimenti riconoscibile, nella miniatura del Codex purpureus di Rossano Calabro, capolavoro librario bizantino contente un vangelo illustrato (metà VI sec.), nel quale Gesù e i dodici apostoli appaiono sdraiati, un dettaglio che testimonia ancora l’abitudine di mangiare distesi tipica dell’antichità .

Va detto, inoltre, che l’apostolo traditore è identificabile, a seconda dei casi, anche perché privo di aureola o caratterizzato da un nimbo scuro attorno alla testa; rosso di capelli, mancino e dal naso adunco; seduto dalla parte opposta della tavola; con una sacca di denari in evidenza; vestito di giallo, il colore dell’infedeltà, o persino con l’altrettanto “infedele” gatto nei suoi pressi, che talvolta cattura la sua attenzione più delle parole di Gesù.

In molti casi nel piatto principale posto davanti a Cristo c’è l’agnello, animale sacrificale per antonomasia e, soprattutto, pasto tradizionale della Pasqua ebraica, il Pesach, festa che celebra la liberazione degli Ebrei dall’Egitto grazie a Mosè , nonché occasione in cui si svolge un’altra famosa cena evangelica, quella in Emmaus. La pietanza che poi divenne l’Agnus Dei nella tradizione cristiana, però, non è l’ultimo dei simboli posti sulla tavola dell’Ultima Cena, perché, soprattutto in età paleocristiana e altomedievale, non è raro che in quel piatto siano collocati uno o più pesci. Rappresentano un caso esemplare di questa iconografia il mosaico del ciclo sulla vita di Cristo nella basilica di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, dove Gesù e gli apostoli sono sdraiati come nel codice di Rossano, e il precedente più immediato, anch’esso bizantino, di queste scene dette “a sigma”, per la loro conformazione a semiluna, l’eburneo Dittico delle cinque parti del Museo del Duomo di Milano, dove però i personaggi sono solo quattro (fine V sec.;).

La presenza del pesce, però, non ha nulla di filologico, e va considerata in relazione alla parola greca ιχθύς, usata dai primi cristiani come acronimo devozionale che sta per Ἰησοῦς Χριστός Θεοῦ Υἱός Σωτήρ (Iēsous Christos, Theou Yios, Sōtēr = Gesù Cristo, figlio di Dio, Salvatore), un’equivalenza onomastica ben sintetizzata da sant’Agostino nel De civitate Dei (XVIII, 23): «se unisci le prime lettere delle cinque parole greche che significano “Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore” risulterà ichthýs, cioè “pesce”: è il nome con cui si intende simbolicamente Cristo, perché ha potuto rimanere vivo, cioè senza peccato, nell’abisso della condizione mortale come nella profondità delle acque».

Non deve invece sorprendere che, nel corso del Medioevo, la tradizione iconografica ormai codificata permetterà l’affermazione dell’immagine dei commensali seduti e non più sdraiati o l’inserimento di pietanze diverse, mentre sarà molto più ostica l’introduzione tra le posate, oltre che del consueto coltello, della forchetta. Quest’ultima, infatti, verosimilmente inventata nell’impero bizantino intorno al IV d.C., si diffuse in Occidente non prima dell’XI secolo, epoca in cui è testimoniata soprattutto in immagini di banchetti profani illustrati nei manoscritti , mentre è rarissimo trovarla nelle Ultime Cene.

Per spiegare questa particolarità va ricordato che quell’oggetto, oggi ritenuto assolutamente comune, venne fortemente osteggiato dalla morale ecclesiastica perché considerato strumento di mollezza demoniaco. San Pier Damiani giunse persino a considerare una punizione divina per l’uso della forchetta la morte della principessa bizantina Teodora (497-548): «Non toccava il cibo con le mani ma dagli eunuchi lo prendeva in piccolissimi pezzetti e subito dopo con una forchettina d’oro a due rebbi, lo avvicinava alla bocca con fare schizzinoso». Ed è ancora più esplicativa, in tal senso, la descrizione di una tavola imbandita da parte di Lotario dei Conti di Segni, futuro papa Innocenzo III che, sul finire del XII secolo, scrive nel suo De miseria humanae condicionis: «cosa c’è di più vano che ornare la mensa con tovaglie decorate, con coltelli dal manico d’avorio, con vasi d’oro, con ciotole d’argento, con coppe e bicchieri, crateri e catini, con scodelle e cucchiai, con forchette e saliere, con bacili e orci, con scatole e ventagli?».

