Dossier

Incontro con Stella Bolaffi Benuzzi

21/01/14

Incontro con Stella Bolaffi Benuzzi

Claudio Arnetoli

 

Cosa è la guerra? – chiedo a Stella Bolaffi Benuzzi. Ci pensa e poi mi risponde:  “Rumore”.  Sul mio taccuino di appunti scrivo tra parentesi: (brividi), i brividi  che ho sentito mentre lei pronunciava la parola “rumore”. L’esperienza di una bambina di nove anni che attraversa il tempo e lo spazio e che dalla Val Grande di Lanzo, negli anni di guerra, arriva fino  al caldo ed elegante salottino

dell’Hotel Sitea, nel centro di Torino, 7 novembre 2013, dove stiamo parlando. “Il rumore:  è la prima volta che mi viene in mente  – continua sorpresa Stella –  il rumore, come nei bambini con disturbi già psicotici che trattavo. La penetrazione del suono come persecutore attraverso l’orecchio”.

I primi bombardamenti di Torino, la fuga sulle montagne  dalle persecuzioni razziali ormai in atto, e  “di nuovo il rumore anche lì nelle Valli di Lanzo: i colpi di mortaio contro il villaggio e noi chiusi nella balma, la caverna nella quale ci eravamo nascosti.”  Poi nell’inverno del ’44  scendiamo  agli 800 metri di Chialamberto  – il rischio di essere scoperti là è maggiore, ma con la febbre e le tonsille che scoppiano di pus, il medico venuto nella neve dice che lassù non si può restare. “La necessità di mescolarci – io e mio fratello Alberto, a nove e a sette anni – agli altri bimbi per meglio nasconderci, e la paura per il rumore delle raffiche tra partigiani e nazi-fascisti nella boscaglia, con noi bambini pastori a ripararci sotto le rocce e poi a ricercare le capre fuggite e sparpagliate per i ripidi pendii”. La mia intervista a Stella sul tema della guerra e psicoanalisi, avviene in occasione della presentazione del suo ’La Balma delle Streghe’ – Ed. Giuntina, Firenze, 2013 – presso il Circolo dei Lettori di Torino. “L’eredità della mia infanzia tra leggi razziali e lotta partigiana”,  recita il sottotitolo di un libro di memorie emotive, attraversato da un profondo respiro analitico, percepibile nella struttura stessa del racconto nel quale i ricordi, non solo di guerra,  si intrecciano al resoconto di alcune sedute  della sua analisi personale  che Stella definisce un’esperienza di “rigenesis”.

Affrontiamo il tema della sua esperienza infantile della guerra e di come questa  l’abbia accompagnata durante tutta la vita, nell’analisi personale e pure nel lavoro di analista. Una compagnia costante, con i suoi aspetti traumatici,  le aree dissociate e rimosse che riemergono talora anche nel controtransfert in analisi, come ben illustrato in un suo lavoro presentato ai Seminari Multipli di Bologna, nell’ambito di un incontro sui  “Traumi collettivi e sulle tragedie storiche”  coordinato da Valeria Egidi Morpurgo (aprile  2013):  “Avevo in analisi una psichiatra che mi raccontava da un po’ di sedute, con angoscia e preoccupazione, di un suo paziente che aveva sequestrato la moglie e la bambina in casa. Lui girava armato, ormai la luce era stata tagliata e lei, la psichiatra, non sapeva cosa fare. Io interpretavo il suo mondo fantasmatico, la  sua parte infantile reclusa dentro quella casa. Era vero, lei parlava della sua parte bambina chiusa dentro, ma anche io avevo la mia bambina ancora reclusa al buio e al freddo nella stanza dove per dieci giorni ci eravamo nascosti sfuggendo alle SS che ci cercavano per arrestarci. Un controtransfert collusivo concordante che bloccava anche me, come ho capito in seguito. Finché un giorno le ho detto: “Perché non aiuta la sua parte rinchiusa ma anche quella di bambina della realtà facendo una denuncia al Tribunale dei Minorenni? La mia paziente è tornata la seduta successiva piangendo, sbloccata,  raccontandomi di  aver fatto salvare madre e bambina ormai allo stremo dopo l’ordine di irruzione in quella casa del giudice minorile”.

