Dossier

Cinema e guerra

21/01/14

Pietro Rizzi

Il cinema di guerra è, in apparenza, il “genere” più semplice, nel quale il medium e il suo contenuto sono “naturalmente” compatibili, essendo il cinema basato sull’azione. Le cose non sono così semplici: il cinema vive creando o ricreando realmente (anche all’epoca del digitale) un mondo nuovo, però verosimile – ma la guerra moderna è una realtà materiale molto complessa. Il cinema ha sempre dovuto “rincorrere”, con qualche affanno, quella realtà per fornire al pubblico una rappresentazione leggibile e coerente della guerra stessa, cosa che nel XX° secolo non si è verificata quasi mai.

Nei suoi centodieci anni di storia, il cinema di guerra è stato certamente la forma di comunicazione pubblica più diffusa e approfondita di un fenomeno, la guerra, antico come il mondo ma non conosciuto socialmente, psicologicamente e politicamente nello stesso modo. Per questo, anche per lo psicoanalista, riflettere sul cinema di guerra può essere d’aiuto per comprendere le basi profonde del fenomeno guerra – fenomeno tuttora in atto – che costituì fin dai suoi inizi, nel 1914, un importante oggetto di analisi per lo stesso Freud, il quale ne fu sicuramente influenzato nel rivedere la sua teoria delle pulsioni. Le pagine che seguono non sono certamente il tentativo di leggere con gli strumenti della psicoanalisi un fatto culturale complesso come il cinema di guerra, si limitano a percorrerne, e a suggerire, alcuni  dei passaggi più significativi sotto il profilo dei “valori” che tutti, scrittori/sceneggiatori, registi, attori e tecnici e perché no, anche produttori, si sforzarono di comunicare (spesso senza rendersene conto) attraverso la loro rappresentazione non della guerra, ma dell’umanità costretta a combattere, coinvolta in eventi di enorme portata e sempre alle prese con il tentativo di restare vivi, non solo fisicamente, ma soprattutto mentalmente.

E’, questo, l’argomento della parte finale di questo scritto, dove si parla del cinema di oggi e dei suoi coraggiosi tentativi di reagire al massiccio “attacco al pensiero” che è in atto ormai da anni nei confronti del pubblico di tutto il mondo, proveniente in gran parte da media ispirati da incontrollabili interessi, commerciali o governativi che siano. Mai come in questo momento la mente individuale è stata soggetta all’influsso dell’immaginario collettivo. La comprensione del ruolo di questi processi nella sofferenza psichica personale è una delle nuove sfide proposte alla psicoanalisi. Il cinema “va alla guerra” insieme con milioni di giovani chiamati alle armi  nel 1914, fatale inizio di quella che sarà “la Grande Guerra” per antonomasia. Nel suo primo ventennio, il cinema aveva prodotto film a sfondo bellico, ma di tipo per lo più documentario – non come oggi li intendiamo – ma era chiara fin dall’inizio la potenzialità del mezzo come strumento di rappresentazione, la sua capacità di attrarre e influenzare grandi masse di persone. Così, in un film spettacolare per quell’epoca, “Nascita di una Nazione”, D. W. Griffith già mostra scene di combattimenti della Guerra Civile Americana.

Lo stesso Griffith, che pure aveva girato “Intolerance”, un film decisamente progressista e a suo modo pacifista, avrebbe varcato poco dopo l’Oceano, in piena  guerra,  per realizzare un film commissionato dal governo britannico con lo scopo di influenzare l’opinione pubblica americana, “Hearts of the World”, “Cuori del mondo”, nel quale una romantica storia d’amore veniva brutalmente troncata dall’invasione tedesca. Vedendo  da vicino la guerra nelle trincee, come facevano, rischiando la vita, altri operatori della macchina da presa, Griffith aveva scoperto quanto poco “cinematografica” fosse la guerra “vera” e aveva optato per il dramma romantico, come del resto facevano in molti, utilizzando comunque i documentari raccolti sul terreno. Si manifestava così la “cifra” conflittuale di tutte le narrative del cinema di guerra: la necessità di far convivere il realismo ineludibile degli eventi bellici e le vicende, vere o immaginarie, della vita di sempre, una vita “normale” che non sarebbe mai più stata veramente tale. Solo che questa tensione, con la guerra in atto, diventa uno strumento di propaganda, un mezzo per tenere in ostaggio le emozioni profonde del pubblico. E’ il peccato originale di questo cinema “da” guerra: la stessa parola “propaganda”, tratta dal lessico ecclesiastico (“propaganda fide”), allude alla diffusione, con qualsiasi mezzo, di credenze inattaccabili. La “fede” è rivolta alla Vittoria finale, ma deve essere raggiunta, e mantenuta, con un attento equilibrio di paure e speranze.