Tornando invece alle Ultime Cene e ai cibi in esse rappresentate, l’agnello verrà talvolta ridotto a sineddoche, ponendo nel piatto la sola testa, come in un dipinto di Jacopo Bassano , altre volte al suo posto verrà preferito un maiale da latte, come ad esempio nel ciclo di Duccio da Buoninsegna sul retro della sua Maestà senese . Più avanti nel tempo, invece, già in età rinascimentale, in altri spazi della tavola ci sarà posto per mele, in riferimento al peccato originale, ciliegie, il cui colore rimanda alla Passione di Cristo: è il caso di Domenico Ghirlandaio . Sono rossi anche i gamberi di fiume che, soprattutto in area veneta e lungo la dorsale alpina fino al Ticino, fanno la loro comparsa nella scena cristologica tra Quattrocento e Cinquecento, anche se un primo esempio risale al XIII secolo nella Francia settentrionale . Tale presenza è stata spiegata attraverso numerose interpretazioni: secondo alcuni studiosi avrebbero un intento antisemita (i gamberi camminano a ritroso, così come fanno coloro che rifuggono la verità di Cristo); per altri, al pari di altri crostacei – come con l’aragosta nella Cena in Emmaus di Giambattista Langetti a Milano  –, acquisiscono quel colore rosso dopo la cottura, per alcuni mistici medievali equiparabile al sacrificio di Cristo risorto rifulgente di luce che ha sconfitto la morte; infine, i gamberi sarebbero connessi al segno zodiacale del Cancro (con Cancer / Karkinos può essere indicato qualsiasi crostaceo), segno del solstizio d’estate e, quindi, simbolo di Cristo Chronocrator signore del tempo, secondo quanto stabilito dalla teologia d’età romanica.

 

 

È, inoltre, una summa di tanti elementi simbolici, gamberi compresi, la straordinaria cappella dedicata all’Ultima Cena del Sacro Monte di Varallo, le cui sculture di fine ‘400  della bottega lombarda dei De Donati, prevedono sulla tavola anche diversi frutti e i paleocristiani pesci .

La simbologia cristica, naturalmente, appare anche altrove, e in particolar modo nelle Madonne col Bambino, in cui il rosso delle ciliegie, dei pettirossi, del corallo domina tra i dettagli delle composizioni.

Almeno in un caso, inoltre, quello di Quentin Metsys di Berlino , vi troviamo, oltre a questi elementi e al pane eucaristico, anche un inconsueto panetto di burro, da intendere come derivato del latte materno.

Parlando ancora di Ultime Cene, invece, è imprescindibile affrontare alcune questioni di iconografia tipologica. Con questa espressione, infatti, ci si riferisce all’associazione di passi veterotestamentari e del Nuovo Testamento, di cui i primi sono considerati una diretta prefigurazione. Una necessità che la dice lunga sulle difficoltà di mettere in relazione le due parti della Bibbia, di fatto scritte per due religioni differenti.

