Dossier

Nicoletta Bonanome intervista Anna Foa: il cibo nella tradizione ebraica

17/04/19

Anna Foa storica saggista scrittrice docente universitaria

Nicoletta Bonanome socio ordinario della Società Psicoanalitica Italiana e membro dell’International Psychoanalitical Association

 

Nicoletta Bonanome intervista Anna Foa:  il cibo nella tradizione ebraica 

 

Bonanome Anna Foa, ebrea, storica, saggista, scrittrice, insegnante, termine che, nel suo caso, trovo più completo e significativo rispetto alla dizione docente universitaria, ma anche aggiungo con orgoglio cara amica. Ecco cara amica, in questi anni ci hai permesso di addentrarci in secoli di storia degli ebrei in Europa e nel mondo. Ci hai raccontato la storia di questa difficile e drammatica elaborazione della Shoah anche attraverso la vita sociale e culturale degli ebrei dentro e fuori i ghetti. Anche i tuoi ultimi libri Portico d’Ottavia 13, e La famiglia F,  rappresentano in parte questo tuo raccontare dall’interno, anche attraverso la drammatica storia di una casa o di una famiglia. In fondo sono tutti i vari registri di linguaggio che tu hai per mantenere viva la storia e la memoria.

Come tu stessa hai detto in un’intervista ancorarsi ai luoghi, alle immagini può rendere digeribile anche l’indigeribile.

Ecco iniziamo da qui. Primo Levi in I Sommersi e Salvati a proposito della sua prigionia a Auschwitz scrive: “non ho quasi mai avuto tempo da dedicare alla morte, avevo altro a cui pensare…trovare un po’ di pane.” Raffaella Di Castro in un articolo, per me prezioso, “La fame di Primo Levi Memoria della fame – fame di Memoria” in Trauma e Psichè- Le ferite del Novecento nella riflessione artistica e filosofica- dedica un paragrafo a I due camini. I due camini che Primo Levi descrive in Se questo è un uomo. Due camini vicini quello crematorio e quello per i cibi.

Anna Foa:  Camini affiancati, uno della vita e l’altro della morte.

Per i deportati hanno, direi,  la stessa importanza. Il camino da cui viene il cibo che viene loro somministrato, per quanto sia cattivo, per quanto sia insufficiente, è comunque il camino della vita. Senza di quello, semplicemente, si muore. Di qui tutti i discorsi su chi rubava quel poco di cibo che c’era. Tutti i deportati parlano di queste cose, parlano del cibo che avevano come cosa importantissima. Primo Levi vede il camino della preparazione del cibo affiancato al camino della morte, quello in cui vengono bruciati i corpi. I due camini sono speculari, sono i due pilastri del campo, quello della vita e quello della morte, la morte scelta dai persecutori. E poi c’è il lavoro, che come il cibo consente di sopravvivere perché chi non è in grado di lavorare viene ucciso subito.  Ma il cibo non è solo sopravvivenza, è anche resistenza. Non tanto per Levi, per lui la resistenza è soprattutto intellettuale, come nel ricordare e recitare il canto di Ulisse. La resistenza, a differenza del cibo e della morte, appartiene alla sfera della mente.

Ma ad Auschwitz non ci sono solo gli intellettuali. Ci sono le donne, per molte delle quali la ricostruzione mentale della preparazione dei cibi ha la stessa funzione che ha per Levi ricordare Dante. Ci sono rimasti dai campi dei ricettari di donne che scrivono le ricette e cercano di ricordarle, dei ricordi di donne che in mancanza della possibilità di scriverle quelle ricette se le raccontano. Quando riescono a scriverle, non ad Auschwitz certo, dove era troppo pericoloso, ma a Theresienstadt, dove era possibile scrivere, poi le seppelliscono perché chi sopravvivrà possa ritrovarle, come nel ghetto di Varsavia si seppellivano i documenti della vita nel ghetto. La cucina del campo, la cucina del lager è così una cucina immaginaria: le donne ricordano le ricette delle madri, discutono fra loro sugli ingredienti, cercano di riassaporare il profumo dei cibi. Noi abbiamo alcuni di questi libri di cucina. Tutti provenienti dal mondo yiddish. “In memory’s kitchen: A legacy from the Women of Terezin di Cara Desilva, è il libro in cui si racconta questa cucina della memoria, una cucina puramente immaginaria in cui si vedono le donne dire: “no, guarda dovevi mettere un cucchiaio in più di farina, no guarda quello è senza burro, no guarda”… e si intavola la discussione sul cibo, che non è solo speranza di poter mangiare di nuovo, ma è anche una forma culturale, un aggrapparsi alle proprie radici. Qui il cibo è la vita, ti consente di sopravvivere non solo materialmente ma anche spiritualmente. Potremmo dire, leggendo questi ricettari, che assomigliano a dei libri di preghiera.

