Dossier

La guerra: il modesto contributo della psicoanalisi

21/01/14

Stefania Nicasi

Premessa: “modesto”?

 

Nell’occuparsi della guerra, un fenomeno imponente, complesso, variegato e mutevole nei tempi, nei modi e nei luoghi, è più che mai necessario mantenere un atteggiamento esplorativo e dubitativo. E’ necessario guardarsi dalla tentazione di prospettare teorie generali che confrontandosi con grandi interrogativi di fondo abbiano l’ambizione di fornire risposte esaustive. I grandi interrogativi – perché la guerra, perché la guerra nucleare, perché il male, perché il terrorismo – lungi dall’ essere elusi, dovrebbero essere lasciati aperti, come sfide ultime alla conoscenza, mentre la ricerca si può utilmente dedicare al come e ai perché relativi a questioni circoscritte e circostanziate che riconducano all’esperienza dell’individuo o al funzionamento dei gruppi, ambiti nei quali abbiamo acquisito competenza e voce in capitolo. Un altro invito alla modestia viene dalla constatazione che, sul piano dei “contributi”, la guerra, è doloroso ammetterlo, ne ha forniti moltissimi, da sempre e in particolare nel Novecento, alla scienza, alla medicina, alla società, alla cultura e persino alla pace. Infine, la psicoanalisi stessa è fin da subito alle prese con violenti conflitti intestini, lacerazioni e scissioni. Siamo una comunità litigiosa: un fatto che non deporrebbe a nostro favore se avessimo la pretesa di suggerire formule risolutive per la pace. Meglio dire che dalla nostra stessa storia abbiamo imparato qualche cosa sulla gestione dei conflitti senza spargimento di sangue.

La storia del rapporto fra guerra e psicoanalisi può essere raccontata in molti modi e può prendere molteplici direzioni. Esplorando in piccola parte questo vastissimo continente, mi sono fatta alcune idee generali che provo a riassumere: 1) gli apporti e le suggestioni sono stati e sono reciproci; 2) la psicoanalisi ha contribuito a orientare la ricerca degli storici verso lo studio dell’esperienza umana della guerra e delle relative trasformazioni mentali e culturali; 3) la psicoanalisi può essere letta come una risposta alla “catastrofe del soggetto” legata alla modernità e alla guerra come portato della modernità; 4) la psicoanalisi, come teoria psicodinamica centrata sul conflitto, è più attrezzata di altre teorie psicologiche per affrontare questioni relative alla gestione dell’aggressività negli individui e nei gruppi;  5) medici e psicologi hanno a disposizione un materiale di studio straordinariamente vasto relativo all’impatto della guerra sui soldati e sui civili: il trauma, le ferite psichiche, una generica sintomatologia nervosa, le nevrosi di guerra, i disturbi post traumatici da stress (Gibelli, 2006, 55-56); 6) gli psicoanalisti hanno fornito e possono fornire limitati ma molto preziosi contributi nei contesti traumatici in generale e nei contesti di guerra in particolare. Ognuno di questi punti richiederebbe una trattazione approfondita. Nell’economia di quello che vorrei dire, li dispongo come fondali di un palcoscenico sul quale si avvicenderanno gruppi di considerazioni come atti di una stessa rappresentazione. Per circoscrivere il discorso, mi limiterò a saggiare la tenuta di queste idee esplorando e usando quale esempio il rapporto fra psicoanalisi e prima guerra mondiale. E’ molto utile tenere presente che ogni guerra ha una sua fisionomia e presenta problemi specifici: è la prima cosa che ho imparato leggendo libri sull’argomento.

“Mai più tanta innocenza”