Questi aspetti traumatici emergono nei racconti di Stella mentre parla e io l’ascolto, la mia comprensione emotiva è sempre necessariamente parziale e un poco in ritardo: le leggi razziali, la guerra, la mamma che muore di tisi, la fuga da Torino, il papà Giulio che ‘scompare’ – il segreto era vitale – per combattere in Val di Susa come comandante del gruppo partigiano Stellina, padre che  rivedrà solo dopo la Liberazione. Ma nella sua voce viva e tranquilla, nelle sue parole, nei suoi occhi azzurri, vedo, sento e tocco il lavoro della riparazione. Oltre che dalla ferita dei  traumi della guerra sono stupito e commosso infatti dal mistero della riparazione intrecciata e seguita al processo del lutto. Un lavoro di riparazione che  oggi,  grazie a Stella, capisco essere chiaramente un aspetto fondamentale, individuale e collettivo, collegato alla esperienza distruttiva della guerra, ma anche  alla possibilità di una reale pacificazione e ricostruzione.

La dedica del libro: “La mia riconoscenza a zia Gabriella, a Rita e ai Giusti delle Valli di Lanzo e di Susa”, cioè a chi le è stata vicino, a chi  l’ha protetta e amata con perseveranza, in condizioni impossibili e a chi non li ha denunciati, nonostante le 5000 lire di ricompensa, e ha così permesso e favorito che l’oggetto interno buono non venisse frantumato. Nel libro di Stella e nelle sue parole sulla guerra si respira questo grande bisogno di esprimere gratitudine, di testimoniare il lavoro riparativo e il posto che in esso ha avuto la sua esperienza analitica e lo stesso lavoro di analista: nel collegare, integrare, rivivere in modo catartico,  e ricostruire e rinsaldare – utilizzo qui volentieri il linguaggio di Martin Buber –  la possibilità di un rapporto Io-Tu e di una rinnovata fiducia nel patto interumano. E ci si trova poi a parlare, a seguito di una mia domanda specifica, di quanto e come, oltre all’esperienza traumatica di questi avvenimenti, abbia influito sul suo lavoro di analista anche la forza di aver resistito, di avercela fatta, di esserne uscita:

“La forza dell’analista come persona si trasmette al paziente che la percepisce non tramite parole. Penso alle mie scarpe, sempre solide, comode e basse, come queste che indosso, fatte per camminare. Insomma scarpe da montagna. Una mia paziente depressa me le faceva notare e da me traeva linfa”. E’ il camminare di Stella sin da bambina, dopo aver saputo che rivedrà finalmente suo padre, quando alla Liberazione scopre che era un  partigiano che aveva  dato il suo nome alla formazione di Giustizia e Libertà che comandava: “Stellina…ma è il mio nome! …  Proprio così – dice la zia – prima di rimettersi a camminare…e noi dietro a lei, magri come stecchi, ma agili e scattanti malgrado il peso dei nostri zaini. Mentre cammino cercando di non inciampare nei sassi più grossi, penso: non ci hanno ammazzati, nostro padre è un capo partigiano e dopo un anno e mezzo infine lo rivedremo e la sua banda di ribelli si chiama Stellina.” “Ottimismo e narcisismo!” Conclude sorridendo l’intervistata.

Chiedo a Stella Bolaffi cosa pensi delle guerre contemporanee, dell’uso di droni, di tecnologie sofisticate che rendono il nemico invisibile. Mi risponde che non vede una differenza sostanziale tra le guerre del novecento e quelle attuali, tra i gas di Ypres della Grande Guerra, i bombardamenti a tappeto, le V2 tedesche e gli insulti dei nuovi armamenti. La terribile lacerazione che la guerra attua, con tutti i suoi mezzi di distruzione fisica e psichica, richiede in ogni caso difficili ricomposizioni. Questo è il messaggio di Stella, che chiude il suo incontro con me  con un abbraccio e chiude  il suo libro sottolineando la possibilità privilegiata del setting analitico di favorire sintesi, riunificazioni e ricomposizioni delle terribili lacerazioni conflittuali che la vita e la guerra producono.

Gennaio 2014