Bonanome: Accanto al cibo come sopravvivenza, al cibo desiderato, sognato, rubato, indigesto c’è il cibo come merce di scambio: Levi è pronto a scambiare il suo pezzo di pane per delle lezioni di tedesco perché la conoscenza della lingua per lui era molto importante, perché comprendere quello che dicevano i nazisti era vitale.

Anna Foa: Certo, è un altro aspetto della sopravvivenza, in questo caso non è un aspetto intellettuale. L’aspetto intellettuale puro è ricordare i versi di Dante nel canto di Ulisse. Le lezioni di tedesco servono per la sopravvivenza, esattamente come il pane e forse sono ancora più importanti del pane. Puoi toglierti un po’ di pane per poter capire il perpetratore che ti dà degli ordini. Puoi toglierti qualcosa della immediata sopravvivenza per la sopravvivenza leggermente più lontana nel futuro, per darti un pezzetto di futuro, perché fare lezione di tedesco in quelle circostanze vuole dire conquistarsi un pezzetto di futuro.

Invece quando Levi  ricorda Ulisse e cerca di ricostruire nella memoria questo è un dire io sono un essere pensante, sono qualcuno che legge e anche senza libri la mia testa ricorda. Questo è del tutto gratuito, serve alla sopravvivenza spirituale, ma non alla sopravvivenza del corpo, mentre in qualche modo considererei le lezioni di tedesco come un aspetto della resistenza materiale.

Bonanome: Cambiamo luoghi, entriamo nella cucina kosher. “Non mangerete nulla di abominevole” troviamo nel Levitico. Un libro da te consigliato che mi è stato di grande utilità è Regole Alimentari Ebraiche  di Riccardo Di Segni (Carucci,1986).

L’osservanza della kasherut, cioè  delle regole alimentari ebraiche, separando gli ebrei dai non ebrei, ha rappresentato, insieme con l’osservanza delle feste,  e ancora  rappresenta per gli ebrei osservanti,  l’elemento portante di un’identità forte e durevole nel tempo.  Ti chiedo quanta forza di resistenza  il popolo ebraico ha avuto per mantenere l’osservanza della kasherut nonostante il  contatto con varie nazioni, vari popoli, varie cucine. E non è anche questo dei divieti una forma di resistenza volta a preservare, potremmo dire a sacralizzare, l’identità?

Anna Foa:  Certamente. Perché le regole alimentari a questo servono, a distinguere il puro dall’impuro, cioè a distinguere ciò che è separato, come spiega Mary Douglas nel suo saggio Purezza e Pericolo (Il Mulino,1975) dove c’è un capitolo dedicato alle regole alimentari, dall’impuro, cioè da quello che è mescolato; e gli Ebrei fanno molta attenzione nelle loro forme di divieti e di ritualità a non mescolare. Tanto è vero che arrivano al divieto di non mescolare alcune fibre tessili nella tessitura. Ma nonostante tutto questa modalità è cambiata nel tempo, soprattutto con l’Emancipazione ma anche prima, sia pur in maniera meno visibile. Non tanto perché l’influsso delle altre cucine in alcuni momenti abbia davvero cambiato le regole alimentari. Credo che nel ghetto di Roma ci fosse anche un certo influsso della cucina esterna, ma  ancora più forte era l’influsso della cucina ebraica sull’esterno. Però anche nella rielaborazione di piatti non ebraici gli ebrei non avrebbero mai cotto la carne nel burro, ma nell’olio, cosa comune del resto all’intera cucina Mediterranea.  Le ricette venivano, anche quando erano assunte, adattate. Le norme che impediscono la mescolanza della carne e del latte sono state adottate fino ad abbastanza tardi, già in età di integrazione, di assimilazione.