Per nulla ingenui, i semplici film del ’14 – ’18 rivelano un attento mestiere da parte di operatori vissuti in mezzo alla gente e ben decisi a realizzare la propria missione. E’ necessario “sembrare” realisti senza mai esserlo del tutto, anche in quelli che appaiono documenti dal vero, come quelli dedicati alle grandi, sanguinose battaglie che si susseguivano senza sosta. A ben vedere, ciò si ottiene alterando i dati dello spazio e del tempo. Lo spazio è aperto e distante, contrariamente alla realtà claustrofobica delle trincee. Il tempo è invece chiuso nel tempo stesso della rappresentazione, l’evento descritto è sempre “a posteriori” e rinvia ad altri eventi che saranno certamente risolutivi per concludere il conflitto. Il film “da guerra” è sempre, paradossalmente, calato nella storia, sia pure contratta al momento presente.

Il cinema di finzione si svincola in parte da queste costrizioni, perché può giocare sulla contrapposizione tra i due “teatri”: quello delle prime linee e quello del mondo lontano dal fronte, le retro/vie, anche queste tenute però a distanza di sicurezza. Gli assi lungo i quali si situano queste narrative sono vecchi come il mondo: Io/Altro (Noi e Loro, se vogliamo) articolati in  Amico/Nemico. Tuttavia, occorre evitare un rischio: per quanto l’Altro/Nemico sia barbaro, crudele e pericoloso, non deve apparire così terribilmente lontano da rappresentare i’Alieno (come è invece permesso nel descrivere i folli) per non entrare nell’area dell’impensabile, del crollo di tutti i punti di riferimento acquisiti. Questa esperienza è riservata, come sappiamo, ai combattenti della guerra tecnologica totale, dove tutto è metallico, anche la carne conservata in scatola, senza la quale la guerra difensiva e immobile, di massa, forse non sarebbe stata possibile!

Per ottenere questo risultato, si gioca su una duplice idealizzazione: l’Amico è eroico, altruista, devoto alla Nazione e alla Bandiera, tanto quanto l’Altro, il Nemico, è il suo contrario. Come vasi comunicanti, le idealizzazioni non sublimabili si sostengono a vicenda, senza il minimo dubbio che la bilancia porti a effetti perversi: sono quelli che faranno esplodere gli ammutinamenti di Verdun, le fucilazioni di Caporetto e infine la Rivoluzione russa, con la rivelazione che l’Altro, il Nemico, sono i propri comandanti. Il cinema bellico tiene a bada, a suo modo, proprio questa eventualità. Parafrasando Von Clausewitz (“La guerra è il proseguimento della politica con altri mezzi”) si direbbe che il cinema sia stato, allora, il proseguimento della guerra con altri mezzi – una guerra contro la verità, di fatto attuata tramite la distorsione delle coscienze.

In “Psicologia delle masse e analisi dell’Io” Freud evoca non per nulla due fenomenologie psichiche basate sull’idealizzazione,  segnate entrambe dalla transizione della fisiologia nella patologia. Sono l’innamoramento e l’ipnosi, a proposito della quale egli osserva che “l’ipnosi è una formazione collettiva a due” e aggiunge che la versione individuale e quella collettiva del fenomeno ipnotico non sono distinguibili, sono identiche. Singolare generalizzazione, che induce a pensare che Freud avesse visto nei cinque anni della guerra scendere sulle masse dei civili, come dei combattenti, uno spesso strato di trance collettiva, seguito da un brusco risveglio, con il crollo delle strutture istituzionali e degli assetti psichici fino allora consolidati. I legami libidici si rivelano tragicamente impotenti a fronteggiare il panico creato dalla degradazione delle figure ideali, bastioni morali della coesione sociale. E’ evidente che Freud parla di esperienze raccolte dai suoi stessi figli e dai discepoli che avevano servito nei teatri di guerra.

Lo stesso brusco risveglio avviene nel cinema, soprattutto europeo, che perde la propria funzione e giustificazione morale: emerge  la profonda ambiguità insita nella convivenza tra un cinema realistico e “verista” e un cinema propagandistico, manipolato e manipolatore, al servizio degli alti comandi e della politica militarista. Sarà questo un lascito, quasi un marchio, che il cinema di guerra porterà – e porta – con sé fino ai nostri giorni.