Con la Grande Guerra l’Europa, è stato detto, ha perduto la sua innocenza. Su questo punto non si insisterà mai abbastanza. Paul Fussel, che si è concentrato sulla Gran Bretagna, ha ricostruito il clima di euforia e di ingenua fiducia nella tecnica che contrassegnò l’entrata in guerra nel 1914. In Europa non vi era stata nessuna guerra tra le grandi potenze dal 1871: “Nessun uomo nel fiore degli anni sapeva che cosa fosse la guerra. Tutti immaginavamo che sarebbe consistita di grandi marce e grandi battaglie e che si sarebbe decisa in fretta”, riferisce un testimone di quel tempo (A.J.P. Taylor, cit. Fussel, 26). In quel mondo, ciascuno credeva di sapere che cosa fossero la Gloria, l’Onore, il Coraggio. Non molti anni dopo, Hemingway decretò che queste parole suonavano quasi oscene di fronte ai nomi dei villaggi, delle strade, dei fiumi e dei reggimenti insanguinati. La gioventù inglese sembrava affidarsi allo spirito sportivo concependo la guerra come una gara accanita ma divertente: “Tutto è tremendamente buffo” scrive ancora nelle lettere ai suoi il poeta Robert Brooke nell’autunno 1914. Quella gioventù corse ad arruolarsi nel timore di non fare in tempo a misurarsi in battaglia: “Dal mondo di quell’estate 1914 uscì a passo di marcia una generazione senza uguali: credeva nel progresso e nell’arte e non dubitava affatto della positività della tecnologia. La parola macchina (machine) non era ancora invariabilmente accostata alla parola mitragliatrice (gun)” (Fussel, 31). Come ci figuravamo la guerra? Scrive Freud in Considerazioni attuali sulla guerra e la morte: “Come un’ occasione per dimostrare i progressi compiuti dai sentimenti della solidarietà umana” come “una contesa cavalleresca”. Ma la guerra è scoppiata, prosegue, rivelandosi spietata come tutte le guerre che la hanno preceduta e ancora più sanguinosa a causa “dei tremendi perfezionamenti portati alle armi di difesa e di offesa” (Freud, 1915, 126): gli  pare che “mai un evento storico abbia distrutto in tal misura il così prezioso patrimonio comune dell’umanità” (Freud, 1915, 123).

Fu una guerra “mondiale” non tanto perché  superò i confini dell’Europa ma quanto perché segnò per sempre la fine di un mondo. Si potrebbe obiettare che ogni generazione vive la perdita del mondo dei padri e di quello della propria giovinezza, sperimenta una crisi nella quale il presente sembra estraneo e il passato irrimediabilmente perduto, e tutto questo sembra accadere per la prima volta nella storia. Tuttavia, per la generazione del 1914, decimata dalla guerra, il fenomeno assunse proporzioni imponenti. Gli storici sono concordi nell’individuare in quella data la cesura fra due epoche, il definitivo ingresso nella modernità e nella società di massa, l’esperienza dello svolgimento della guerra come portato della modernità e della modernità come portatrice insieme di progresso e distruttività: “La Grande Guerra segna la violenta e generale irruzione del moderno nella realtà e ancor più profondamente nella mente degli uomini” (Gibelli, 1991, 43). Dopo il 1914, nessuno può guardare al progresso della scienza e della tecnica senza considerarne il prezzo umano e senza vedere il pericolo micidiale che vi è racchiuso. Freud lo vide con chiarezza: “Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo. Lo sanno, donde buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione” (Freud, 1926, 620). Scrive Robert West ne “Il ritorno del soldato”: “Perché la vita moderna aveva portato orrori tali che al confronto le vecchie tragedie sembravano spettacoli da nursery? Forse la avventurosa umanità ha cambiato troppo radicalmente quel mondo esterno dal quale trae origine la vita” (cit. Gibelli, 1991, 164).

Trentun anni di guerra mondiale – dal 28 luglio 1914 al 14 agosto 1945 – ai quali hanno fatto seguito anni segnati dalla minaccia nucleare e da conflitti planetari: “senza la guerra non si capisce il Secolo breve” sostiene Hobsbawm. Anche senza la psicoanalisi non si capisce il Secolo breve. In questo Secolo, la perdita dell’innocenza è acuita dalla psicoanalisi  che si apre con la scoperta dell’inconscio, della sessualità infantile e del sadismo, prosegue con la constatazione che gli  “impulsi primitivi, selvaggi e malvagi dell’umanità non sono affatto scomparsi ma continuano a vivere rimossi nell’inconscio di ognuno di noi” (Freud, 1915, 121) e culmina nella tragica visione della lotta fra Eros e Thanatos dove l’immagine del conflitto, al centro della psicoanalisi fin dalla sua nascita, si approfondisce e si esaspera. Uno sviluppo che si capisce meglio se lo si colloca sullo sfondo della prima guerra. Alcune parole e metafore chiave della psicoanalisi hanno sapore strategico: resistenza, punti di fissazione, meccanismi di difesa, attacco, contro-transfert, contro-identificazione, investimento. Besetzung, in italiano reso con “investimento”, ha un chiarissimo connotato militare. Besetzung è propriamente occupazione. La libido si impossessa di in oggetto come un esercito occupa un territorio straniero. Un’altra parola chiave è “resistenza” (Widerstand): il paziente resiste alla forza di occupazione benevola della parola dell’analista (Giovanni Foresti, comunicazione personale). Si potrebbe leggere Freud alla luce di un rapporto prima con l’immagine filosofica e romantica della guerra, poi con l’esperienza reale della guerra. Sono del 1915 le “Considerazioni attuali sulla guerra e la morte”; “Caducità”; “Lutto e melanconia”: la guerra, col suo alito mortifero, sembra soffiare dentro la psicoanalisi e sospingere Freud “al di là”, verso un modello dell’apparato psichico basato sul principio della sofferenza piuttosto che sul principio del piacere (Giuseppe Squitieri, comunicazione personale).