Si pensi al clamoroso caso di San Giorgio Maggiore a Venezia, per il cui presbiterio tra 1592 e 1594 Jacopo Tintoretto dipinse la Raccolta della manna sulla parete sinistra e l’Ultima Cena su quella destra, due soggetti che senza la conoscenza dell’iconografia tipologica non avrebbero ragione di essere accoppiati . L’episodio della raccolta della manna, inserito sia in Esodo (16, 1-36) che in Numeri (11, 1-9), narra della miracolosa apparizione di questa sostanza depositatasi a terra durante la notte descritta come rugiada, sottile, bianca come il seme di coriandolo e paragonata al bdellio, una gommoresina tratta da piante asiatiche e africane. Gli israeliti raccolsero il dono che il Signore promise a Mosè per sfamare il suo popolo, lo lavorarono e l’impastarono ricavandone focacce dal sapore di pasta all’olio, riuscendo a sopravvivere al periodo di carestia durante il loro viaggio dall’Egitto alla terra promessa.

A fare da contraltare alla tela, come detto, compare forse la più celebre delle Ultime Cene di Tintoretto, caratterizzata da una composizione diagonale fortemente innovativa, in una scena abitata da molti più personaggi dei tredici tradizionali, e arricchita, nella lunga tavola, da numerosi piatti, bottiglie e calici, che vanno ben oltre l’essenziale pasto a cui siamo abituati. Il pittore veneziano, infatti, inserì dei servitori intenti a portare o a rigovernare stoviglie; tra le pietanze, oltre al pane, aggiunse una serie di piatti ricolmi di frutti e due con quelle che sembrano a tutti gli effetti delle torte con candeline, a cui finora la critica non è riuscita a dare una spiegazione se non ipotizzando semplici motivazioni luministiche, e che peraltro compaiono anche circa vent’anni prima nell’Ultima Cena di Pomponio Amalteo dei Musei Civici di Udine .

 

 

 

Non è invece un caso che Tintoretto dipinga in primissimo piano anche un povero mendicante, elemento basilare per i dettami controriformistici del tempo: la Chiesa cattolica, infatti, durante il Concilio di Trento, attraverso la dottrina della giustificazione (1547), aveva stabilito che un buon fedele doveva guadagnarsi la salvezza eterna attraverso opere e fede e non solamente con la seconda, come propagandato invece dai riformati, motivo per cui nei dipinti proliferarono scene come questa, che mettevano in evidenza gesti caritatevoli.

 

E agli stessi dibattiti religiosi rimanda anche il particolare di Giuda che indica, unico tra gli apostoli, la bottiglia di vino, in un ennesimo dettaglio decisamente per i fedeli del tempo… Qui, infatti, e in diverse Ultime Cene del secondo Cinquecento, attraverso questo espediente, il traditore per antonomasia viene equiparato agli eretici riformati, che prevedevano la comunione per i laici sotto le due specie (pane e vino), mentre il Concilio di Trento nel 1551 aveva stabilito per loro solo la comunione sub specie panis.

Tornando all’iconografia tipologica e al cibo, però, non si può tralasciare l’ancor più complesso caso del Trittico dell’Ultima Cena, capolavoro del fiammingo Dierik Bouts, allievo del più celebre Rogier Van der Weyden, filologicamente ambientata nella stanza al piano superiore di un edificio, in latino coenaculum (Lc 22, 12; Mc 14, 15; fig. 33).

Realizzato tra 1464 e 1468, per la collegiata di San Pietro a Lovanio (Leuven o Louvain a seconda delle varie lingue), e pagato da una sottoscrizione popolare, oltre alla scena principale mostra sui due sportelli quattro soggetti veterotestamentari che ben si accordano con la cena evangelica, qui rappresentata col piatto vuoto, segno inequivocabile che l’oggetto del sacrificio sarà Cristo: la Raccolta della manna, di cui si è già detto; l’incontro di Abramo e Melchisedec, con quest’ultimo che offre pane e vino al patriarca (Genesi 14, 18); la Celebrazione del Pesach, la già citata Pasqua ebraica che commemora l’uscita del popolo ebraico dall’Egitto (Esodo), con a tavola agnello e pane; Elia nel deserto, che riceve del pane per intervento divino (1 Re 19, 4-8).