Solo Chaplin, in “Charlot soldato” riesce a risolvere la contraddizione: con la sua geniale comicità riesce a difendere la “guerra democratica” e insieme a mostrarne la profonda insensatezza. Il soldatino Charlot nel finale cattura addirittura il Kaiser, ma è tutta l’Autorità militare che va in pezzi, compresa quella della propria parte. “Il grande dittatore” riprenderà lo stesso motivo, ma i tempi sono cambiati in peggio: il piccolo barbiere, sostituendosi a Hynkel/Hitler, è costretto a fare quasi lo stesso discorso bellicoso, sia pure in tinte e toni democratici.

“Charlot soldato” è l’esempio di un cinema che si risveglia dall’ipnosi bellica, ma mostra anche l’energia ingenua con cui il cinema hollywoodiano da allora affronta la guerra, rivolgendosi a giovani che partono con spirito d’avventura e voglia di novità, uno stile che durerà almeno fino ai film sul Vietnam. “La grande parata”, “Ali”, “Gloria” sono i titoli: sarà il cinema europeo, dopo il sonoro, a “farsi carico” del fardello di amarezza e di dolore prodotta da tanti lutti, dal suicidio, di fatto, di una intera civiltà.

Film come “Westfront” (G. Pabst), “Montagne in fiamme”( L. Trenker), “Les croix de bois” (“Le croci di legno”, R. Bernard) e “La grande illusione”, capolavoro di J. Renoir, emergono tra gli altri per la forza pura della rappresentazione ineludibile di una guerra folle, ma non inspiegabile, voluta da classi dirigenti accecate dai propri interessi e da un nazionalismo autodistruttivo. Solo rifugio, e speranza per l’avvenire, è ritrovare la fraternità.

Tale è il tema di base di questi film, riprodotto in uno schema sempre simile: l’inserimento del combattente, giovane recluta o veterano, in un gruppo casuale di compagni diversi che diverranno, sotto il fuoco e/o in presenza del rischio estremo (la morte) i suoi “camerati”, per sempre. Riapparirà, questa fraternità vissuta, ma solo nel perimetro chiuso della disciplina militare?

E’ la domanda che nasce alla fine de “La grande illusione”, film vietato per anni e anni in vari paesi europei, per il suo carattere “disfattista”. Una risposta si trova forse nella prima scena di un film di assoluto rilievo nel cinema di guerra: “All’Ovest niente di nuovo” (1930) di Lewis Milestone, americano, tratto da un romanzo del tedesco E. M. Remarque, storia di un giovane tedesco trascinato nella guerra di trincea e destinato a morire in modo insensato (cerca di afferrare una farfalla nella “terra di nessuno”).

All’inizio del film, in un liceo tedesco, il professore di greco esorta i giovani a partire per il fronte citando i classici. Il modello è quello antichissimo della guerra greca, l’Iliade, Atene, Sparta. Anche Freud, nelle “Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte”, si lascia sfuggire che si considererebbe persino accettabile una guerra tra nazioni civili, purché condotta secondo le regole di un tempo.

Il “modello greco” rispetta la fraternità, anche tra nemici: ciò che la mette in dubbio è l’emergere dell’odio tra uguali, per l’infrangersi di quell’ambivalenza emotiva che la civiltà  (sempre Freud) riesce a tener sotto controllo. E’ l’ira di Achille, che porta i  guerrieri alla rovina. Sarà questo un “topos” del film di guerra americano nella 2° guerra mondiale, guerra di movimento dove il piccolo gruppo diventa essenziale per la sopravvivenza e dove i comandanti si sentono spesso psicologicamente eredi dei capi greci e dei romani, come nel famoso “Il giorno più lungo”.

Ma l’antica Grecia non serve a capire la Grande Guerra tecnologica. Paradossalmente sono gli intellettuali conservatori che vi si adattano meglio, E. Junger, F.T. Marinetti, lo stesso Heidegger: per loro l’esercito/fabbrica permetterà di tenere le masse sotto controllo, come nelle future tre grandi dittature del XX secolo. Invece, quando Einstein e Freud si scambieranno le celebri lettere di “Perché la guerra” apparirà una certa loro inevitabile difficoltà a una lettura retrospettiva della guerra appena trascorsa, nella sua novità: l’essere un gigantesco scontro di macchine, assurdo, inarrestabile, sempre più impersonale. Freud allora amplierà lo sguardo fino al destino della civiltà umana, rielaborando ne “Il disagio della civiltà” il tema della violenza che emerge in “Perché la guerra”.