La guerra dei nervi

La guerra provocò un’ondata di sintomatologia nervosa senza precedenti. Lo storico Eric Leed ha studiato a fondo questo fenomeno collegandolo non solo e non tanto alla guerra in generale quanto alla guerra industrializzata in particolare. La metafora dell’officina impiegata da Antonio Gibelli (Gibelli, 1991) rimanda sia alla guerra come alienante lavoro di massa – “il soldato senza qualità” di Padre Gemelli; il soldato “semplice ingranaggio della gigantesca macchina bellica” come lo definisce Freud (Freud, 1915, 123) –  sia all’impiego massiccio della tecnologia negli armamenti.

Gli psichiatri nelle retrovie e le truppe al fronte colsero prontamente il rapporto fra le caratteristiche industriali della guerra e l’incidenza della nevrosi: non era tanto il carattere dei soldati a determinare l’insorgenza della nevrosi, quanto il carattere della guerra (Leed, 239). Nel 1916 un neuropsichiatria inglese sentenziò che dal punto di vista medico quella in corso era “una guerra dei nervi” (Leed, 218). A renderla tale fu soprattutto il dominio dei materiali sulle possibilità di movimento degli uomini. L’impiego della tecnologia ebbe la paradossale, inaspettata conseguenza di rallentare fino alla paralisi lo svolgimento delle operazioni belliche. Bloccati nelle trincee, impantanati nella terra, in uno scenario da incubo, i fanti attendevano impotenti la morte oppure, costretti dai superiori, le andavano incontro lanciandosi in vani assalti verso le postazioni nemiche.

La guerra si trasforma in una entità terza: non è più il nemico a uccidere, ma è la guerra che distrugge tutto, come un mostro sorto dalla tecnologia o come un’immane catastrofe naturale. L’intensità delle distruzioni, il frastuono incessante delle mitragliatrici, “i rombi, gli scoppi, gli incendi del fuoco tambureggiante, le emissioni di nubi di gas, di liquidi infiammati” sono tali che “il cielo e la terra sono trasformati in una bolgia infuocata” (Gibelli,  1991, 165). “Poveri noi è proprio un finimondo” scrive nel diario un contadino ligure (Gibelli,166). A proposito della Materialkrieg, Junger scrisse “un’età che vide il proprio supremo ideale nella materia subisce un tremendo castigo dalla materia stessa” (cit. in Leed, 129).

Ma è soprattutto il carattere della guerra, che costringe all’immobilità nell’attesa angosciante e impotente della morte, a costituire la variabile più significativa nell’incidenza della nevrosi. Incidenza che si riduce drasticamente quando, con le offensive tedesche del 1918, la guerra torna a essere di movimento (Leed, 239).

“Voi non potete parlare – urlò il Fenoglio – La sua voce investiva come un vento i vecchi smorti tendaggi. – Voi non avete visto il sangue e la merda e il fango” (Fenoglio, 153). L’immagine positivistica che vede nella guerra la riemersione di antichi istinti animali deve fare i conti con l’esperienza reale della trincea nella quale gli uomini si sentono e si descrivono come talpe, come topi, come scarafaggi, come cani, come maiali.

Invece che del nostro passato animale, meglio faremmo a parlare del nostro presente animale.