Come chiudere questo inevitabilmente parziale excursus se non con l’immagine più celebrata di sempre tra le cene evangeliche? Il Cenacolo del refettorio di Santa Maria delle Grazie a Milano

fu un esperimento mal riuscito di Leonardo che, amando dipingere con lentezza, evitò la tecnica a fresco che lo avrebbe costretto ad essere rapido e lavorò a secco, con l’intonaco asciutto, usando troppo legante. Pertanto, proprio quello che per noi è solo un alimento, l’uovo, fu probabilmente una delle cause maggiori del veloce deperimento del dipinto, che dopo vent’anni aveva perso già gran parte della sua bellezza e che, ancora nel XXI secolo, costringe restauratori e addetti ai lavori a fare miracoli per conservarne almeno qualche traccia ai posteri.

Non sono quasi più visibili i dettagli dell’opera eppure, grazie a lacerti di intonaco e copie successive, sono stati identificati come pesci quelli contenuti nei piatti gli apostoli (https://www.huffingtonpost.it/2016/07/02/ultima-cena-da-vinci-dettaglio_n_10783062.html), in base a una tradizione iconografica di cui si è già detto, e ancora una volta è Giuda il discepolo iconograficamente più interessante:è lui che nella sorpresa causata dalla frase di Gesù, «uno di voi mi tradirà», indietreggia colpevolmente e fa cadere la saliera, come avviene anche in altri dipinti omologhi (altro esempio lombardo è nell’affresco di pochi anni dopo di Altobello Melone nel Duomo di Cremona).

 

Il sale nell’Antico Testamento ha un alto valore simbolico, segno di legame, amicizia e riconciliazione, farlo cadere e sprecarlo è, quindi, l’esatto opposto. Nel Levitico, 2, 13, «E ogni oblazione che offrirai, la condirai col sale, e non lascerai la tua oblazione mancar di sale, segno del patto del tuo Dio. Su tutte le tue offerte offrirai del sale»; oppure in Giobbe 6, 6, «Si può egli mangiar ciò che è scipito e senza sale?». Anche in contesto evangelico, infine, Cristo dice ai discepoli «voi siete il sale della terra…» (Mt 5, 13). Ancora oggi far cadere il sale è scaramanticamente un cattivo presagio, come d’altronde essere in tredici a tavola.

Il Cenacolo di Leonardo, come tutte le opere d’arte, è prima di tutto un documento storico e, in virtù di questa funzione, veicolava significati di un contesto che spetta a noi ricostruire, consapevoli che spesso quei significati si sono mantenuti integri fino ai nostri giorni.

Bibliografia:

Adele Campanelli (a cura di), Alle origini del gusto: il cibo a Pompei e nell’Italia antica, catalogo mostra (Asti, Palazzo Mazzetti, 7 marzo – 5 luglio 2015), Venezia, Marsilio, 2015.

Valeria Cobianchi, Dal banchetto romano al desco barbarico, in «Forma Urbis», giugno 2015 (https://lastoriaviva.it/dal-banchetto-romano-al-desco-barbarico-un-articolo-di-valeria-cobianchi-per-forma-urbis/)

Alessandro Cosma, Sub specie panis: l’Ultima Cena a Venezia nel Cinquecento, in Gabriele Archetti (a cura di), La civiltà del pane – storia, tecniche e simboli dal Mediterraneo all’Atlantico, 3 voll., Spoleto 2015, III, pp. 1357-1382.

Luca Frigerio, Cene ultime. L’Eucaristia nei capolavori dell’arte, Milano 2011.

Chiara Frugoni, Medioevo sul naso. Occhiali, bottoni e altre invenzioni medievali, Roma-Bari 2001.

Silvia Malaguzzi, Arte e Cibo (Art e dossier: Dossier), Firenze 2013.

Silvana Sibille-Sizia, Il significato simbolico dei gamberi sulla tavola dell’Ultima Cena negli affreschi delle chiese campestri delle Alpi e Prealpi orientali fra XIII e XVII secolo, in «Vultus ecclesiae», 8 (2007), pp. 7-39.