Dura poco l’ “entre deux guerres”, vent’anni tra il 1919 e il 1939. Con lo scoppio del 2° conflitto mondiale  torna il cinema “da” guerra: i belligeranti rimettono in moto la produzione dei film di propaganda. Ma questa volta, tra tutte, sarà l’industria americana, Hollywood, a lasciare una traccia indelebile nella “forma cinema”. I “War movies” statunitensi sono capaci di fondere il realismo e la “fiction” con l’abilità ereditata dal cinema “civile” degli anni precedenti, in questo favoriti dal fatto che molti registi e attori fanno esperienza diretta dei combattimenti. Sono noti i documentari “Why we fight”, cui contribuiscono tra gli altri registi come Franck Capra, come John Ford nel Pacifico, oppure John Huston in Italia, che si vedrà censurare i suoi filmati per la loro crudezza.

S. Fuller, R. Walsh, H. Hawks, N. Ray (i futuri autori di culto dei “Cahiers du cinéma”) e lo stesso L. Milestone di “All’Ovest niente di nuovo”, e altri ancora, mettono la loro sapienza narrativa al servizio di un cinema che vuole essere epico e “storico” anche quando la guerra è ancora in corso. La vittoria degli Alleati consacra questo cinema come “autentico” cinema “di” guerra”, rendendolo in certo senso indiscutibile.

Il tema di fondo è ancora quello della fraternità di fronte alla paura, all’orrore e alla morte. Non è più la fraternizzazione claustrofobica della Prima guerra mondiale: le nuove battaglie sono in perpetuo movimento, i soldati ora usano macchine più complesse, in prima persona: sono meno operai e più tecnici. Dipendono sempre più gli uni dagli altri, e tutti insieme da altri tecnici alle loro spalle.

Il “topos” è quello del gruppo eterogeneo, dove convivono Wasp, irlandesi, italiani, ebrei, afroamericani, persino nativi-americani (non più “pellerossa”!) guidati dalla figura, destinata a diventare mitica, del sergente che fa da tramite con gli ufficiali superiori.

Il gruppo stesso incarna l’ideologia democratica: l’Altro/Nemico non è più soltanto il “barbaro” della guerra precedente, è qualcosa di più: il Diverso assoluto, che solo per caso può tornare umano: ma deve rifiutare non solo la propria Nazionalità, ma anche la propria disumana ideologia. Questo, in Europa; nel Pacifico, la diversità è percepibile per ragioni “razziali” e i giapponesi spesso passano da “musi gialli” a “scimmie gialle”, diventano animali.

Per motivi analoghi, l’idealizzazione prende strade diverse: i propri comandanti sono psicologicamente più vicini, ma per ciò stesso la loro incompetenza scatena una furia omicida che scivola nel crollo psicotico. Per la prima volta, il cinema di guerra ammette apertamente la presenza della malattia mentale tra i combattenti, come mostrerà il famoso comandante paranoico de “L’ammutinamento del Caine”.

In compenso, per idealizzazione contraria, i capi degli “Altri” diventano dei mostri, rappresentanti del Male Assoluto, e le pareti d’acciaio delle macchine da guerra (carri armati, aerei, sottomarini) sono necessarie anche a isolare psicologicamente da un mondo esterno completamente folle e soprattutto perverso. Il cinema degli anni di guerra e del secondo dopoguerra permette, allora,  di “leggere” i processi mentali collettivi che hanno sostenuto e reso accettabili operazioni belliche (che oggi possono sembrare impensabili) come i bombardamenti a tappeto sulle città e la stessa bomba atomica.

D’altra parte, il cinema hollywoodiano, raggiungendo grandi masse di spettatori, poteva porsi come una sorta di gigantesco esorcismo della psicosi paranoide quotidianamente serpeggiante in patria, acquietando conflitti etnico/sociali potenzialmente pericolosi. Il piccolo gruppo dei combattenti persi in un territorio nemico ostile, con le proprie differenze e i relativi conflitti, raffigurava metaforicamente la più vasta realtà sociale e collettiva: poter presentare la possibile ricomposizione dell’oscillazione tra ragione e follia, significava mostrare la “cura” reale  di una temuta lacerazione sempre in agguato.

Approfondimento – Cinema e guerra