In questo “nuovo paesaggio mentale” si iscrivono disturbi transitori e alterazioni durature dell’equilibrio psichico e del sentimento di identità che gli alienisti dell’epoca non mancano di registrare, come dimostra una florida letteratura: smarrimento, spaesamento, “delirio sensoriale di guerra”, “tormenta allucinatoria”, trasformazione della personalità del soldato (Gemelli, cit. in Gibelli, 1991, 77), choc da esplosione (shell schocks) ma soprattutto il grande capitolo delle nevrosi di guerra.

Cosa pensa di tutto questo la nascente psicoanalisi?

Con il titolo “Nevrosi di guerra e traumi psichici” usciva nel 1918 un libro di Ernst Simmel. Ispirandosi a principi psicodinamici, l’autore proponeva un trattamento del disturbo basato sul metodo catartico. Da questo libro, e dai contributi di Abraham e Ferenczi sullo stesso tema, scaturì il V Congresso internazionale di psicoanalisi che si tenne a Budapest alla eccezionale presenza di rappresentanti dei governi tedesco e austriaco. Le relazioni del congresso, insieme a una relazione che Jones aveva tenuto a Londra nell’aprile 1918, furono riunite in un libro pubblicato nel 1919 con il titolo “Psicoanalisi e nevrosi di guerra”. Scrivendo l’Introduzione, Freud (1919) notò come la guerra in corso avesse contribuito alla diffusione delle teorie psicoanalitiche presso i medici che si erano trovati a occuparsi dei disturbi psichici causati dalla guerra e sostenne l’ipotesi che all’origine della nevrosi stesse un conflitto fra il vecchio Io pacifico e il nuovo Io bellicoso del soldato. Inoltre, osservò che nelle nevrosi traumatiche e di guerra l’Io si difende da “un pericolo che lo minaccia dall’esterno”.

La guerra costringeva Freud a riconsiderare l’elemento ambientale, il peso della realtà esterna nell’origine della sofferenza psichica. Lo costringeva a ridisegnare il profilo del trauma spostando l’accento sul mondo esterno dopo che faticosamente lo aveva condotto al mondo interno.

Se in “Al di là del principio di piacere” leggiamo la pagina dedicata al trauma avvertiamo subito questo deciso spostamento di accento: “Chiamiamo ‘traumatici’ quegli eccitamenti che provengono dall’esterno e sono abbastanza forti da spezzare lo scudo protettivo. Penso che il concetto di trauma implichi questa idea di una breccia inferta nella barriera protettiva che di norma respinge efficacemente gli stimoli dannosi” (Freud, 1920a, 215). Non solo, ma non possiamo non restare impressionati dalla potente immaginazione che trascina il linguaggio nel teatro di una battaglia: “Ora, come potrà reagire la psiche a questa irruzione? Da tutte le parti viene raccolta energia di investimento, affinché la zona che circonda il punto di irruzione sia provvista di investimenti energetici sufficientemente elevati. Viene allestito un potente ‘controinvestimento’ a beneficio del quale si impoveriscono tutti gli altri sistemi psichici” (Freud, 1920a, 216). La sorpresa che genera spavento, la scossa che genera eccitazione, l’eccitazione che dilaga, lo svuotamento che ne consegue: forse è proprio attraverso l’uso del linguaggio che Freud riesce a evocare il versante adrenalinico del trauma.

Al di là: le nevrosi traumatiche

Il peso della guerra è evidente fin dalle prime pagine di “Al di là del principio di piacere” che si affaccia sull’ “oscuro e tetro argomento della nevrosi traumatica” sollevato dalla “terribile guerra che si è appena conclusa” (Freud, 1920a, 198-200).

La nevrosi traumatica resta come una spina nel fianco o come una mina inesplosa nella teoria psicoanalitica delle nevrosi perché non si risolve attraverso un’operazione che la riconduca al passato infantile. Ancora nel “Compendio di psicoanalisi” (1938) Freud ne parla come di un’eccezione dal momento che le sue relazioni con la condizione infantile “si sono finora sottratte alla ricerca”. Anche i sogni che si producono nella nevrosi traumatica, e in generale i sogni che riportano continuamente il sognatore sulla scena dell’incidente, costituiscono un caso a parte, un’eccezione nella teoria che interpreta il sogno come appagamento di un desiderio infantile rimosso.