La cosa interessante è ciò che accade nei momenti di pressione o di repressione. Per esempio, nella Spagna del ‘400, l’Inquisizione faceva molta attenzione alle regole alimentari: uno dei segnali che un nuovo cristiano era in realtà un ebreo nascosto era il fatto che osservasse le regole alimentari in tutto o in parte.  Ci sono dei processi molto significativi contro persone accusate di non mangiare maiale: una donna di oltre sessant’anni è messa alla corda perché accusata di astenersi dal porco. Lei dice che non lo fa per motivi religiosi ma perché le è pesante, non lo digerisce, ma alla fine la convincono a confessare che lo fa per osservare la legge di Mosè, (che è il modo in cui sia gli ebrei convertiti che l’Inquisizione definivano le norme ebraiche). Questo lo avevo studiato molti anni fa, e ho scritto un saggio in inglese The Marrano’s Kitchen: external stimuli, internal response, and the formation of the Marranic persona.  C’è una modificazione molto interessante delle norme alimentari che non obbedisce puramente alla pressione esterna. Per esempio è chiaro che digiunare nei giorni di digiuno è difficile se hai dei servitori non ebrei che possono denunciarti all’Inquisizione.  Allora si cambiano le regole,  una modificazione che però ubbidisce anche a delle norme interne, per esempio quella dell’accentuazione del valore simbolico di alcune leggi alimentari. Per cui per esempio non si mangia carne nei giorni di festa. Nell’impossibilità di avere della carne macellata ritualmente, normalmente la mangi comunque (era un mondo molto carnivoro), però nei giorni di festa te ne astieni. E quindi c’è tutta una trasformazione delle regole che fa del sistema marrano di alimentazione un sistema in qualche modo autonomo. Ci sono tutta una serie di cose che non si possono fare soltanto per non incappare nelle reti dell’Inquisizione, cioè in seguito alla pressione esterna,  ma si forma anche un sistema a sé. Anche nel mondo islamico in alcuni momenti ci sono dei tentativi di capire chi si è convertito bene o chi non si è convertito bene. Abbiamo la storia di un convertito i cui vicini andavano a vedere  se metteva o meno la carne a cuocere nel latte. Lui ci metteva un latte vegetale fingendo che fosse latte, in modo tale da dare la prova che lui non osservava le regole alimentari. Siamo nell’area islamica, il Nord Africa del ‘500-‘600 in un momento in cui c’era tensione anche sociale rispetto ai neoconvertiti. E oltre a questo, c’è l’osservanza particolare delle feste, per cui la simbolizzazione non vale sempre ma soprattutto in occasione delle feste, oltre all’insistenza sul porco, che nel sistema normativo ebraico non è particolarmente importante rispetto agli altri animali proibiti, anche se si pensa che lo sia. Cioè che tu mangi la carne consentita ma non uccisa ritualmente o il maiale, è comunque una violazione. Invece nel mondo marrano, e nella reazione inquisitoriale,  c’è un’insistenza particolare sulla carne di maiale. Una sottile antropologa come Claudine Fabre Vassas, nel suo La bête singulière (Gallimard 1994) ci ha spiegato le ragioni antropologiche profonde di quest’enfasi sul maiale.

Bonanome: Esiste una libertà di scelta?

Anna Foa:   Fino all’emancipazione, tutti mangiavano kasher, a meno che non volessero uscire dall’ebraismo- La scelta non era di mangiare kasher ma di violare la kasherut: dovevi scegliere di non mangiare kosher. La famiglia già molto emancipata e integrata  di mio padre, sia pur con un nonno rabbino,  non sceglieva di mangiare kosher, ma di non mangiare kosher in funzione di liberazione dalle norme. La prima volta che hanno mangiato il prosciutto è stato dopo la maggiorità religiosa di mio padre, e mia zia poi è stata male tutta la notte. Però lo hanno fatto e da allora hanno abbondonato le regole alimentari.

 Bonanome: Le regole dietetiche sono fondate sulla contrapposizione puro-impuro, santità contro abominio. Mary Douglas scrive: “la santità è l’attributo della divinità, la sua radice significa “separato””(citPag94). Puoi spiegarlo?

Anna Foa: Be’ è il divieto di sposarsi con un non ebreo o di avere rapporti sessuali con un non ebreo. È il divieto di mescolare alcune fibre tessili. In particolare, è il divieto di mescolare carne e latte. Il divieto è un’estensione della prescrizione biblica “Non cuocerai il capretto nel latte di sua madre”, e si estende a qualsiasi mescolanza di latticini e carne. Gli ortodossi più rigorosi hanno addirittura due cucine separate, una per la carne e l’altra per il latte. Normalmente, è sufficiente tenere strettamente separati non solo gli alimenti, ma anche pentole, piatti, posate. Riccardo Di Segni interpreta questa rigida separazione come dovuta a quella tra natura e cultura: la carne, risultato  dell’uccisione, appartiene  al sistema della cultura,  il latte a quello della natura. Questa spiegazione ci introduce al problema del vegetarianesimo nella Bibbia. L’umanità era inizialmente vegetariana, solo dopo il Diluvio ottiene il permesso di uccidere gli animali e cibarsene. Dopo l’avvento del Messia, però, ritornerà vegetariana. Ma anche nella fase in cui cibarsi di animali è permesso, non si può farlo indiscriminatamente, ma seguendo delle regole. Ed ecco l’uccisione rituale dell’animale.  Come uccidere? Puoi uccidere solo in un modo, non puoi fare quello che ti pare, non puoi prendere la carne della caccia. La caccia è vietata perché è un’uccisione indiscriminata, senza regole. E l’uccisione rituale serve in un certo senso, introducendo norme e limitazioni, a rendere innocente il sistema delle uccisioni. Ma la carne, che ti procacci con la violenza, e il latte, alimento naturale, appartengono a due sistemi assolutamente diversi, separati.