Sulla tendenza alla ripetizione di quello che fa soffrire Freud si è interrogato a lungo. Sappiamo come l’ipotesi dell’istinto di morte sia nata in questo terreno. La domanda è tuttora aperta mentre Freud è rimasto incerto: ripetiamo per il bisogno di padroneggiare attivamente quello che abbiamo subito passivamente, ripetiamo perché sperimentiamo un segreto piacere nella sofferenza, perché ci siamo per così dire “affezionati”, ripetiamo perché spinti e come intossicati da un oscuro desiderio di morte? Ripetiamo, si chiederanno autori successivi, nella speranza di trovare un esito differente? Come il famoso rocchetto, il tema della ripetizione viene instancabilmente lanciato, recuperato e rilanciato nella storia del pensiero psicoanalitico.

Non è solo questa oscurità nella comprensione che rende, come scrive Freud, “oscuro e tetro” l’argomento della nevrosi traumatica. Nel 1920 egli sembra alludere anche a un’altra e più grave oscurità.

Il trattamento elettrico e gli psicoanalisti: esempio di un prezioso contributo

La nevrosi di guerra e il suo trattamento solleva una serie interessante e cruciale di questioni scientifiche, politiche, sociali, morali e pratiche che qui posso appena accennare.

Per esempio, Eric Leed nota che possiamo considerare un passo in avanti il riconoscimento ufficiale di un quadro diagnosticato come “nevrosi di guerra”. La diagnosi medica poneva i soggetti colpiti al riparo da provvedimenti disciplinari che altrimenti avrebbero perseguito il rifiuto di continuare a combattere, rifiuto che nella nevrosi si esprimeva attraverso un corteo di sintomi invalidanti. Tuttavia essa agiva come potente silenziatore dei moventi politici o morali che in certi casi supportavano il comportamento di chi voleva sottrarsi alla guerra. Da questo punto di vista, il carattere ambiguo della categoria la rendeva funzionale a non mettere in discussione la legittimità della guerra (Leed 223). Problemi di coscienza venivano ridefiniti come problemi di salute quando invece “dietro il trattamento della vittima psichica di guerra stava il problema della sopportabilità della guerra stessa” (Leed, 237). E in ogni caso, non era contrario allo spirito medico curare individui allo scopo di mandarli di nuovo incontro alla morte?

L’enorme diffusione della nevrosi fra i soldati rese necessario mettere a punto trattamenti che li rendessero in grado di tornare rapidamente a combattere. Fu presto chiaro ai medici che la base psicologica era “l’elaborazione di variazioni infinite su di un unico tema centrale: fuggire da una situazione reale intollerabile a una situazione resa tollerabile dalla nevrosi” (T. V. Salmon, 1919, in Leed, 221). Furono soprattutto i sostenitori del punto di vista morale a mettere a punto una serie di trattamenti basati sullo stesso principio: azzerare i vantaggi della malattia rendendo angoscianti le conseguenze del sintomo, persuadere il paziente ad abbandonare il sintomo per tornare al proprio compito di uomo e di soldato. I metodi della terapia disciplinare erano gli stessi in tutti gli eserciti: la maniere forte e il torpillage in Francia; la quick cure e la queen square in Gran Bretagna; la tecnica Kaufmann in Austria e la tecnica Uberrumplung (cogliere di sorpresa) in Germania. Utilizzando principi derivati dall’addestramento animale, le tecniche consistevano nel somministrare dolore, in genere tramite apparecchi elettrici; in comandi urlati, isolamento, restrizioni alimentari e promesse di alleviamento delle punizioni in cambio della recessione dal sintomo. Il metodo Kaufmann non differiva molto dalla “cura rapida” praticata da inglesi e francesi. Combinava comandi urlati con scariche elettriche di potenza crescente. Vantava alte percentuali di guarigioni anche se alcuni critici tedeschi richiamavano l’attenzione sulla frequenza delle ricadute, sul numero di suicidi dopo la cura e sulla morte di due pazienti nel corso del trattamento.

Contro queste aberrazioni si levò la voce degli analisti che contestarono non tanto l’efficacia della cura quanto la disumanità dei suoi metodi. Ernst Simmel scrisse che si faceva “del trattamento una tortura allo scopo di permettere al paziente di trovare scampo nella salute” (in Leed, 233). Alla terapia disciplinare Simmel contrapponeva il metodo analitico che combinava psicoterapia e ipnosi assicurando buoni risultati seppure in tempi più lunghi. I delegati dei Comandi dell’esercito tedesco, austriaco e ungherese che presero parte al V Congresso di Psicoanalisi di Budapest, nel settembre 1918, presero l’impegno di istituire alcuni centri per il trattamento puramente psicologico delle nevrosi di guerra. Di lì a poco la guerra si concluse e l’iniziativa rimase sulla carta, ma la ferma condanna degli analisti, unitamente a una certa diffusione del trattamento da loro proposto, contribuì a mitigare gli eccessi del trattamento elettrico e soprattutto sensibilizzò le coscienze al problema. Su questi temi, è indispensabile la lettura del libro di Rita Corsa, di recente pubblicazione, dedicato a Edoardo Weiss. Nel presente dossier, si veda il contributo della stessa autrice.

Nel 1920 le autorità militari aprirono un’inchiesta  sul trattamento elettrico, giudicato troppo crudele, e sugli psichiatri che lo avevano praticato. Proprio a Freud fu richiesto un parere. Ne diede lettura alla Commissione il 15 ottobre 1919. Il parere, conservato nell’Archivio di Stato di Vienna, è pubblicato nelle Opere. Contiene una lucida analisi: “La causa immediata di tutte le nevrosi di guerra era un’inclinazione inconscia del soldato a sottrarsi alle richieste, pericolosissime o rivoltanti per i suoi sentimenti, postegli dal servizio militare attivo. La paura di perdere la vita, l’opposizione all’ordine di uccidere altra gente, la ribellione contro i superiori che reprimevano indiscriminatamente la loro personalità: queste erano le fonti affettive più importanti da cui traeva alimento la tendenza dei soldati a sfuggire alla guerra” (Freud, 1920b, 9, 173). Esprime una dura condanna del metodo elettrico. Ricorda la proposta del metodo analitico. Si chiude su una riflessione etica: ogni procedimento terapeutico ha, in questo campo, una macchia originale in quanto pone la medicina al servizio di una causa estranea alla sua natura. E con una radicale inversione sul rapporto fra salute e malattia: “un uomo sano” saldamente vincolato ai motivi affettivi di cui sopra, non potrebbe che “disertare o darsi ammalato” (Freud 1920b, 9,172)

La psicoanalisi che tende la mano

Warum Krieg? In un breve articolo sul carteggio Freud –  Einstein (integralmente riportato nel presente Dossier, in “Approfondimenti”) Parthenope Bion mette a confronto l’effetto “Turris Eburnea” che promana della lettera di Freud con lo stile “infinitamente più personale” dei due scritti sulla guerra risalenti alla prima guerra mondiale dove Freud, esplorando le proprie reazioni alla guerra in atto, è presente “in prima persona con le proprie angosce e le proprie curiosità”. Egli segue una procedura “molto più simile a quella della clinica psicoanalitica e molto lontana dall’applicazione ‘a freddo’ delle teorie a un gruppo teorico” (Bion P., 1990, 63). In questi scritti si avverte, nota Parthenope Bion, la presenza dello psicoanalista al lavoro rispetto al gruppo del quale si sente parte: “Presi nel vortice di questo tempo di guerra, privi di informazioni obiettive…” inizia così “Considerazioni attuali sulla guerra e la morte” (Freud, 1915, 8, 122).

Nello stesso scritto Freud dichiara che “sarebbe molto interessante studiare le modificazioni psicologiche dei combattenti, ma io so troppo poco in proposito” (Freud, 1915, 8, 139).

Chi sa qualcosa in proposito è Sandor Ferenczi che nel reparto psichiatrico di un ospedale di Budapest ha modo di studiare le nevrosi di guerra. Fedele alla sua vocazione giovanile ( i primi lavori nascono dall’impegno di psichiatra con i diseredati) Ferenczi avvicina i soldati ammalati e propone una interpretazione del disturbo superando le equazioni dirette, biunivoche, fra il sintomo e la sua causa che derivavano da una frettolosa applicazione dei principi psicodinamici. Si riteneva per esempio che la cecità isterica derivasse dall’aver visto spettacoli orribili, la sordità dall’aver udito lamenti di feriti non soccorribili, le contrazioni faciali o addominali dall’aver infilzato con la baionetta il viso o l’addome di un nemico. In questo modo si trascurava il peso della quotidianità della situazione bellica.

Ferenczi insiste che raramente il sintomo può essere ricondotto a una sola istanza traumatica ma è piuttosto la rappresentazione di un conflitto permanente legato alle condizioni ambientali, di vita, del soldato offeso. Si sviluppa nel contesto di guerra l’ipotesi ferencziana del trauma cumulativo. Lo strascicare dei piedi, sintomo diffuso nelle truppe, invece di essere ricondotto all’essere rimasti impantanati nel fango, viene inteso come la rappresentazione dello stato psichico del combattente, costretto ad avanzare per senso del dovere o per timore delle punizioni ma inchiodato al suolo dalla paura della morte (Leed, 236).

E’ possibile rintracciare, già in Freud e nella prima generazione di analisti, due atteggiamenti di fondo verso la dimensione sociale in generale e la guerra in particolare: una tendenza speculativa, interessata ai grandi “perché”, e una tendenza clinica, interessata ai “come”, alle storie, alle esperienze e ai problemi delle persone. E’ vero che non può darsi l’una senza l’altra, ma è anche vero che esiste il rischio di una forbice e di una fuga nelle astrazioni rispetto al coinvolgimento e al concreto impegno umano e terapeutico.

In un breve intervento introduttivo al convegno “Psicoanalisi e guerra. Il lavoro degli psicoanalisti in situazioni di conflitto” curato a Pisa da Teresa Lorito nel 2005, mi ero appunto soffermata su quella psicoanalisi impegnata a diversi livelli nelle situazioni traumatiche collettive e nei contesti di guerra. Questa psicoanalisi “calda”, vicina all’esperienza umana, una psicoanalisi che tende la mano insieme all’orecchio, muove proprio dall’impatto con la prima guerra mondiale e prosegue attraverso la seconda guerra, la Shoa e i molti conflitti, guerre civili, pulizie etniche e dittature infami che continuano a travagliare il mondo. Avevo cercato di mostrare come il contatto con situazioni ambientali altamente stressanti abbia insegnato moltissime cose agli psicoanalisti e li abbia visti offrire circoscritti, “modesti” e molto preziosi contributi alla sofferenza e alla comprensione della sofferenza dei soggetti coinvolti. E come abbia svolto e svolga un fondamentale compito correttivo rispetto alla tentazione continua di dimenticare il versante ambientale e attuale del trauma per sprofondare nella sola visione del passato e del mondo interno, per chiudersi difensivamente nella “Turris Eburnea” volgendo le spalle al mondo esterno, vivo e presente.

Una maggiore frequentazione della letteratura degli storici, mi ha portata ad accorgermi che esiste pure una storia “che tende la mano”. Poco studiata sui banchi di scuola, ha fatto tesoro di quella psicoanalisi attenta all’esperienza del soggetto.

Scrive per esempio Antonio Gibelli che ha studiato le trasformazioni del mondo mentale nella Grande Guerra: “Ricordo molto bene la forte impressione suscitata in me, storico della guerra, dalla lettura di queste pagine di Freud – si riferisce ai lavori sulle nevrosi di guerra – una trentina di anni fa. Esse fornivano la chiave per penetrare in un versante della guerra pressoché sconosciuto, o almeno largamente ignorato fino ad allora dagli storici, poco abituati a fare la storia del conflitto dall’interno del  mondo mentale e emozionale”.

L’emergenza dei disturbi mentali nel corso della prima guerra illuminava il suo risvolto traumatico che andava posto in relazione con la stessa modernità. Si apriva così, prosegue Gibelli, un vasto campo di studi per il quale le migliaia di pagine delle riviste mediche del tempo e le migliaia di cartelle di archivio degli ospedali psichiatrici diventavano fonti preziose per raccontare “l’altra faccia” della guerra (Gibelli, 2006, 59). Ma non solo quelle, anche le lettere e i diari dei soldati al fronte, dei prigionieri, dei condannati a morte. Le testimonianze dei civili, dei reduci e dei sopravvissuti.

La sensibilità psicoanalitica e la coscienza storica rendono possibile la “vendetta del racconto”, il riemergere del singolo dalla guerra moderna come “catastrofe del soggetto”, come “evento privo di soggetto”. Rendono possibile fermare lo sguardo sul “mondo dei vinti” che poi è il mondo di tutti sovvertito dalla guerra.

Roma, novembre 2011

Firenze, gennaio 2014